01.Saggi-Turati (31-50) - Università di Roma "Tor Vergata"

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Nel caso italiano l'affermazione del diritto alla salu- te nella ... L'articolo descrive l' evoluzione del benessere in Italia dall'unificazione ad oggi, secondo.
Vol. 12, N. 4, Ottobre-Dicembre 2011

La salute degli italiani, 1861-2011

1Dipartimento 2Centro

Politiche sanitarie

Vincenzo Atella1, Silvia Francisci2, Giovanni Vecchi3

di economia e finanza, Facoltà di Economia, Università di Roma Tor Vergata e CEIS Tor Vergata; nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute, Istituto superiore di sanità, Roma; 3Dipartimento di economia e istituzioni, Facoltà di Economia, Università di Roma Tor Vergata

Riassunto. L’articolo descrive l’evoluzione del benessere in Italia dall’unificazione ad oggi, secondo una della sue dimensioni fondamentali, quella della salute. La documentazione presentata nel testo permette di misurare l’evolversi della salute nel tempo e di coglierne anche gli aspetti distributivi, verificando, dati alla mano, in quale misura i miglioramenti nella sopravvivenza e nella qualità della vita siano stati uniformemente distribuiti sul territorio e tra diversi segmenti della popolazione. La storia che emerge è quella di un successo, quale che sia l’indicatore scelto per illustrarla. Persistono tuttavia numerose differenze, specialmente di natura geografica, che mostrano inequivocabilmente quanto il profilo di salute dell’Italia stenti ad essere unitario e si presenti, ad oggi, polarizzato. Il Mezzogiorno, in particolare, fatica a raggiungere i risultati delle Regioni del Centro-Nord. L’esercizio di valutazione quantitativa, oltre che qualitativa, della dinamica ultrasecolare dello stato di salute degli italiani è ricco di suggerimenti anche per valutare le recenti tendenze degli indicatori sanitari alla luce di un sistema sanitario che sta evolvendo in senso federale.

Parole chiave. Aspettativa di vita, Italia, mortalità infantile, storia della salute, transizione epidemiologica. Codici JEL. I14, N33, N34.

Abstract. The article describes how Italians’ wellbeing has improved since Italy’s unification in 1861 with regard to one of its main aspects: health. We measure how health has evolved over time and assess to what extent improvements in the survival rate and in the quality of life have been uniformly distributed in the country and among the different population segments. What emerges is a success story regardless of the indicator chosen to illustrate it. However, quite a few differences still remain - particularly at geographical level - that clearly show how Italy’s health profile is quite polarised. In particular, southern Italy finds it difficult to match the results achieved in the central and northern Regions of the country. Overall, the quantitative and qualitative analyses of the secular dynamics of the Italians’ health status help to assess the recent trends of the health indicators with reference to a public health system that is developing towards a federalist one.

Keywords. Epidemiologic transition, history of health, infant mortality, Italy, life expectancy. JEL codes. I14, N33, N34.

1. Introduzione

La salute è una componente fondamentale del benessere, sia fisico che mentale, dell’individuo e della collettività. Dal 1946 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha attribuito alla salute lo status di diritto e ne ha auspicato il carattere universalistico – la salute è un diritto di tutti i cittadini – per raggiungere il più alto stato di salute possibile. Nel 1947 lo stesso diritto fu riconosciuto e adottato anche dalla Costituzione della Repubblica italiana, che nell’arti-

colo 32 recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Nel caso italiano l’affermazione del diritto alla salute nella Costituzione rappresenta il punto di arrivo di un percorso avviato dal governo Crispi a fine Ottocento, con l’istituzione presso il Ministero dell’interno di una Direzione di sanità pubblica, ma indica al tempo stesso un punto di partenza: la Costituzione ha infatti una natura normativa, prescrive cioè cosa devono o non devono fare i cittadini e le istituzioni,

Questo articolo riprende, in forma ridotta e con alcuni adattamenti, il capitolo III del volume di Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità ad oggi (Bologna, il Mulino, 2011, pp. 73-129). La ricerca è stata realizzata con il contributo incondizionato di Abbott Srl. Vale la formula di rito per eventuali errori ed omissioni.

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ma come tutte le prescrizioni, esse possono essere o meno osservate e rispettate (Onida, 2007). Nell’ambito delle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, questo articolo si è posto l’obiettivo di delineare l’evoluzione dello stato di salute della popolazione italiana dal 1861 fino al 2011. In particolare, si è cercato di documentare in quale misura e con quali modalità l’affermazione del diritto alla salute sia stata effettivamente realizzata nella vita quotidiana della popolazione nel corso dei centocinquant’anni postunitari. L’analisi si è basata su una laboriosa ricostruzione statistica che ha riguardato alcuni fra i più significativi indicatori epidemiologici – la speranza di vita alla nascita, la mortalità infantile, la mortalità generale e la mortalità per causa, il rischio di ammalarsi e la probabilità di sopravvivere a determinate patologie. Nell’illustrare le dinamiche di questi indicatori, si è messo anche a confronto il percorso di miglioramento della salute degli italiani, messo in evidenza dagli indicatori epidemiologici, con quello descritto dal prodotto interno lordo per abitante, l’indicatore più usato dagli economisti per descrivere la prosperità di un paese. Si tratta di un esercizio particolarmente fruttuoso poiché rivela come il quadro che deriva dalla storia sanitaria del nostro paese possa divergere, anche significativamente, da quello registrato da indicatori di natura più prettamente macroeconomica. In tema di benessere, insomma, il Pil non spiega tutto e non sempre racconta la storia giusta. Un secondo aspetto importante sul quale insiste l’articolo è quello dell’equità distributiva: interessa capire se nel corso degli anni i benefici che si sono registrati sul fronte della salute abbiano raggiunto in modo omogeneo le diverse latitudini del paese (la città come la campagna, i bambini come gli anziani, le donne come gli uomini), interessando universalmente e in egual misura tutti i cittadini o se, al contrario, la dinamica della salute si sia manifestata con diverse ‘velocità’ all’interno del paese, e in maniera selettiva, favorendo cioè determinate aree o segmenti di popolazione a discapito di altri. Gli aspetti distributivi sono stati indagati utilizzando informazioni disaggregate per età, genere e geografia, variabili di rilievo nelle analisi dei differenziali di salute nella popolazione e nel tempo. Numerosi sono gli esempi di studi che approfondiscono aspetti di equità nella tutela della salute, guardando in particolare agli andamenti della mortalità totale e per causa (Barbi, 2004; Luy et al., 2011) o della sopravvivenza per specifiche patologie, come i tumori (Quaglia et al., 2005). Non è facile tuttavia trovare studi che coprano un orizzonte temporale ultrasecolare e che facciano riferimento a una molteplicità di indicatori, ciascuno in grado di descrivere una parte del fenomeno guardandone gli aspetti distributivi. Con questo lavoro abbiamo cominciato l’opera di colmare questa lacuna.

L’analisi disaggregata è importante oltre che meritoria, poiché l’universalità del servizio è garantita dalla nostra carta costituzionale, ma fino ad oggi la storiografia italiana non ha offerto risposte, se non parziali, a queste domande. Sebbene sia nota l’esistenza di un gradiente territoriale, non è disponibile un quadro di sintesi che narri gli aspetti distributivi della nostra storia unitaria. La capacità di leggere congiuntamente i progressi medi del paese in termini di salute con l’equità della loro distribuzione è, quindi, uno dei punti di forza di questo articolo. Infatti ciò permette di apprezzare quanto l’intervento pubblico sia stato in grado di realizzare – de facto oltre che de iure – la dichiarazione di principio dell’art. 32 della Costituzione, secondo cui la salute è un diritto che spetta a tutti i cittadini italiani. L’organizzazione dell’articolo è la seguente. Il paragrafo 2 presenta la ricostruzione della speranza di vita alla nascita degli italiani dall’Unità a oggi. Il paragrafo 3 analizza alcuni indicatori di mortalità, mentre il paragrafo 4 esamina l’evoluzione del quadro nosologico. Gli aspetti distributivi sono trattati nel paragrafo 5, che esamina l’evoluzione della mortalità infantile, e nei paragrafi 6 e 7, che ricostruiscono la distribuzione e la dinamica territoriale degli indicatori sanitari. Il paragrafo 8 indaga il ruolo dello Stato – delle sue leggi e delle sue politiche sanitarie – nel promuovere e tutelare la salute dei cittadini. Il paragrafo 9 si concentra sulle malattie cardiovascolari e le neoplasie, due delle patologie più importanti dell’età contemporanea. Il paragrafo 10 contiene alcune considerazioni finali.

2. La speranza di vita alla nascita

L’Italia è uno fra i paesi al mondo in cui si vive più a lungo. Le classifiche compilate dalle agenzie internazionali non sono sempre concordi nell’assegnare la posizione d’ordine dell’Italia, ma la conclusione è robusta. I dati più recenti, diffusi nel 2010 dal Global health observatory dell’Oms, collocano l’Italia al quarto posto, alle spalle di Giappone, Svizzera e Australia, in una lista che conta oltre duecento paesi. L’indicatore statistico utilizzato per misurare la longevità è la ‘speranza di vita alla nascita’ e misura il numero di anni che un individuo può aspettarsi di vivere mediamente al momento della nascita. L’Istat stima che i bambini nati nel 2011 in Italia potranno attendersi di vivere – in media – 82 anni, con un vantaggio di oltre 5 anni se a nascere sarà una femmina (la speranza di vita stimata per le donne è 84,8 anni contro i 79,3 anni degli uomini). Il traguardo di 82 anni di vita media rappresenta un successo ragguardevole se si considera che i bambini del Regno d’Italia, nel 1861, avevano una speranza di vita che non superava i 29-30 anni. Questa conquista, la longevità, è probabilmente la più eloquente fra quelle conseguite nella storia del paese.

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85 80 75 Speranza di vita alla nascita

70 65 60 55 50 45 40 35 Maschi

30

Femmine

25 20

1861 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011 Anno

Figura 1 - La speranza di vita alla nascita, Italia 1861-2011. Le fonti sono riportate nell’Appendice.

La figura 1 mostra che la dinamica del processo di allungamento della vita media ha seguito un andamento approssimativamente lineare, interrotto solamente dagli anni di conflitto1. Nel corso del secolo e mezzo osservato, gli italiani hanno guadagnato mediamente quattro mesi di vita all’anno: ogni tre anni, i nuovi nati nel Regno potevano attendersi una vita media più lunga di un anno rispetto ai bambini nati tre anni prima. La figura 1 mette in luce altri aspetti che meritano un commento. Il primo riguarda la straordinaria arretratezza delle condizioni di vita medie dell’Italia al momento dell’unificazione. Il dato stimato per il 1861 evidenzia progressi modestissimi rispetto al passato, anche remoto: se, per esempio, consideriamo il caso dell’antica Roma, studiatissimo da storici e demografi storici, le stime della speranza di vita indicano valori che oscillano intorno ai 25 anni ed esprimono bene l’idea di quanto le condizioni di vita nel 1861 fossero più simili a quelle prevalenti due millenni addietro che non a quelle rilevate oggi, a distanza di ‘appena’ centocinquant’anni (Hopkins, 1966). Se il confronto avviene con i paesi coevi, quelli di metà Ottocento, emerge come in Italia si vivesse in media 10 anni di 1L’intensità del picco di mortalità corrispondente alla prima guerra mondiale è dovuto alla concomitanza della guerra con altri eventi funesti: il terremoto della Marsica in Abruzzo (1915) e la cosiddetta ‘spagnola’, la più devastante pandemia influenzale (1918-19) della storia moderna (Pinnelli e Mancini, 1999).

meno rispetto alla vicina Francia e 16-17 anni di meno rispetto alla Svezia. Nel mondo di oggi non esiste nazione in cui si registrino valori della speranza di vita tanto bassi quanto quelli prevalenti nell’Italia di metà Ottocento. Stando ai calcoli dell’Oms, nei paesi più poveri del pianeta – tutti localizzati nell’Africa subsahariana – la speranza di vita alla nascita è oggi intorno o superiore a 40 anni. L’arretratezza italiana misurata attraverso la speranza di vita è ben più ampia di quella che emerge dai confronti basati sul Pil per abitante. Il confronto con la Svezia è molto istruttivo. Stando infatti alle stime di Maddison (2010), nel 1861 la Svezia era più povera dell’Italia (circa il 5% in termini di Pil per abitante), ma registrava una speranza di vita superiore di 16-17 anni. Longevità e Pil, insomma, non raccontano la stessa storia e la lezione generale che se ne trae è da ricordare: per formulare un giudizio compiuto sui progressi medi del benessere della nazione non solo il Pil per abitante può non bastare, ma può essere addirittura fuorviante. Un secondo commento riguarda le differenze di genere. La figura 1 mostra che fino alla prima guerra mondiale, nascere maschio o nascere femmina non cambia significativamente il numero di anni che un individuo può sperare di vivere. La differenza nell’attesa di vita tra uomini e donne comincia a comparire nel periodo tra le due guerre, anche se la forbice si apre e diventa vistosa nel secondo dopoguerra. Alla vigilia della seconda guerra mondiale le

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Giappone

85 80 75 Canada

Speranza di vita alla nascita

70 65 60

Regno Unito Stati Uniti

Svezia

55 50 45 40

Spagna

35 Francia

30 25

Italia

20 1861 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011 Anno

Figura 2 - La vita media in Italia a confronto col resto del mondo, 1861-oggi. Fonti: nostre elaborazioni su dati Hmd (2010) e altre fonti descritte nell’Appendice.

donne hanno guadagnato 3 anni di vita rispetto agli uomini, un divario che aumenta nel dopoguerra fino a sfiorare i 7 anni di differenza verso la fine degli anni Settanta. È solo dalla seconda metà degli anni Novanta che si assiste a un’inversione di tendenza: i dati più recenti mostrano che le donne sopravvivono mediamente 5 anni e mezzo in più degli uomini2. Per cogliere l’ampiezza del progresso compiuto dall’Italia sul fronte della longevità nel corso del periodo postunitario è utile effettuare alcuni confronti internazionali. La figura 2 pone a confronto l’Italia con un insieme di paesi ristretto ma significativo, che comprende il Giappone (il paese a oggi più longevo), gli Stati Uniti (il più ricco in termini di Pil per abitante), la Francia, la Spagna e il Regno Unito (i vicini di casa), la Svezia (il paese più generoso dal punto di vista dell’assistenza sanitaria) e il Canada (vicino di casa degli Stati Uniti, ma con un sistema sanitario prevalentemente pubblico, in parte riconducibile a quello dei paesi dell’Europa occidentale).

2Attualmente il 60% del vantaggio relativo delle donne è dovuto alla minore mortalità per malattie cardiovascolari e tumori, che rappresentano, nel complesso, il 70% della mortalità generale (Istat-Iss, 1999; Istat, 2005; Egidi, 2007). Il fenomeno è comune alla maggior parte dei paesi industrializzati ed è spiegato in parte dal cambiamento nello stile di vita, ma soprattutto dal fatto che due categorie di patologie – le malattie cardiovascolari e le neoplasie – colpiscono nelle loro forme più severe la popolazione maschile più frequentemente di quella femminile (si veda il paragrafo 9).

La figura mostra che nel corso dei primi cinquant’anni il Regno l’Italia raggiunge la Francia (nonostante quest’ultima disponga di un Pil per abitante superiore del 35% rispetto a quello italiano). La dinamica della speranza di vita in Italia segna una battuta d’arresto nel periodo fra le due guerre (durante questi anni si interrompe il recupero relativo ad altri paesi, ma prosegue quello assoluto), e riprende ad aumentare a partire dall’immediato secondo dopoguerra. A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento avviene il sorpasso: la vita media in Italia scavalca in durata quella prevalente in numerosi altri paesi leader in questo campo, eccezion fatta, come s’è detto, per Giappone, Svizzera e Australia. Se la traiettoria della speranza di vita racconta, inequivocabilmente, la storia di un successo, restano da affrontare due questioni. La prima riguarda la capacità – da parte dell’indicatore ‘speranza di vita alla nascita’ – di cogliere adeguatamente l’entità dei progressi conseguiti nei decenni più recenti; i margini di guadagno in termini di longevità si fanno più esigui e diventa fondamentale rivolgere l’attenzione non solo alla “quantità” (durata) della vita ma anche ad aspetti relativi alla “qualità” della vita. La seconda questione da esaminare riguarda le cause dello spettacolare aumento della longevità: quali i fattori responsabili? Misurare la qualità degli anni di vita è questione complessa, che richiede di definire (prima ancora

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Mortalità generale (morti per 1000 abitanti)

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Influenza spagnola (1918-19)

35 30 25 Seconda guerra mondiale 20 15 10 5 1861 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011 Anno La linea continua rappresenta il tasso grezzo di mortalità (morti per 1000 abitanti) e quella tratteggiata il tasso standardizzato per età (morti per 1000 abitanti, stima aggiustata per tener conto della struttura per età della popolazione), disponibile solo dal 1970. La mortalità standardizzata permette di evidenziare i miglioramenti dello stato di salute della popolazione anche nei periodi più recenti, quando l’invecchiamento della popolazione italiana tende a mascherarli.

Figura 3 - La mortalità generale, 1863-2007. Le fonti sono riportate nell’Appendice.

che misurare) ciò che può essere considerato uno stato di ‘buona salute’3. Sono state proposte misure oggettive che identificano la buona salute con l’assenza di specifiche malattie (per esempio, malattie croniche o tumori), siano esse dichiarate dagli individui o clinicamente accertate; sono anche state proposte misure soggettive basate sulle percezioni individuali del proprio stato di salute. Considerando l’indicatore ‘speranza di vita in buona salute’ – costruito sulla base della speranza di vita alla nascita, corretta per il numero di anni trascorsi con problemi di salute – l’Italia conferma la propria posizione di benessere anche nei confronti internazionali. I dati dell’Oms, relativi all’ultimo decennio, collocano l’Italia alle spalle di Giappone, Svizzera e Australia. Dietro, i restanti 194 paesi del mondo4. 3Economisti

ed epidemiologi si occupano da tempo della misurazione della qualità degli anni di vita senza riuscire nel compito di identificare un indicatore preferibile (Torrance, 1976; Jones, 1977; Pliskin et al., 1980). 4L’indice utilizzato dall’Oms si chiama Hale (Health adjusted life expectancy) e tiene conto non solo della mortalità, ma anche di una molteplicità di condizioni che compromettono parte del benessere dell’individuo. Risultati analoghi si ottengono guardando al Dfle (Disability free life expectancy), un indice simile al precedente, dove la correzione è basata sulla prevalenza di disabilità.

All’origine dell’allungamento della vita è la dinamica della sopravvivenza e dei suoi principali determinanti: i miglioramenti delle strutture pubbliche sanitarie, i progressi della medicina (l’introduzione di nuove profilassi e terapie mediche), lo sviluppo economico (responsabile del miglioramento delle condizioni alimentari), i progressi in termini di comportamento (pratiche igieniche e stili di vita), il ruolo di una migliore istruzione e del risanamento ambientale (Riley, 2001). Per districare l’importanza relativa di questi fattori è necessario andare oltre l’esame della speranza di vita e ampliare il quadro considerando altri indicatori che permettano di distinguere quali componenti – malattie e/o categorie di individui – influiscano sulla sua dinamica.

3. La mortalità generale

Un’immagine per certi versi speculare a quella della speranza di vita è data dall’andamento della mortalità generale della popolazione (figura 3). L’indicatore ‘tasso grezzo di mortalità generale’ è definito come il numero totale delle morti registrate nel paese in un determinato anno ogni mille individui; per esempio, un tasso di mortalità pari a 20 significa

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che in quell’anno sono morte 20 persone ogni mille abitanti, ovvero il 2% della popolazione. Si ritiene che 45-50 morti per mille abitanti rappresenti un valore massimo, non sostenibile a lungo per una società, che si osserva soltanto durante periodi eccezionali di pestilenza, carestia o simili (Rowland, 2003); oggi non esiste paese al mondo con un tasso di mortalità superiore al 30‰ (Who, 2010). La figura 3 mostra l’andamento secolare della mortalità generale degli italiani nel corso del secolo e mezzo passato. Gli aspetti interessanti riguardano non solo la riduzione del numero delle morti per mille abitanti (da 30 a meno di 10), ma anche la riduzione della loro variabilità nel tempo (un fenomeno visibile anche nella curva della speranza di vita alla nascita). I picchi evidenziati nel corso del primo secolo (fra i quali si distingue quello immediatamente successivo al primo conflitto mondiale, che riassume in sé gli esiti della guerra e dell’epidemia di influenza spagnola) diventano sempre più rari: le crisi di mortalità erano frequenti nel passato, dovute a gravi carestie e pandemie, ma tendono ad esaurirsi, fino a scomparire completamente, a partire dal secondo dopoguerra (Del Panta, 1980). Intorno alla metà degli anni Cinquanta del Novecento, la mortalità generale raggiunge un plateau, assestandosi attorno ad un valore di 9-10 morti per mille abitanti. L’apparente assenza di un miglioramento nei periodi più recenti è dovuta al progressivo

invecchiamento della popolazione che mantiene costante il numero totale di decessi per anno, anche quando il rischio di morire continua a diminuire. Tale fenomeno è evidenziato nella figura 3 dal confronto tra il tasso grezzo (linea continua), che rimane stabile, ed il tasso standardizzato, per tenere conto della struttura per età, che al contrario mostra una dinamica in diminuzione. In altre parole, la linea tratteggiata rappresenta l’andamento della mortalità che avremmo osservato se la popolazione, anziché invecchiare, avesse mantenuto una struttura demografica costante, pari a quella osservata negli anni Settanta. La conclusione è dunque netta: pur partendo da condizioni iniziali straordinariamente arretrate, l’Italia ha raggiunto i paesi più virtuosi caratterizzati dai tassi di mortalità più bassi al mondo.

4. La mortalità per causa

La ricostruzione dell’evoluzione del quadro nosologico costituisce un tassello analitico fondamentale per individuare i nessi causali alla base del successo della longevità degli italiani, nonché per capire chi e quando, all’interno della popolazione italiana, abbia beneficiato dei progressi sanitari. La figura 4 mostra come il quadro delle malattie si modifichi in maniera sostanziale nei centoventi anni considerati (Pozzi, 1990). Nel 1881, primo anInfettive Apparato respiratorio Cardiovascolari Gastroenteriche Neoplasie

800

Morti per 100.000 abitanti

600

400

200

0 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 Anno

Figura 4 - Mortalità per causa, Italia 1881-2001. Le fonti sono riportate nell’Appendice.

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no per il quale si dispone di dati utili, la causa di morte prevalente è data dalle malattie infettive, una categoria che comprende molte patologie presenti ai nostri giorni – il morbillo, la scarlattina, la pertosse – ma anche altre, oggi del tutto o quasi scomparse dal nostro paese – il vaiolo, la difterite, la malaria e la tubercolosi. Nel 1881 le malattie infettive in Italia erano responsabili di circa il 30% di tutte le morti (Caselli, 1991). Seguivano, in ordine di importanza, le malattie dell’apparato respiratorio (bronchiti e polmoniti) e l’influenza, seguite dalle malattie gastroenteriche. Caselli (1991) ha stimato che l’insieme di queste due categorie di patologie fosse causa del 25% del totale dei decessi. Le linee evolutive delle cause di morte nel corso del periodo 1881-2011 emergono con chiarezza dalla figura 4: si assiste alla scomparsa, pressoché totale, della mortalità causata dalle malattie infettive; si riducono le morti causate dalle gastroenteriti (patologie legate alle condizioni ambientali, socioeconomiche e climatiche), nonché quelle dovute a polmonite, bronchite e influenza (categoria indicata con l’espressione ‘apparato respiratorio’). A fronte del declino di queste patologie, emerge altrettanto chiaramente l’aumento graduale di alcune malattie croniche (quelle legate al sistema cardiocircolatorio e alle neoplasie), che si accompagnano al processo di invecchiamento della popolazione5. Se esaminiamo l’evoluzione delle principali malattie infettive (tubercolosi, febbre tifoide, difterite, morbillo, malaria, scarlattina e pertosse), emergono progressi rapidi, che hanno portato a debellare quasi completamente la mortalità ad esse associata. Ciò avvenne, si noti, in concomitanza con la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, dunque prima che il reddito medio degli italiani ‘decollasse’. Non vi è sincronia fra il ‘miracolo economico’ del secondo dopoguerra e la sconfitta della mortalità delle malattie infettive: la seconda precede la prima. Le cause sottostanti alla sconfitta della mortalità delle malattie infettive sono da rintracciare non soltanto nel generale miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, correlate al reddito, ma anche nella diffusione di conoscenze in campo medico, dei vaccini e dei farmaci, fattori spesso non direttamente correlati con la crescita economica del paese. La farmacologia, in particolare, concorre in maniera decisiva al miglioramento dello stato di salute della popolazione con un’evoluzione che accompagna quella del quadro nosologico esaminato in questo paragrafo. I primi contributi risalgono agli inizi del Novecento, grazie alle scoperte riguardanti le vi5Altre patologie, non considerate in questa sede per ragioni di spazio, sono in aumento: il diabete, le cosiddette neurodegenerative (Alzheimer, Parkinson) e le asmatiche.

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tamine, alle proprietà antibatteriche di alcuni sulfamidici e agli effetti terapeutici dell’insulina nella cura del diabete. Dal secondo conflitto mondiale, la terapia farmacologica assume un ruolo di primo piano. Nei primi anni Cinquanta vi sono importanti passi in avanti nella cura e nella prevenzione delle patologie cardiovascolari, con la somministrazione di antipertensivi (diuretici, calcio-antagonisti, betabloccanti). Risale al 1956 la somministrazione della prima terapia per il cancro metastatizzato. A seguire, nel 1965, la farmacopea ufficiale riconosce i sulfamidici, gli antibiotici, gli antistaminici, i cortisonici, le vitamine, gli ormoni, gli antidiabetici orali, gli antinfiammatori, i contraccettivi orali, gli psicofarmaci, oltre ad altri sieri e vaccini specifici. Questo mutato quadro farmacologico permette di cancellare le malattie infettive – presto archiviate come ‘malattie del passato’ – e sostituirle con quelle caratterizzate da una molteplicità di fattori di rischio, quali le malattie cardiovascolari e le neoplasie. Alcuni esempi riportati di seguito aiutano a comprendere la portata e la dinamica del cambiamento della mortalità per causa: quello della tubercolosi, quello della malaria ed infine quello della pellagra.

4.1. La tubercolosi

A metà dell’Ottocento la letalità e la relativa facilità di contagio (la trasmissione del batterio della tubercolosi avviene per via aerea) rendevano la tubercolosi la più rilevante tra le malattie con un numero medio di 220 morti su 100.000 abitanti l’anno. Ciò che rendeva temibile la malattia non era soltanto la penosa sofferenza che imponeva al malato, ma anche la relativa facilità di contagio. Nel contesto dell’Italia ottocentesca, le abitazioni sovraffollate e l’attività lavorativa svolta in ambienti chiusi rendevano particolarmente esposta la parte meno benestante della popolazione6. Nel 1882 Robert Koch (1843-1910) scoprì l’agente patogeno (ovvero il microrganismo infettante) della tubercolosi, il Mycobacterium tuberculosis, mostrando per la prima volta l’esistenza di un legame di causa ed effetto fra un microrganismo specifico e una malattia umana. Individuata la causa della tubercolosi, occorreva trovare una cura. Nel corso dei decenni successivi divenne sempre più chiara la natura sociale della malattia, la quale colpiva preferibilmente le classi povere e si diffondeva con facilità a causa del sovraffollamento e del pessimo stato delle abitazioni nelle città, l’insalubrità delle industrie e dei luoghi pubblici, la diseducazione igienica e, in generale, l’insufficiente alimentazione delle classi popolari. 6Tutto ciò era naturalmente ignoto agli scienziati di metà Ottocento, i quali avevano sviluppato soltanto congetture circa l’eziologia della tubercolosi.

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Sebbene non si rendessero disponibili né vaccinazioni né cure efficaci, aumentarono le misure volte a rafforzare la profilassi, crebbe cioè il grado di controllo sociale della malattia. Aumentarono anche gli interventi di contrasto della malattia, tanto sul piano collettivo quanto su quello individuale: iniziarono pratiche di disinfezione, furono fondati dispensari e sanatori, si incoraggiò l’ipernutrizione dei malati (un organismo robusto è meno vulnerabile ai batteri), vennero intensificate le opere di bonifica ambientale attraverso la creazione di sistemi fognari e la lotta contro i fenomeni di addensamento nelle abitazioni urbane, venne incoraggiata la diffusione dell’educazione igienica. Tali misure furono proseguite anche durante il fascismo con il risultato di una drastica riduzione della mortalità già prima della scoperta del primo antibiotico, la streptomicina, commercializzata in Italia a partire dal 1947. 4.2. La malaria

Come la tubercolosi, la lotta alla malaria si inserisce nel filone della medicina sociale, affermatosi in Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento con il fine di contrastare le patologie che colpivano strati specifici della popolazione, quelli più poveri, ai margini della società. Si tratta di una patologia particolarmente interessante in quanto associata alle paludi e – più in generale – è sinonimo di ambiente malsano. È, in altre parole, una malattia rivelatrice del grado di arretratezza del territorio. La malaria uccideva, intorno al 1881, oltre 50 persone su 100.000 abitanti del Regno. Tuttavia il dato nazionale va interpretato con cautela, in quanto la malaria era un problema presente in forma acuta ed endemica in alcune Regioni, ma pressoché assente in altre: nel 1881, Basilicata, Calabria, Lazio e Sardegna presentavano tassi di mortalità compresi fra 150 e 200 morti per 100.000 abitanti a fronte dei 4-12 morti per 100.000 abitanti in Liguria, Lombardia e Marche. Laddove presente, la malaria era un fattore “stabile, permanente e fortemente condizionante, sia dal punto di vista economico che demografico” (Rossi, 1982, p 233) e colpiva i ‘poveri’ (i lavoratori delle campagne) piuttosto che i ricchi (i grandi proprietari terrieri, assenti dai fondi di cui erano signori, nonché i ‘notabili’, variamente classificati come avvocati e professionisti vari - Corti, 1984)7. La malaria venne contrastata tanto sul piano della bonifica dei terreni paludosi quanto su quello delle trasformazioni agricole, secondo l’idea che le colture intensive sono sfavorevoli alla produzione di malaria. L’attività di contrasto si svolse anche sul 7Si stima che negli anni Ottanta dell’Ottocento la malaria incidesse sulla mortalità generale per oltre il 10%, con punte fino al 23% in Regioni come la Sicilia (Tognotti, 1996).

piano della profilassi e delle cure, attraverso numerosi interventi legislativi, a partire da quello che favorì la diffusione del chinino, somministrato gratuitamente ai soggetti che lavoravano nelle aree a rischio a partire dal 1901. I dati del 1911 mostrano progressi già significativi: la malaria uccide meno di 10 persone su 100.000 abitanti. Negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra emerse nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica la necessità di fronteggiare, oltre all’improvvisa epidemia della febbre spagnola, gli effetti delle ‘malattie sociali’, che colpivano con particolare intensità determinati strati della popolazione e si manifestavano soprattutto nella cosiddetta ‘triplice endemia’: la malaria, non ancora debellata nonostante i progressi di inizio secolo, la sifilide e la tubercolosi. Il giudizio degli studiosi è unanime nel denunciare l’insufficienza della legislazione antimalarica durante il periodo liberale (Corti, 1984). La propaganda fascista non tardò a criticare le linee guida a cui si erano ispirati i provvedimenti del passato, basati sulla prestazione assistenziale (la distribuzione del chinino), contrapponendo ad essi un modello imperniato sulla bonifica dei territori malsani, non solo attraverso l’opera di prosciugamento, ma anche mediante una trasformazione permanente dei territori bonificati, convertiti all’attività agricola intensiva (Tognotti, 1996). I provvedimenti più importanti furono varati fra il 1923 e il 1934 attraverso una serie di misure legislative approntate per arrivare alla bonifica integrale. Nella seconda metà degli anni Trenta, in seguito al venir meno delle risorse economiche, l’opera di bonifica si arrestò bruscamente. Non solo, ma il quantitativo di chinino distribuito per le cure subì un drastico ridimensionamento. Nonostante l’intervento legislativo e il fatto che la ricerca per combattere la malaria avesse compiuto ulteriori e notevoli passi avanti, nel corso del ventennio la dimensione del fenomeno malarico e il divario territoriale Nord-Sud rimasero problemi in cerca di soluzione. La riduzione della mortalità per malaria conferma che molteplici sono stati i fattori responsabili dei miglioramenti (i progressi della medicina, dell’igiene pubblica e della politica economica) e non tutti sono riassumibili nella dinamica del reddito medio per abitante. Dall’analisi dei dati regionali emergono peraltro diverse dinamiche; durante il periodo 18811941 nel Lazio il tasso di mortalità crollò di dieci volte, in Basilicata e Calabria di circa sei volte, mentre in Sardegna i progressi furono modestissimi. Con riferimento al caso sardo, per debellare questa patologia servirà l’aiuto di due altri fattori chiave: la chimica (nella fattispecie il DDT) e l’intervento degli americani attraverso la Fondazione Rockefeller.

173

Atella V et al: La salute degli italiani, 1861-2011

4.3. La pellagra

Sebbene la pellagra costituisca una causa di minore rilievo nel quadro della mortalità considerato (rappresenta solo 0,5% della mortalità totale), è comunque un interessante caso di studio sia per l’eziologia (si tratta di una malattia dovuta a malnutrizione cronica) sia per la sua prevalenza in determinati strati di popolazione, tipicamente i lavoratori di alcune aree rurali del nord Italia (Finzi, 1982, p 399). Questi due fattori stabiliscono un legame molto stretto fra la presenza di questa malattia e le condizioni di vita dei più poveri fra i poveri della popolazione, il che suggerisce di utilizzare la pellagra come un marker in grado di segnalare in quale misura il processo di sviluppo economico ha avuto successo nel diffondere i propri benefici raggiungendo i segmenti più bisognosi della popolazione. Adottando questa interpretazione, la figura 5 porta a formulare una valutazione positiva del processo di sviluppo economico all’interno delle Regioni considerate: in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – le tre Regioni storicamente più colpite dalla pellagra – la mortalità diminuisce sensibilmente a partire dal 1887. Le singole esperienze regionali sono diverse, tuttavia il quadro d’insieme indica non solo un miglioramento complessivo, ma anche una dinamica molto rapida di eradicamento del morbo. Il risultato nella figura 5 è coerente con le analisi svolte sulla statura degli italiani (A’Hearn e Vecchi,

2011) e, in particolare, con i dati relativi alla percentuale di popolazione sottonutrita (Sorrentino e Vecchi, 2011), i quali hanno portato a concludere che il regime alimentare della popolazione fosse migliorato significativamente negli anni considerati (18871951). L’analisi relativa al ‘triangolo della pellagra’ supporta la tesi di un’‘industrializzazione benevola’ (Toniolo, 2003; Vecchi, 2003), secondo la quale lo sviluppo economico ebbe successo nel coinvolgere la periferia, ovvero i segmenti più poveri della popolazione. Occorre non dimenticare, comunque, che per sconfiggere le ‘malattie da carenza’ qual è la pellagra, in aggiunta al ruolo svolto dall’effetto reddito (il quale consente di migliorare l’alimentazione) opera la conoscenza acquisita in campo medico (la comprensione dell’eziologia della malattia consente, con un intervento contenuto sulla dieta, di scongiurare la morte, anche a parità di reddito).

5. La mortalità infantile

Al tempo dell’unificazione, la probabilità di sopravvivenza durante le prime fasi della vita non era elevata. I primi dati disponibili per l’Italia risalgono al 1863 e mostrano che, in media, un bambino su 10 non riusciva a superare il primo mese di vita, mentre uno su 4 non sopravviveva al primo anno di vita. Probabilità di morte così elevate non si trovano più nel mondo di oggi, neppure in Angola, nella Repub-

Morti per 100.000 abitanti

60

40

Veneto Lombardia Emilia-Romagna

20

Italia

0 1881

1891

1901

1911

1921 Anno

Figura 5 - Il ‘triangolo della pellagra’, 1887-1951.

1931

1941

1951

174

Politiche sanitarie, 12, 4, 2011

blica del Congo, o nel Ciad – i tre paesi caratterizzati dai maggiori tassi di mortalità infantile nel mondo. A distanza di centocinquant’anni il quadro è radicalmente migliorato: ad oggi, soltanto 2 bambini su 1000 muoiono nel primo mese di vita, mentre la mortalità entro il primo anno di vita è inferiore a 4 bambini su 1000. L’Italia, nella sostanza, ha sconfitto la mortalità infantile, allineandosi ai paesi più virtuosi al mondo. Per capire come e in quali tempi si sia modificata la struttura per età della mortalità abbiamo ricostruito nella figura 6 la distribuzione dei decessi per età, separatamente nelle popolazioni maschile e femminile, facendo riferimento a quattro date significative della nostra storia. Il primo grafico (in alto a sinistra) mostra la situazione nel 1872, primo anno per cui disponiamo dei dati necessari alla nostra analisi. La figura mostra che la percentuale più consistente delle morti ha luogo nel corso del primo anno di vita (circa il 22% della popolazione muore prima del compimento del primo anno d’età): in generale, quanto più è larga

la base del grafico tanto più le morti dei bambini contribuiscono al totale delle morti nella popolazione. Leggendo la figura in senso orario, si nota come nel corso dei decenni successivi la base dell’istogramma si restringa (per effetto del calo della mortalità fra le classi di età più giovani), e la parte superiore si allarghi a causa dell’aumento dei decessi in età anziana. Il punto di arrivo di questo processo è mostrato nel grafico relativo al 2006 (in basso a sinistra): la distribuzione delle morti ha assunto una forma simile a quella di un fungo (Rowland, 2003). La base della distribuzione si è ristretta fin quasi a scomparire, mentre lo ‘stelo’ del fungo, sottile e sempre più esile, indica che le probabilità di morte nelle classi d’età centrale della vita sono molto basse. D’altro canto, l’ampiezza del ‘cappello’ del fungo indica che la morte è posticipata alle fasce più anziane della popolazione. L’asimmetria del cappello riflette il fatto che i maschi muoiono in età più giovanile delle donne, circostanza comune a tutte le economie industrializzate.

1911

Età

Età

1872 95+ 85-89 75-79 65-69 55-59 45-49 35-39 25-29 15-19 5-9 0 12 10 8

95+ 85-89 75-79 65-69 55-59 45-49 35-39 25-29 15-19 5-9 0

6 4 2 0 2 4 6 8 10 12 Percentuale di tutte le morti

12 10 8

1951

95+ 85-89 75-79 65-69 55-59 45-49 35-39 25-29 15-19 5-9 0

Età

Età

2006

12 10 8

6 4 2 0 2 4 6 8 10 12 Percentuale di tutte le morti

6 4 2 0 2 4 6 8 10 12 Percentuale di tutte le morti Maschi

95+ 85-89 75-79 65-69 55-59 45-49 35-39 25-29 15-19 5-9 0 12 10 8

Femmine

Figura 6 - La distribuzione della morte per età e genere, 1872-2006. Fonte: Hmd, 2010.

6 4 2 0 2 4 6 8 10 12 Percentuale di tutte le morti

Tasso di mortalità infantile (numero di morti per 1000 nati vivi)

Atella V et al: La salute degli italiani, 1861-2011

175

300 Germania Italia 200 Spagna

100

Francia Regno Unito

0

Svezia

Stati Uniti

1861 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011 Anno

Figura 7 - Il tasso di mortalità infantile: l’Italia a confronto con il resto del mondo. Le fonti sono riportate nell’Appendice.

Nel complesso, l’evoluzione della distribuzione delle morti per età illustrata nella figura 6 suggerisce che i bambini siano stati i primi a beneficiare del miglioramento della salute con la sconfitta delle malattie infettive e gastrointestinali, che ha comportato una marcata riduzione della mortalità della parte più giovane della popolazione. Quanto sopra spiega gli straordinari guadagni nella speranza di vita alla nascita esaminati nella figura 1: a parità di altre condizioni, una vita salvata entro i primi 12 mesi permette infatti di aggiungere molti anni alla sopravvivenza media della popolazione. La riduzione della mortalità evidenziata nella figura 6 non può essere rappresentata come un processo lineare nel tempo come, invece, evidenzia la serie storica del tasso di mortalità infantile (calcolato su base annuale, come rapporto tra i decessi nel primo anno di vita e il numero dei nati vivi), un indicatore sensibile alle condizioni igienico-sanitarie della popolazione. Nel 1863 il tasso di mortalità infantile in Italia era pari a 232 (ossia, di 1000 bambini nati vivi, 232 morivano entro il primo anno di vita), un valore inferiore a quello registrato nello stesso periodo in Germania, ma superiore di quasi il 50% a quello riscontrato in Francia, e del 100% a quello di Inghilterra e Galles. L’arretratezza economica dell’Italia all’indomani dell’Unità aveva dunque un chiaro riflesso nell’elevato tasso di mortalità infantile registrato alla metà dell’Ottocento.

Nei decenni successivi all’unificazione la mortalità infantile in Italia si riduce in modo pressoché lineare (Pinnelli e Mancini, 1991). La figura 7 mostra che prima del finire del secolo l’Italia raggiunge i livelli della Francia, un paese che intorno alla metà dell’Ottocento era caratterizzato da un Pil per abitante più elevato di quello italiano del 30-35%. Fino al 1910 circa, la mortalità infantile in Italia rimane superiore ai più alti livelli che si osservano oggi nei paesi più poveri, come la Sierra Leone, la Liberia e l’Angola, dove si riscontrano valori intorno a 150160 morti per 1000 bambini nati vivi. Il processo di convergenza della mortalità infantile italiana verso quella dei paesi leader (la Svezia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) si interrompe nel periodo fra le due guerre, a differenza di quanto avviene in Francia e in Germania, per esempio, che continuano invece a ridurre la distanza che li separa dai paesi più virtuosi. Negli anni successivi la convergenza riprende: la velocità di riduzione della mortalità infantile aumenta con una variazione percentuale annua che passa da un valore dell’1% nel periodo precedente al 1942 a valori vicini o superiori al 5% nei periodi successivi. Si tratta di un cambio di marcia importante e significativo, ma – si noti – non straordinario: la Spagna (caratterizzata da un Pil per abitante inferiore a quello italiano di oltre il 40%) sperimenta una riduzione analoga a quella italiana, mentre Germania e Francia mostra-

176

Politiche sanitarie, 12, 4, 2011

no una dinamica più rapida di quella italiana (Berentsen, 1987)8. Nel complesso, le cifre presentate in questo paragrafo documentano un fenomeno di straordinaria importanza storica: la sconfitta della mortalità – quella generale come quella infantile – non era stata prevista da nessuno studioso, mai, in nessun tempo e luogo. Anzi, a metà Ottocento quando la rivoluzione demografica prese avvio in Italia, la teoria prevalente era quella del reverendo Thomas Robert Malthus (1766-1834), secondo la quale i miglioramenti nei tassi di mortalità non potevano che essere temporanei e di breve durata: il convincimento era che all’eliminazione di una malattia avrebbe fatto seguito l’insorgere di un’altra (Fogel, 1997). Tra i motivi del declino secolare della mortalità sono stati indicati gli effetti delle riforme dei sistemi sanitari pubblici, l’avanzamento nel campo della scienza e della tecnologia medica, i progressi dell’igiene personale e anche collettiva, il miglioramento delle condizioni economiche e soprattutto della nutrizione (McKeown, 1976; Harris, 2004). Nonostante i numerosi articoli e volumi scritti per spiegare il declino della mortalità, non è emersa una tesi che possa definirsi condivisa (Schofield et al., 1991). 6. I differenziali territoriali della speranza di vita alla nascita

La speranza di vita alla nascita mostra una variabilità regionale ampia e persistente nel tempo9. Abbiamo visto che nel 1862 la speranza di vita media nel paese era di 29 anni (dato medio fra maschi e femmine); la dispersione intorno al valore medio nazionale risultava nello stesso anno pari a 12 anni e 6 mesi: gli abitanti di Basilicata e Campania registravano i valori minimi della speranza di vita (rispettivamente 23,6 e 24,2 anni), mentre quelli di Liguria e Puglia i valori massimi (rispettivamente 35,4 e 36,1 anni). La longevità non appariva, insomma, distribuita uniformemente sul territorio nazionale. L’evoluzione delle differenze regionali della speranza di vita non è cosa semplice da riassumere. Nel corso del periodo considerato, le traiettorie regionali alternano fasi di rapida crescita ad altre di stagnazione, dando luogo a un intreccio di linee che non è sempre agevole da districare. La figura 8 mostra il quadro d’insieme: dall’Unità d’Italia, gli abitanti delle Regioni centro-settentrionali registrano – nel loro insieme – una speranza di vita sistematicamen-

8L’esame del tasso di mortalità neonatale (definito come il rapporto fra il numero dei decessi nel corso del primo mese di vita rapportato al numero dei nati vivi) porta a conclusioni simili a quello del tasso di mortalità infantile (Poston e Rogers, 1985).

te maggiore di quelle meridionali. L’immagine romantica del Meridione come terra relativamente meno ricca delle contrade settentrionali, ma più accogliente e salubre richiede, alla luce dei dati presentati, un ripensamento. Il gradiente territoriale Nord-Sud, colto dalla figura 8, riassume la complessità delle dinamiche osservate nelle singole Regioni (rappresentate in forma anonima dal groviglio di linee grigie), anche se in alcuni casi non permette di individuare quei comportamenti che si discostano dall’andamento medio della macroarea di riferimento. Vi sono, infatti, Regioni meridionali in cui si vive più a lungo che in altre settentrionali (è il caso di Sicilia e Puglia che nel 1862 sono in vantaggio rispetto a numerose Regioni settentrionali, fra cui il Piemonte), altre in cui si vive meno a lungo, ma che mostrano dinamiche capaci di recuperare rapidamente le distanze, così come vi sono Regioni settentrionali che vanno talvolta in controtendenza rispetto al miglioramento generalizzato (la Lombardia, che ha una speranza di vita al di sotto della media nazionale fino ad anni molto recenti). Per cogliere l’evoluzione intertemporale delle disuguaglianze regionali, nella figura 9 abbiamo calcolato, per ciascuno dei centocinquant’anni postunitari, la differenza fra la speranza di vita media della Regione più longeva e quella della Regione che presenta il valore minimo (linea tratteggiata). Un valore pari a 10 nell’asse verticale del grafico, per esempio, significa che nella Regione più longeva del paese si vive mediamente 10 anni in più rispetto alla Regione meno longeva. L’evoluzione di questo indicatore consente di identificare i lineamenti del processo di integrazione (sanitario e complessivo) del paese: infatti, quanto minore è la distanza che separa la Regione più virtuosa da quella meno virtuosa, tanto maggiore risulta la capacità del paese di diffondere i benefici all’interno dei propri confini. Una distanza ampia segnala, invece, un sostanziale fallimento di integrazione territoriale. Le stime riportate nella figura 9 raccontano una storia priva di ambiguità: nel corso del primo secolo di vita unitaria l’integrazione non ha avuto luogo, la distanza interregionale è aumentata piuttosto che diminuire. La linea che descrive la tendenza del divario di longevità nel corso degli 8 o 9 decenni che separano l’Unità dal secondo dopoguerra non solo resta ampia (oscilla all’interno di una banda compresa fra 10 e 15 anni), ma mostra una tendenza lievemente crescente: per quasi cent’anni della nostra storia i bambini nati nella Regione meno ‘fortunata’ hanno 9I dati sulla speranza di vita alla nascita presentati in questo paragrafo sono stati forniti da Lorenzo Del Panta, a cui va la nostra gratitudine, oltre che il merito per la ricostruzione statistica delle serie. Le stime Istat della speranza di vita regionale cominciano dall’anno 1980.

Atella V et al: La salute degli italiani, 1861-2011

85 80

Speranza di vita alla nascita (anni)

75 70 65

Centro-Nord

60 55 50 45 40 35

Mezzogiorno

30 25 20 1861 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011 Anno

Figura 8 - Il gradiente territoriale della speranza di vita alla nascita. Le fonti sono riportate nell’Appendice.

Differenza massima nella speranza di vita regionale (anni)

25

20

15

10

5

0 1861 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011 Anno La figura misura come varia nel tempo (asse orizzontale) la differenza fra la speranza di vita alla nascita nella Regione più longeva e quella meno longeva (asse verticale). Per quasi un secolo le differenze persistono: solo a partire dal secondo dopoguerra il processo di convergenza prende forza.

Figura 9 - La persistenza delle differenze interregionali nella speranza di vita alla nascita.

177

178

Politiche sanitarie, 12, 4, 2011

vissuto vite più brevi dei coetanei nati nella Regione più ‘fortunata’. La fortuna di nascere nella Regione giusta si traduceva in un premio pari a circa 12 anni di vita addizionale. In presenza di tali dati, non si può evidentemente parlare di un paese coeso: non dal punto di vista della fornitura di servizi sanitari di base, delle infrastrutture e delle prassi normalmente responsabili dei differenziali di mortalità sottostanti ai divari nella speranza di vita osservati. Sebbene la convergenza della speranza di vita fra le diverse Regioni del paese abbia richiesto un tempo considerevole per compiersi, alla fine convergenza c’è stata: lenta e discontinua, ma c’è stata. I dati più recenti mostrano che la massima longevità è raggiunta nelle Marche (82,7 anni), mentre quella minima è in Campania (80,3 anni): 2,4 anni di differenza rappresentano una distanza significativa, ma incomparabilmente inferiore ai livelli storici registrati nel passato. Un commento a parte riguarda il salto che si osserva nella figura 9 a partire dal secondo dopoguerra, e che segnala la riduzione della variabilità regionale nell’aspettativa di vita, nonché l’avvio di un processo di convergenza interregionale. Questo risultato racchiude in sé due fenomeni che hanno agito in maniera sinergica: da un lato la diversa struttura per età fra le Regioni meridionali e quelle settentrionali, dall’altro l’introduzione degli antibiotici e la loro diffusione sul territorio nazionale. Per comprendere la sinergia tra queste due circostanze occorre partire dall’osservazione che non tutti i segmenti della popolazione traggono lo stesso giovamento dall’introduzione degli antibiotici. Nelle Regioni meridionali, caratterizzate da una struttura demografica ‘giovane’, prevalgono le classi di età più colpite dalle malattie di origine batterica e che quindi registrano maggiori benefici dalla diffusione dell’uso di antibiotici; al contrario, nelle Regioni settentrionali, aventi una struttura demografica relativamente più ‘anziana’, prevalgono le patologie croniche e degenerative, di natura infiammatoria, e le neoplasie, che traggono meno benefici dai progressi della medicina di quegli anni (Mineo e Giammanco, 1968). Si può quindi ipotizzare che la diffusione degli antibiotici, agendo rapidamente e in maniera uniforme sul territorio e combinandosi con una struttura demografica diversa nelle varie Regioni, abbia condotto alla brusca e sostanziale riduzione della variabilità nella vita media attesa evidenziata nella figura 9. In questa prospettiva, l’antibiotico promuove la convergenza tra Regioni operando attraverso due canali: riduce la mortalità delle Regioni del Meridione con maggiore efficacia di quanto non avvenga in quelle settentrionali (l’antibiotico abbatte la mortalità dei bambini e dei giovani, i quali rappresentano una quota prevalente della popolazione meridionale)

e funge da elemento di compensazione all’arretratezza delle strutture sanitarie delle Regioni del Sud10. Per comprendere i meccanismi responsabili della mancata convergenza fra il Nord e il Sud del paese durante la sua storia unitaria si osservi la figura 10 che, attraverso la scomposizione statistica della disuguaglianza della speranza di vita regionale, mette in luce i fattori in gioco. Tale esercizio consiste nel bipartire l’insieme delle Regioni italiane in due gruppi, quelle centro-settentrionali e quelle meridionali (inclusive delle isole), e nell’identificare l’importanza relativa di due diverse fonti di disuguaglianza per spiegare l’andamento della speranza di vita a livello nazionale. La linea continua illustra la diseguaglianza relativamente alla speranza di vita all’interno di ciascuna macroarea, mentre la linea tratteggiata mostra il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Pertanto, con questo grafico si coglie come la dispersione della vita media delle Regioni che appartengono a ciascuna macroarea si modifica nel tempo. Consideriamo il periodo 1861-1891. Nel 1861 oltre l’80% del divario fra Centro-Nord e Meridione è causato dalle differenze regionali interne a ciascuna ripartizione, mentre il restante 20% è causato dalla differenza della vita media fra le due macroaree. Il dato ritrae quindi il paese come un caleidoscopio, senza ripartizioni geografiche ancora ben delineate e caratterizzate. Nel corso dei tre decenni successivi, la disuguaglianza della speranza di vita interna alle due aree rimane la componente più importante della disuguaglianza totale e la sua azione viene rafforzata da un andamento sinergico della differenza della vita media fra le macroaree. L’effetto complessivo è che durante questi primi trent’anni la distanza fra le Regioni in termini di speranza di vita diminuisce: questo andamento è il risultato di una sostanziale immobilità delle disuguaglianze interne alle due macroaree, ma di un significativo allontanamento della vita media fra Nord e Sud. Insomma, si converge ‘da subito’, cioè negli anni immediatamente successivi all’Unità, ma in parallelo a un processo di polarizzazione anch’esso in atto da subito. A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, le differenze regionali interne a Centro-Nord e Mezzogiorno diminuiscono e continuano a decrescere fino ai giorni nostri: Centro-Nord e Mezzogiorno diventano dunque aree sempre più omogenee al loro interno. Nei decenni 1891-1911 l’azione equalizzatrice delle due fonti di disuguaglianza è sinergica, entrambe sono in calo: la maggiore omogeneità intra-area è 10La prima penicillina nazionale, commercializzata con il nome di Supercillin (Prontocillin nella versione pediatrica), fu prodotta a Milano nel 1947 dalla Società Prodotti Antibiotici.

Atella V et al: La salute degli italiani, 1861-2011

179

0,25

Disuguaglianza

0,2

Disuguaglianza interna alle aree

0,15

Disuguaglianza fra le aree 0,1

0,05

0 1861 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011 Anno La figura mostra due curve che rappresentano la disuguaglianza della speranza di vita alla nascita delle Regioni all’interno delle macroaree Centro-Nord e Mezzogiorno (curva nera, asse verticale) e fra le due macroaree (curva grigia). La misura utilizzata è la deviazione logaritmica media (il cui valore si può ottenere, per ciascun anno, sommando le ordinate delle due curve riportate nel grafico).

Figura 10 - Perché la speranza di vita delle Regioni meridionali stenta a raggiungere quella delle Regioni settentrionali?

accompagnata da una corrispondente diminuzione della distanza media fra il Nord e il Sud del paese. Poi qualcosa cambia. Nel periodo fra le due guerre le due forze agiscono in direzione opposta, con intensità simile; si osservano episodi di aumento della distanza media fra Nord e Sud, con intensità sufficientemente ampia per più che controbilanciare la diminuzione della disuguaglianza interna alle aree. Questi movimenti sono responsabili della mancanza di convergenza osservata a livello nazionale nel periodo 1861-1941 evidenziata nella figura 10. Nel secondo dopoguerra le forze che avevano caratterizzato gli andamenti passati mutano in maniera piuttosto brusca. L’Italia esce dal conflitto con la variabilità territoriale nella speranza di vita ai livelli più bassi della sua storia: fra il 1961 e il 1991 la dicotomia Nord-Sud è praticamente scomparsa; la variabilità che si osserva a livello nazionale è tutta spiegata dalle differenze interregionali interne alle macroaree. Nel corso dei due decenni più recenti (1991-2011) si manifestano nuovamente segni di divaricazione fra Nord e Sud: nonostante a livello nazionale la convergenza delle speranze di vita regionali continui, il divario medio Nord-Sud aumenta. La figura 10 non consente di cogliere il fenomeno appena descritto, in

quanto nel tratto relativo all’ultimo ventennio le due curve sono schiacciate dalla scala adottata. Se tuttavia si scompone la disuguaglianza totale (‘bassa’ per gli standard storici, ma non trascurabile e assai significativa per chi ha la responsabilità della politica sanitaria) si osserva che nel decennio più recente circa il 27% del totale è dovuto alla distanza Nord-Sud: nel 1981 questo valore era meno del 2%. Ciò significa che le due macroaree, pur se coese al loro interno, tendono ad allontanarsi fra loro: l’Italia è complessivamente più unita, ha ridotto e sta continuando a ridurre le disuguaglianze della longevità dei propri cittadini, ma non sembra riuscire a risolvere le tendenze alla polarizzazione osservate all’alba dell’Unità. I dati registrano segni di risveglio nel divario della speranza di vita fra Nord e Sud.

7. Regioni e salute infantile

L’andamento del tasso di mortalità infantile nelle Regioni racconta una storia analoga a quella descritta dalla speranza di vita alla nascita. La riduzione dei decessi nel primo anno di vita è comune a tutte le aree del paese, ma la velocità con cui tale progresso si verifica cambia da una Regione all’altra.

180

Politiche sanitarie, 12, 4, 2011

Disuguaglianza regionale (asse di destra)

25

20

200

150

15

100

10

Deviazione standard

Mortalità infantile (numero di morti per 1000 nati vivi)

250

Tassi di mortalità infantile (asse di sinistra) 50

5

0

0 1861 1871 1881 1891 1901 1911 1921 1931 1941 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011 Anno Il grafico mostra due fenomeni. Il fascio di linee grigie indica la riduzione secolare (asse orizzontale, anno di calendario) del tasso di mortalità infantile (asse verticale di sinistra) per le Regioni: ciascuna linea rappresenta una Regione. La linea rossa indica invece la dispersione (misurata attraverso la deviazione standard, asse verticale di destra) dei tassi di mortalità fra le diverse Regioni.

Figura 11 - Il processo di convergenza regionale della mortalità infantile. Le fonti sono riportate nell’Appendice.

Il grafico mostra due fenomeni. Il fascio di linee grigie indica la riduzione secolare (asse orizzontale, anno di calendario) del tasso di mortalità infantile (asse verticale di sinistra) per le Regioni: ciascuna linea rappresenta una Regione. La linea rossa indica invece la dispersione (misurata attraverso la deviazione standard, asse verticale di destra) dei tassi di mortalità fra le diverse Regioni. Il fascio di linee grigie (ciascuna linea rappresenta l’evoluzione del tasso di mortalità infantile per una data Regione) mette in evidenza un processo di divergenza territoriale – accentuato nel periodo fra le due guerre – a cui segue una fase di convergenza negli anni del secondo dopoguerra. Per delineare, in termini più rigorosi, l’evoluzione delle disparità regionali, la figura 11 riporta anche l’evoluzione della deviazione standard dei tassi di mortalità regionali (linea rossa, misurata sull’asse verticale di destra). Quanto più alta è la deviazione standard, tanto maggiore è la disuguaglianza interregionale dei tassi di mortalità. L’andamento della deviazione standard identifica tre sottoperiodi che si sovrappongono con straordinaria precisione alla tradizionale periodizzazione politica: si osserva convergenza ‘lenta’ nel corso dell’Italia liberale (la deviazione standard di-

minuisce), divergenza nel periodo fra le due guerre (la deviazione standard aumenta) e convergenza ‘rapida’ nel secondo dopoguerra. Guardando al dettaglio dei dati regionali, il primo fatto degno di nota relativo ai primi anni dell’Italia unita riguarda gli elevati tassi di mortalità infantile in un’ampia zona dell’Italia centro-settentrionale, in particolare per le Regioni localizzate nella sua parte orientale: Lombardia e Veneto in primis, ma anche Emilia-Romagna, Marche e Umbria (Del Panta, 1997). Per queste Regioni la mortalità infantile è davvero elevata: 1 bambino ogni 4 moriva entro il primo anno di vita, un tasso superiore del 20-40% a quello presente in Campania o in Puglia, dove il rapporto era di 1 bambino ogni 5. Nei decenni successivi all’unificazione la geografia della mortalità infantile si modifica rapidamente, e per certi versi si capovolge, con Veneto ed Emilia-Romagna che alle soglie della prima guerra mondiale raggiungono valori inferiori alla media nazionale, mentre Sicilia e Puglia registrano – nei primi cinquant’anni postunitari – miglioramenti talmente modesti da scivolare in fondo alla graduatoria nazionale della mortalità infantile. La Lombardia, invece, fallisce il suo obiettivo: la discesa del tasso

Atella V et al: La salute degli italiani, 1861-2011

di mortalità c’è stata, ma non è stata sufficiente per tenere il passo con le altre Regioni. La battuta d’arresto della convergenza che ha luogo nel periodo fra le due guerre è il frutto di un processo di polarizzazione molto pronunciato: fra il 1921 e il 1941 tutte le Regioni settentrionali vedono diminuire rapidamente i tassi di mortalità infantile, collocandosi sotto alla media nazionale (l’unica eccezione è la Lombardia, che recupera, ma senza riuscire ad allinearsi al resto delle Regioni settentrionali). Viceversa non tutte le Regioni meridionali riescono a migliorare la propria situazione e tutte mostrano valori della mortalità superiori alla media (con l’unica eccezione della Sardegna). Durante gli anni fra le due guerre l’Italia non si unisce, ma anzi accentua i divari geografici all’interno dei propri confini: è questa la storia contenuta nei tassi di mortalità infantile. Al centesimo anniversario dell’unificazione, l’Italia si presenta dunque chiaramente bisecata: la linea separatrice è il confine a sud di Lazio e Abruzzo. Sopra la linea i bambini sopravvivono al primo compleanno più di quanto non avvenga al di sotto della linea. Le differenze non sono di entità trascurabile: per un bambino che muore in Toscana ve ne sono due che muoiono in Campania. Nonostante l’indice di variabilità complessivo indichi che il paese sta andando nella direzione giusta, le Regioni meridionali sono in evidente ritardo. Negli anni più recenti, in particolare nel 2006, i divari persistono (il tasso di mortalità infantile è pari al 2,9‰ al Nord, al 4,2‰ al Sud) e la fortuna di nascere nella Regione giusta si traduce in un premio pari al 250% di poter sopravvivere al primo compleanno e festeggiare il primo anno di vita. Guardando al quadro delle cause di morte, si osserva che le malattie infettive (il morbillo, la febbre tifoide, etc.), cruciali ai fini della mortalità infantile, colpiscono in misura maggiore le Regioni meridionali rispetto a quelle del Centro-Nord, specialmente all’inizio del secolo e mezzo considerato, quando la mortalità per le patologie infettive era a livelli molto elevati. Persino nel secondo dopoguerra, quando oramai i livelli sono bassi ovunque (grazie agli antibiotici e ai sulfamidici), permane un residuo di eccesso di mortalità nelle Regioni del Sud. Tra le infettive, le malattie dell’apparato respiratorio colpiscono invece maggiormente, e con un’incidenza più elevata, le Regioni del Centro-Nord, caratterizzate dal clima più rigido (Pozzi, 1990). La mortalità per tubercolosi respiratoria colpisce sempre di più le Regioni del Centro e del Nord (valori sopra la media italiana), lungo tutto il periodo in esame. Quale che sia l’angolatura, quella della mortalità infantile generale o quella dello specifico contributo dato da singole malattie, ciò che emerge è il caratte-

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re selettivo dei progressi segnalati dagli indicatori sanitari. Tutti gli indicatori mostrano miglioramenti della salute di carattere universale, nel senso che hanno riguardato tutte le Regioni del paese. Tuttavia non sono stati uniformi né nel tempo né nella geografia: alcune Regioni sono chiaramente rimaste indietro. Questo è accaduto tanto di fronte a patologie che hanno richiesto come rimedio la semplice ‘igiene pubblica’ (la maggior parte delle malattie infettive e gastroenteriche ottocentesche), quanto di fronte ad altre che, per trovare soluzione, hanno invece richiesto l’innovazione scientifica e tecnologica (le malattie croniche e neurodegenerative esplose dalla seconda metà del Novecento). Data l’assenza di ostacoli e barriere, almeno in linea di principio, all’azione di trasferimento e redistribuzione dei benefici derivanti da determinate scoperte medico-scientifiche, oppure alla disseminazione di norme e principi di igiene pubblica o personale, oppure ancora alla distribuzione di farmaci e accesso alle strutture sanitarie, la conclusione che si ricava dai disequilibri passati e presenti è che il paese abbia stentato a redistribuire il miglioramento delle condizioni di salute nella misura e nei tempi che sarebbero stati possibili11. 8. Lo Stato e la salute

Questo paragrafo ha lo scopo di analizzare il ruolo che lo Stato e le istituzioni hanno avuto nella promozione e tutela della salute e come hanno contribuito a determinare il profilo evolutivo che abbiamo appena visto. Le misere condizioni di salute della popolazione alla nascita del Regno sono documentate sia in termini assoluti, sia confrontate con gli altri paesi europei (Della Peruta, 1980). La prima significativa innovazione nel campo della salute pubblica fu l’istituzione, nel 1887, per volontà del Ministro dell’Interno Francesco Crispi, della Direzione generale della sanità pubblica, posta al vertice di una struttura piramidale articolata attraverso i consigli provinciali fino ad arrivare ai medici condotti, veri e propri ‘tecnici della salute’, di cui vennero potenziati il ruolo e le responsabilità. La principale lacuna della legge era la mancata estensione dell’obbligo di assistenza sanitaria gratuita alla farmaceutica, ed un carico sproporzionato di spesa gravante sui Comuni rispetto allo Stato ed alle Province, che contribuì a consolidare gli squilibri territoriali tra aree più o meno sviluppate. 11Manca chiaramente la prova controfattuale; non possiamo cioè documentare le traiettorie degli indicatori sanitari che si sarebbero osservate se si fossero perseguite politiche sanitarie diverse.

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Politiche sanitarie, 12, 4, 2011

L’opera di modernizzazione della legislazione sanitaria promossa da Crispi proseguì con la riforma degli ospedali, che nascono in principio come ricoveri per malati cronici e per poveri, ma ricevono nel seguito anche stanziamenti e finanziamenti statali programmati, con lo scopo di prestare assistenza agli indigenti “tanto in stato di sanità quanto di malattia”. Nel 1868 si assiste alla nascita degli ospedali pubblici nella loro veste moderna, che diffusi capillarmente sul territorio e dotati per legge di almeno tre reparti, medicina, chirurgia e ostetricia, e due servizi, radiologia e laboratorio riescono ad affrontare in modo organico una serie di problemi fino ad allora irrisolti. La riforma ospedaliera del 1890 segnò “un passo avanti sulla strada della riappropriazione degli enti ospedalieri da parte della comunità medica” e un’agevolazione di percorso per “l’avvento della tecnologia di fine secolo” e per “la costruzione dell’ordine clinico” (Frascani, 1986, pp 130, 133 e 203). Tra il 1885 e il 1902 il numero dei malati curati dagli ospedali del Regno aumenta del 50%. Nei due decenni successivi, la nuova legislazione sanitaria fu considerata dai contemporanei come la principale causa del calo di mortalità per malattie infettive. È da rilevare come tale periodo coincida anche con gli anni in cui si realizzarono i principali progressi della batteriologia, sempre più recepiti dall’opinione pubblica, anche grazie all’opera di educazione sanitaria. La batteriologia influenzò in maniera decisiva le politiche di medicina preventiva da attuare intervenendo sull’ambiente e interagì, sinergicamente, con la legge Crispi-Pagliani, che stabilì i principi essenziali del governo delle città in ambito igienico. L’igiene pubblica fissava le linee guida per la redazione dei piani edilizi e per gli interventi concreti sul corpo della città. L’esigenza di fornire ogni casa di acqua potabile, di costruire edifici sani e confortevoli, di ampliare e rettificare le strade, di allontanare le industrie nocive e ogni altra fonte di insalubrità, compresi i rifiuti organici, avrebbe dovuto aprire le antiquate strutture edilizie dei centri urbani agli imperativi dell’igiene (Giovannini, 1996; Pogliano, 1984; De Luca, 1991; Giuntini, 1999). Le tendenze del riformismo sanitario a partire dal primo Novecento sono state descritte, con magistrale sintesi, da Giorgio Cosmacini che le ha definite in linea con “le due direttrici della politica giolittiana di intervento sociale: concedere sempre con la maggiore lentezza e cautela, e quando un rinvio non sia più concedibile senza reale pericolo; limitare al massimo le spese, e sempre ad ogni modo quelle pubbliche e statali” (Cosmacini, 2005, p 347; Cherubini, 1980). Sono direttrici che esplicitano la visione di inizio secolo: i miglioramenti della salute pubblica arriveranno senza la necessità del concorso dello

Stato, senza il bisogno di una legislazione attiva e di un intervento preventivo. Arriveranno e basta. In Conte et al. (2011) si esamina e misura questo aspetto, guardando all’evoluzione della spesa sociale ed evidenziando il “peso leggero” dello Stato. In questo contesto, il peso leggero, ovvero l’inerzia dell’azione legislativa, si riflette nei miglioramenti degli indicatori di salute relativamente lenti e diseguali sul territorio. La politica sanitaria del fascismo si concentra su due filoni. Il primo è quello del fronteggiare gli effetti delle cosiddette ‘malattie sociali’ (la malaria, la sifilide e la tubercolosi), che colpivano in particolare gli strati poveri della popolazione. Il secondo filone fu quello della riorganizzazione degli ospedali. Delle politiche sanitarie volte a contenere gli effetti delle malattie sociali ne abbiamo già parlato nel paragrafo 4 e in questa sede non ci torneremo. In merito al problema della ristrutturazione della rete ospedaliera, con il conseguente intervento legislativo, va detto che la rete degli ospedali era uscita abbastanza dissestata dalla guerra, a causa del forte incremento dei soggetti ospedalizzati (effetto dell’inurbamento e del mutamento della mentalità collettiva) e l’aumento progressivo del costo dei singoli servizi. Il d.l. 30 dicembre 1923 n. 2841 ristabilì l’obbligo per i Comuni di rimborsare le spese di degenza relative ai ricoverati poveri aventi nel Comune il proprio ‘domicilio di soccorso’. Durante gli anni Trenta, la principale innovazione in campo ospedaliero fu l’apertura degli ospedali ai pazienti ‘solventi in proprio’, ossia alla cura dei ‘non poveri’. La soluzione consentì agli ospedali di aumentare i propri introiti, di modernizzare le proprie strutture, e innescare la concorrenza tra ospedali e cliniche private. Con l’evoluzione del fascismo in senso totalitario, l’organizzazione della sanità pubblica si realizzò attraverso le mutue aziendali e di categoria, finanziate dalle contribuzioni paritetiche di lavoratori e datori di lavoro (Preti, 1984)12 e destinate “alla massa più numerosa dei cittadini, non sufficientemente ricca per potersi pagare liberamente un medico e non sufficientemente povera per essere inclusa nell’elenco dei poveri” (cit. in Cosmacini, 1989, p 223). A partire dagli anni Trenta in un solo decennio, le Casse mutue malattia passarono da poco più di 810.000 iscritti, a più di 13 milioni (Soresina, 1987). La necessità di operare una vasta riorganizzazione del sistema sanitario fu rilevata durante gli ultimi anni della guerra dai comandi militari alleati, che istituirono nei territori liberati un’amministrazione 12Nel 1933 viene creato l’Istituto nazionale per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro (Inail), nel 1935 l’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps), nel 1942 l’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti statali (Enpas).

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Atella V et al: La salute degli italiani, 1861-2011

sanitaria autonoma distinta dagli altri organi del potere esecutivo per provvedere ai bisogni più urgenti della popolazione. A distanza di pochi mesi, i Padri costituenti inclusero la tutela della salute fra i diritti fondamentali dell’individuo (art. 32 della Costituzione); non si riuscì tuttavia, dopo il fallimento dei primi progetti di riforma, a intraprendere alcun passo verso l’istituzione di una politica sanitaria del paese unica e adeguatamente articolata. Fu sostanzialmente confermato il principio assicurativo alla base del sistema mutualistico. La prima riforma sanitaria organica, che sostituisce completamente il sistema mutualistico con un Sistema sanitario nazionale (Ssn) a carattere universalistico (à la Beveridge), è del 1978 (Colucci, 2010). Si trattò della prima riforma organica della sanità pubblica dai tempi della riforma Crispi-Pagliani, il cui obiettivo era quello di rendere gratuitamente accessibile a tutti i cittadini un vasto insieme di prestazioni sanitarie (medico-generali e infermieristiche, domiciliari e ambulatoriali, specialistiche e ospedaliere, farmaceutiche e integrative), abbandonando il principio secondo il quale avevano diritto all’assistenza soltanto gli iscritti ai vari enti mutualistici (à la Bismarck). Il funzionamento del Ssn si basava su una gestione decentrata, affidata alle Unità sanitarie locali (Usl), calibrate su un numero di cittadini variabile da 50 a 200.000 (Maccolini, 1982). La creazione del

Ssn comportò un progressivo e vistosissimo aumento dei costi, cui si rispose con l’istituzione di un processo di aziendalizzazione delle strutture e la trasformazione delle Usl in Aziende sanitarie locali (Asl), amministrate da manager con il compito di riorganizzare e gestire i servizi in compatibilità con il bilancio. Con la ‘riforma Bindi’, nel 1999 fu restituita la centralità al Piano sanitario nazionale e fu recuperato lo spirito universalistico della legge 833/1978, ridefinendo ‘servizi essenziali’ quelli di dimostrata efficacia. Nel 2001, con la riforma del titolo V della Costituzione, si pone l’accento sul federalismo e sul decentramento di risorse e poteri nella gestione della salute dei cittadini, che diviene materia normativa ‘concorrente’ fra i poteri dello Stato e delle Regioni. Per alcuni versi, il Ssn termina la propria parabola ed è sostituito dalla creazione di venti Servizi sanitari regionali. 9. La salute del paese all’età di 150 anni

Il quadro di salute attuale della popolazione italiana, dopo centocinquant’anni di storia unitaria, pone in rilievo due patologie principali, le malattie cardiovascolari e le neoplasie, il cui impatto nel paese è aumentato di pari passo con l’invecchiamento della popolazione (Giampaoli et al., 2001).

Tassi standardizzati per l’età per 100.000 abitanti

450

Stime

400 350 300 250 200

Nord Centro Sud

150

Italia Mortalità Italia

100 1970

1975

1980

1985

1990 Anno

1995

2000

2005

Figura 12 - Le malattie cardiovascolari: incidenza e mortalità, uomini, 1970-2004. Fonte: Progetto CUORE, Epidemiologia e prevenzione delle malattie cerebro e cardiovascolari (www.cuore.iss.it).

184

9.1. Le malattie cardiovascolari

Politiche sanitarie, 12, 4, 2011

Relativamente alle malattie cardiovascolari, va messo in evidenza come l’aumento di nuovi casi indotto dall’invecchiamento della popolazione è largamente compensato dalla diminuzione del rischio di sviluppare una patologia cardiovascolare. L’esito finale di questa combinazione di fattori è una diminuzione della ‘popolazione dei prevalenti’ di patologie cardiovascolari (l’insieme cioè delle persone sopravvissute a un evento cardiovascolare): tra il 1997 e il 2007 si passa da 227.000 a 191.000 per gli uomini e da 41.000 a 35.000 per le donne. Pur restando la prima causa di morte, le malattie cardiovascolari presentano un quadro generale di miglioramento. La figura 12 mostra – con riferimento alla sola popolazione maschile – la riduzione dei nuovi casi (le curve di incidenza diminuiscono a partire dal 1978) in ciascuna macroarea del paese e una corrispondente diminuzione della mortalità nazionale. Infatti, l’incremento dei casi dovuto al fenomeno dell’invecchiamento risulta compensato dalla riduzione del rischio di sviluppare la malattia. La disaggregazione dell’incidenza per macroarea, tuttavia, permette di evidenziare come il livello e l’andamento in riduzione del rischio non siano stati omogenei sul territorio ed abbiano seguito la distribuzione geografica e gli andamenti dei fattori di rischio associati alle malattie cardiovascolari (in particolare: l’ipertensione arteriosa, l’ipercole-

sterolemia, il diabete e l’obesità, a loro volta influenzati dall’esposizione a stili di vita non salutari, quali un’alimentazione non corretta, l’abitudine al fumo, l’inattività fisica). Le Regioni centro-meridionali, storicamente caratterizzate da un’incidenza più bassa della media nazionale, vedono un miglioramento più lento di quello osservato nelle Regioni settentrionali, fino ad un capovolgimento della situazione che avviene a metà degli anni Novanta. Quest’ultimo trova una giustificazione nei differenziali geografici e negli andamenti dei fattori di rischio, in particolare il fumo, di cui si riportano nella figura 13 gli andamenti di prevalenza nella popolazione maschile distinti per macroarea. Per le donne gli andamenti sono simili, anche se i livelli di incidenza (non rappresentati nella figura) sono circa la metà rispetto a quelli maschili. Le statistiche sulla prevalenza dei fumatori, illustrate nella figura 13, forniscono un ottimo esempio per illustrare la dinamica dei fattori di rischio, sottostante alla figura 12. La prevalenza dei fumatori (maschi di età superiore ai 15 anni) nelle Regioni meridionali rimane al di sopra di quelle centrali e settentrionali tra i primi anni Novanta e il 2008. La maggiore propensione al fumo al Sud a partire da metà degli anni Novanta è coerente con il quadro meno vantaggioso dell’incidenza delle patologie cardiovascolari per le Regioni meridionali, dove il rischio si riduce meno che nelle Regioni centrali e settentrionali e tende addirittura a rimanere costante nei periodi più recenti.

Fumatori maschi di 15 anni o più (%)

40

35

30

Sud

Nord-Ovest

Isole

Nord-Est

Centro

25 1990

1995

2000 Anni

2005

2010

Figura 13 - Uomini che fumano, nelle diverse aree del paese. Valori smussati tratti da Health for All Italia, versione dicembre 2010 (www.istat.it/sanita/Health).

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Atella V et al: La salute degli italiani, 1861-2011

9.2. Neoplasie

La mortalità per tumore in Italia è attualmente responsabile di circa il 30% dei decessi: è la prima causa di morte nell’età adulta e la seconda nelle età più anziane (http://www.tumori.net). Il tumore è una malattia grave, con la quale tuttavia si può convivere a lungo e dalla quale, in molti casi, si può guarire. Più della metà dei casi sopravvive oltre i cinque anni dalla diagnosi e il 30% oltre i dieci anni: sono statistiche che testimoniano in maniera eloquente i progressi conseguiti in Italia nella lotta a queste patologie. In una prospettiva di sanità pubblica occorre considerare l’impatto a lungo termine delle malattie neoplastiche e dei relativi trattamenti sulla salute delle persone. Gli effetti tardivi includono danni organici e disabilità funzionali dovute alla malattia tumorale, alla terapia o a entrambe. Esistono poi implicazioni di carattere psicologico, quali la paura per una ripresa della malattia, l’esperienza di isolamento, l’ansia e la depressione, la modificata percezione

del proprio corpo e delle proprie funzioni sociali. Queste considerazioni devono essere al centro dell’attenzione di tutti gli operatori di sanità pubblica che si occupano delle malattie tumorali. Attualmente in Italia circa il 4% della popolazione (2.250.000 casi) vive avendo avuto una diagnosi di tumore in un passato più o meno recente (Dal Maso et al., 2010). Oltre la metà sono donne (per lo più anziane) e la sede tumorale più frequente è la mammella (oltre mezzo milione di italiane). Tra gli uomini, pur essendo il polmone l’organo maggiormente colpito, sono i casi di tumore alla prostata quelli che sopravvivono su un orizzonte temporale più lungo e che si trovano quindi in maggioranza rappresentati tra i sopravviventi anche a lungo termine (quasi 220.000 italiani). La maggior presenza al Nord di persone che hanno avuto una diagnosi di tumore (circa il doppio che nelle aree del Sud) è il risultato di un minor rischio di ammalarsi di tumore nelle aree meridionali, per effetto di un’alimentazione e stili di vita più salutari.

Uomini

Donne 300 Incidenza (per 100.000 abitanti)

Incidenza (per 100.000 abitanti)

450 400 350 300 250 200

250

200

150 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 Anno

1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 Anno 160 Incidenza (per 100.000 abitanti)

Incidenza (per 100.000 abitanti)

300

250

200

140

120

100

150

80 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 Anno Nord

1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 Anno Centro

Sud

Figura 14 - Tumori: rischio e mortalità per genere e macroarea, 1970-2010. Fonte: Baili et al., 2007.

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Politiche sanitarie, 12, 4, 2011

Per il complesso di tutti i tumori, tuttavia, il differenziale geografico del rischio oncologico si sta esaurendo (si veda l’incidenza rappresentata nella parte superiore della figura 14) (Baili et al., 2007): nei quarant’anni considerati, il dato delle Regioni meridionali si avvicina a quello del Centro-Nord, sia per gli uomini sia per le donne. Per alcune Regioni meridionali l’incidenza supera i livelli osservati in Regioni del Centro-Nord, come nel caso della Campania che mostra (dati non rappresentati nella figura), da qualche anno, un livello di incidenza di tutti i tumori per gli uomini più elevato (Grande et al., 2007), mentre per le donne i livelli sono ancora massimi nel Nord Italia. La mortalità, rappresentata nella parte inferiore della figura 14, è ovunque in calo per effetto di un rischio che si riduce e di una sopravvivenza dei pazienti che migliora. Se il quadro d’insieme resta positivo, il vantaggio che le Regioni meridionali mostravano negli anni Settanta si è completamente esaurito e la situazione per gli uomini si è addirittura capovolta con un rischio di morire per tumore più elevato al Sud che al Centro-Nord. Il successo appena descritto nella lotta contro i tumori deriva dalla combinazione di misure di prevenzione primaria (volte a ridurre l’effetto dei principali fattori di rischio), di accuratezza e tempestività diagnostica, nonché dall’efficacia e appropriatezza delle terapie che hanno interessato tutto il paese, ma non hanno avuto diffusione omogenea sul territorio. 10. Conclusioni

Nel trarre le conclusioni riteniamo che valga innanzitutto la pena di evidenziare che uno dei principali contributi di questo lavoro sia di natura metodologica e consista nell’aver colmato tre importanti lacune nella letteratura storiografica italiana sul tema della salute: 1. è stato offerto un quadro di sintesi dei cambiamenti di lungo periodo in grado di riassumere i numerosi indicatori sanitari necessari per descrivere le condizioni di vita di una popolazione lungo un secolo e mezzo di storia; 2. sono stati misurati, quantitativamente, i progressi compiuti; 3. sono stati analizzati gli aspetti distributivi, ovvero sono stati offerti degli elementi per valutare se il processo di diffusione dei benefici registrati a livello nazionale sia stato equo.

Grazie a tale contributo è stato quindi possibile tracciare un bilancio del processo evolutivo e distributivo della salute nei centocinquant’anni dall’unifi-

cazione. Nel complesso, i dati esaminati mostrano che la salute degli italiani ha raggiunto livelli straordinariamente elevati, che al 2011 ci collocano fra i primi della classe. E tutto ciò è ancora più sorprendente se ricordiamo quello che, nel 1873, scriveva Carlo Maggiorani, medico bolognese, nel riferire al Senato del Regno le condizioni di salute della popolazione: “cere pallide, tempre di carne morbidamente impastate, macchine gracili e frolle costituzioni”, risultato della “caterva di mali” che ammorbavano la popolazione del Regno (Della Peruta, 1980, p 200). L’Italia era, insomma, un posto poco invidiato, quando non commiserato dai visitatori contemporanei. Tuttavia, tale processo non è stato – come spesso accade – né lineare né uniforme, ed è necessario rimarcare come in taluni casi sia opportuno abbassare i toni entusiasti, poiché l’Italia ha impiegato più tempo di altri paesi per raggiungere lo stesso risultato (lo abbiamo visto, per esempio, a proposito della mortalità infantile). A ciò si aggiunga che dal punto di vista distributivo la situazione non è delle migliori: tutte le Regioni hanno partecipato ai miglioramenti medi, tutte sono andate nella direzione giusta, ma non sempre e non tutte hanno proceduto con la stessa velocità. Non serve ripetere le considerazioni svolte nel corso dell’articolo, ma è invece utile prestare attenzione ai dati degli ultimi decenni, che mostrano un’Italia caratterizzata da divari territoriali ancora ampi. I motivi di preoccupazione sorgono soprattutto dall’analisi delle tendenze in corso, documentate dai dati elaborati e alimentate dai cambiamenti avviati dal paese negli ultimi anni sul piano dell’architettura istituzionale e normativa in direzione federalista. Infatti, ad oggi, il decentramento sembra accompagnarsi a minore equità: la forbice degli indicatori sanitari considerati si sta allargando, così come, in parallelo, stanno aumentando i toni del conflitto politico e la tensione sul piano sociale. Se l’Italia vuole mantenere ciò che ha acquisito, deve prendere atto della necessità di intervenire a livello sistemico, avendo come riferimento l’articolo 32 della Costituzione: la tutela della salute di tutti i cittadini. Tutela che si ottiene anche attraverso l’equità nella qualità del servizio e nell’accesso alle cure. Se il nuovo assetto federalista non prevedrà i necessari contrappesi per garantire la sostenibilità e l’equità, lo scenario che si prospetta è quello di un aumento delle distanze tra le diverse Regioni. La migrazione di massa verso il Nord in cerca di ‘buona sanità’ è un fenomeno penoso a vedersi, ed è già un’espressione delle difficoltà a mettere in pratica la Costituzione che gli italiani si sono dati. Volendo riassumere cosa abbia determinato il processo evolutivo dello stato di salute fino ad oggi, il ragionamento che ci pare di poter condividere con il lettore è il seguente. Vista con gli occhi di oggi, la

Atella V et al: La salute degli italiani, 1861-2011

salute degli italiani, dall’Ottocento, è migliorata in virtù di una ricetta relativamente semplice: una volta compresa l’importanza dell’igiene, personale e pubblica, dell’adozione di misure di prevenzione e di intervento basilari e tutto sommato poco onerose, la transizione epidemiologica è stata avviata. Si è così messo in moto il processo che ha trasformato “le cere pallide” degli italiani; è stato necessario oltre un secolo affinché ciò si compisse, ma alla fine l’Italia ce l’ha fatta: i cittadini “non sono mai stati così bene” (Giorgio Amendola, citato in Bertoldi, 1993) e sono longevi come pochi altri al mondo. Nel corso del Novecento i progressi maggiori sono stati raggiunti grazie ai miglioramenti della tecnologia medica e della scienza farmacologica, ma anche grazie all’azione del sistema sanitario alla diffusione, sia pure non ottimale, della salute dal centro verso la periferia. Il secondo dopoguerra demarca l’inizio di una fase in cui si osserva un’accelerazione. Non si tratta di un cinquantennio omogeneo, tuttavia, e la nascita nel 1978 del Servizio sanitario nazionale rappresenta uno spartiacque decisivo, tanto sul piano della riforma dell’assetto istituzionale quanto su quello dei risultati conseguiti dagli indicatori sanitari. È solo da questa data che il dettato costituzionale dell’universalità del diritto alla salute diviene operativo. All’inizio del nuovo millennio, le celebrazioni del centocinquantesimo dell’Unità avvengono in un contesto che appare cambiato e in rapida evoluzione. Il termine che, da solo, forse meglio descrive il nuovo ambiente è ‘complessità’. La sanità pubblica moderna, da cui dipende la tutela della salute dei cittadini, è un sistema complesso. Non solo dal punto di vista delle competenze mediche e farmacologiche e della tecnologia, ma anche dal punto di vista organizzativo: la complessità riguarda il disegno dell’intera organizzazione sanitaria nazionale. Le malattie del benessere richiedono interventi articolati, dalla prevenzione primaria alla programmazione degli screening, dall’implementazione e diffusione tempestiva di terapie efficaci a investimenti in risorse e capitale umano adeguati. Un quadro complesso che pone, spesso, quesiti – cui non è facile dare risposta – circa la sostenibilità di specifici interventi, come quello della non autosufficienza, oppure quello del costo sbalorditivo di alcune terapie ad personam. La domanda che si pone in materia di sanità pubblica è se il paese si stia attrezzando per trovare le risposte ai bisogni di salute della popolazione in una situazione la cui complessità appare crescente. Per mantenere i progressi del passato – straordinari e per certi versi inattesi – il paese dovrà necessariamente guardare avanti cercando di comprendere a fondo il carattere inedito della complessità della sanità pubblica moderna.

Appendice

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In questa appendice riportiamo le fonti e i metodi impiegati per ricostruire le serie storiche degli indicatori sanitari presentate nel capitolo.

Speranza di vita alla nascita. A livello nazionale le fonti sono le seguenti. 1861-1871: valori ottenuti proiettando linearmente l’andamento della speranza di vita alla nascita del primo triennio 1872-74 per il quale disponiamo dei dati di mortalità; 1872-2009: Human Mortality Database, University of California, Berkeley e Max Planck Institute for Demographic Research (http://www.mortality.org, versione dicembre 2010); 2010-2011: proiezioni realizzate dall’Istat ed estratte da Health for All Italia, Il database di indicatori sul sistema sanitario e sulla salute in Italia, Istat (http://www.istat.it/ sanita/Health, versione dicembre 2010). A livello regionale le fonti sono: 1861-1991: Arturo Taraborrelli, Una ricostruzione del regime demografico delle regioni italiane dal 1861 al 1991, tesi di laurea, a.a. 1999-2000, relatore Prof. Lorenzo Del Panta, Facoltà di Scienze statistiche, Università degli studi di Bologna; 1992-2011: Health for All Italia, Il database di indicatori sul sistema sanitario e sulla salute in Italia, Istat (http://www.istat.it/sanita/ Health, versione dicembre 2010). I valori della speranza di vita relativi alle due macroaree del Centro-Nord e del Mezzogiorno sono stati ottenuti come media ponderata della speranza di vita nelle Regioni che ne fanno parte, usando come pesi per la ponderazione di ciascuna Regione la corrispondente popolazione residente. La mortalità generale. Fonti: 1887-1955: Cause di morte 1887-1955, Istat, 1958; 1956-1957: Annuario di statistiche sanitarie, anni dal 1956 al 1957, Istat, 19591960; 1958-1975: Annuario di statistiche demografiche, anni dal 1958 al 1975, Istat, 1961-1978; 1977-1980: Annuario di statistiche sanitarie, anni dal 1977 al 1980, Istat, 1981-1984; 1980-2002: La mortalità per causa in Italia: 1980-2002, banca dati online, Istituto superiore di sanità; 2003-2007: Health for All Italia, Il database di indicatori sul sistema sanitario e sulla salute in Italia, Istat (http://www.istat.it/sanita/Health, versione dicembre 2010).

Mortalità per causa. Sono stati presi in considerazione i seguenti raggruppamenti per grandi cause di morte: tubercolosi (tutte le forme), febbre tifoide, difterite, morbillo, pertosse, scarlattina, influenza, polmonite (inclusa polmonite nei neonati), bronchite, gastroenterite, complicazioni del parto, gravidanza e puerperio, malattie particolari della prima infanzia, vaiolo, malattie infettive e parassitarie (tutte le forme), malaria, pellagra, tumori maligni, diabete, malattie del sistema circolatorio. Le fonti utilizzate sono: 18871955: Cause di morte 1887-1955, Istat, 1958; 1956-1957, Annuario di statistiche sanitarie, anni dal 1956 al 1957, Istat, 1959-1960; 1958-1975: Annuario di statistiche demografiche, anni dal 1958 al 1975, Istat, 1961-1978; 19771980: Annuario di statistiche sanitarie, anni dal 1977 al 1980, Istat, 1981-1984; 1980-2002: La mortalità per causa in Italia: 1980-2002, banca dati online, Istituto superiore di

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Politiche sanitarie, 12, 4, 2011

sanità; 2003-2007: Health for All Italia, Il database di indicatori sul sistema sanitario e sulla salute in Italia, Istat (http://www.istat.it/sanita/Health, versione dicembre 2010).

Tasso di mortalità infantile. Le fonti sono: 1863-1972: Tendenze evolutive della mortalità infantile in Italia, Istat, 1975; 1973-1980: Annuario di statistiche demografiche, anni dal 1974 al 1981, Istat 1977-1985; 1982-87: Annuario statistico italiano, Istat, ed. 1983-89; 1988-1989: Nascite e decessi, Istat Annuari n. 1 e 2, ed. 1993; 1990-2007: Health for All Italia, Il database di indicatori sul sistema sanitario e sulla salute in Italia, Istat (http://www.istat.it/sanita/Health, versione dicembre 2010).

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