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6 lug 2008 ... personaggio di Corto Maltese, dal fantastico meticciato tipico del pennino ... Corto è attaccato a una zattera naufragata in mezzo al- l'immensità ...
Domenica

la società

L’America e i bambini in carriera

La

di

DOMENICA 6 LUGLIO 2008

ALEXANDER STILLE

la memoria

Repubblica

Le vite parallele di Churchill e Gandhi FEDERICO RAMPINI

Esce anche in Italia “Con Hugo”, il libro che la figlia Silvina Pratt ha dedicato al grande disegnatore

Un uomo sensibile e fuggiasco, affascinante e ingombrante, prigioniero della sua fame di libertà

ILLUSTRAZIONE HUGO PRATT/ COLLEZIONE PARTICOLARE SILVINA PRATT / © CONG SA, LUSANNE

Corto Maltese mio padre

MICHELE SERRA

SILVINA PRATT

cultura

a persona più libera che io abbia mai conosciuto». Così Milo Manara sul suo amico e maestro Hugo Pratt, nato a Rimini nel 1927, vissuto nel mondo (Etiopia, Venezia, Baires, Londra, New York, Parigi, più gli infiniti viaggi per ovunque), morto in Svizzera nel 1995. Quattro figli da due mogli, più altri incogniti frutti delle sue scorrerie d’amore lungo il pianeta Terra, almeno uno dei quali non è carnale e merita di essere citato perché rivela molto della sua sconquassante generosità: in Amazzonia riconobbe il bambino (non suo) di una ragazza india, a lui sconosciuta, solo per farle avere dei fondi governativi… dunque probabilmente esiste, nel sub-continente, un ragazzo indio di cognome Pratt (origine bretone), non figlio di Hugo eppure segnato, come un personaggio di Corto Maltese, dal fantastico meticciato tipico del pennino del Maestro… Se ho voluto iniziare questa difficile ricognizione su Pratt con la frase — perfetta — di Manara, è perché la parola “libertà” esprime lo smisurato Hugo, e la sua opera, come nessun’altra. (segue nelle pagine successive)

he cosa non sappiamo della vita di Hugo Pratt, il creatore di Corto Maltese? Lui l’ha raccontata, a volte inventata, sempre mitizzata. Altri hanno cercato di stabilirne la cronologia puntigliosa o di diffonderne la leggenda avventurosa. Quello che so della vita di mio padre è nei miei ricordi — la profondità della memoria. Quello che ignoro della biografia di mio padre è nei libri — la superficie delle cose. Hugo è davvero un amante della vita avventurosa o non è piuttosto l’avventura che gli corre continuamente dietro, contro la sua volontà? Credo che preferisse trascorrere tre giorni alla ricerca di aneddoti e storie nei suoi libri, piuttosto che partire per il giro del mondo. L’avventura e gli avventurieri si sono ricongiunti a lui nella sua leggenda. La realtà talvolta è più terra terra. Come quando si è recato sulla tomba di Stevenson sull’isola di Apia, nell’Oceano Pacifico. Mi ha raccontato che non ce la faceva, il sentiero era troppo ripido, gli mancava il fiato. Ha finito per sorvolare la tomba dello scrittore in elicottero... (segue nelle pagine successive)

Gli amori di carta di Cesare Pavese

«L

C

NELLO AJELLO e MASSIMO NOVELLI

spettacoli

L’Inferno secondo Zeffirelli LEONETTA BENTIVOGLIO

l’incontro

Lorenzo Jovanotti, ragazzo cresciuto GIUSEPPE VIDETTI

Repubblica Nazionale

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

la copertina Genitori e figli

DOMENICA 6 LUGLIO 2008

Travolgente, appassionato, geniale. Ma anche assente, ossessionato dalla noia, sempre in fuga. In un libro di ricordi, Silvina Pratt parla del padre. Di come nacque “Una ballata del mare salato”, di come lui disegnava

tavole in bianco e nero che lei colorava. Di come fu difficile lasciarlo andare via per sempre MICHELE SERRA (segue dalla copertina) ibertà cercata costi quello che costi, libertà come miraggio e come ossessione, libertà imposta a se stesso e inflitta agli altri, libertà di artista tanto celebrato quanto dissoluto (ai figli non ha lasciato eredità, se non il suo monumentale ricordo), libertà politica che gli costò qualche ridicola accusa di “fascismo”, lui innamorato della cultura ebraica, antirazzista fino al midollo, anarchico, odiatore di ogni pensiero massificato. Infine, libertà umana inflitta agli altri, e a se stesso, con una determinazione quasi disperata, dividendo con chi amava e lo ha amato l’intero prezzo della solitudine e degli abbandoni. Questo Pratt privato, affascinante quanto ingombrante, sensibile quanto fuggiasco, emerge con intensità quasi straziante dal libro della figlia Silvina, pubblicato in Francia tre anni fa e ora tradotto in italiano. Libro dolcissimo, intenso, intimo, gremito di fotografie e disegni, spasmodico tentativo di una figlia di ridare “il posto giusto” a cotanto padre, e a se stessa, attraverso una collazione di ricordi, impliciti rimproveri, dichiarazioni d’amore, lucide confidenze sulla difficoltà estrema di mantenere intatto un rapporto intermittente, frantumato, difficilissimo. Pratt non sopportava che lo si chiamasse papà, dal concetto di famiglia era terrorizzato quanto era attratto dalla necessità di un baricentro affettivo che lo confortasse al ritorno dalle sue infinite partenze, il classico marinaio che cerca il porto per rifuggirne subito, irrequieto, febbrile, imprendibile. Pratt spedisce moglie e figli in altre città, avamposto della sua smania di cambiare, sperimentarsi altrove, e il raggiunge solo mesi dopo. Pratt quando c’è monopolizza la scena, canta, suona, disegna, parla, mangia, beve, racconta, discute, ride, riceve amici, si fa massaggiare i piedi, quando non c’è apre un vuoto pari alla sua colossale presenza. Egoista, si direbbe banalmente, se il suo ego seduttore, coinvolgente anzi travolgente, il suo fascino di grande viaggiatore e di artista indiscusso, non soverchiasse perfino quella parola: il mondo pullula di egoisti silenti e sfuggenti, di egoismi che non lasciano traccia, che feriscono solo per viltà. Non così il padre di Jonas, Lucas, Marina e Silvina Pratt, che di tracce (e di cocci, di dolori, di gioie, di figli) ha disseminato il suo viaggio. Tanto che il libro, che avrebbe potuto intitolarsi Senza Hugoper quante sono le mancanze di Pratt nei confronti dei suoi, si chiama al contrario Con Hugo, rivendicando in ogni pagina, quasi in ogni riga, la potenza e la fertilità dell’uomo, la sua presenza magnetica anche quando scompariva senza dare notizia di sé. Il classico “neanche una cartolina”. «Per seguire la sua vocazione di vita, le sue chiamate — racconta ancora Milo Manara — non si peritava di mollare lì chiunque e qualunque cosa. Famiglie, persone, amici. Credo di essere stato uno di quelli che lui sopportava meglio, perché conoscevo a fondo il suo carattere, i suoi modi cangianti, e capivo di dovermene andare un istante prima che me lo dicesse lui. Ave-

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va terrore di una cosa soltanto: la noia. Appena una situazione gli risultava deprimente, stagnante, poco espressiva, inutile alla sua ispirazione artistica, prendeva e se ne andava. Credo che solo un artista possa capire questa smania così monopolizzante, questa obbedienza esclusiva alla propria arte. Viveva solo per salvaguardare la sua opera, e dunque l’artista che la animava». «Era affascinante e insopportabile. Durissimo. Possedeva diplomazia in dose zero, era capace di essere il più socievole degli amici, il più travolgente degli showman, e appena dopo chiudersi del tutto, respingere chiunque. Era come il mare, il mare che lui ha tanto disegnato, lo stesso fascino e la stessa imprevedibilità, calmo e ospitale e un attimo dopo cupo e pericoloso». Pratt era stato adolescente in Etiopia, figlio della colonizzazione fascista. Ma evidentemente si era lasciato segnare, in quel frangente, da volti, costumi, lingue e suoni che l’artista saprà trasformare, con miracoloso talento, in una sorta di cosmopolitismo umanitario modernissimo, quasi visionario nella capacità di intrecciare nelle sue storie tutte o quasi le razze, le religioni, le credenze politiche del pianeta. Tutte le sue storie sono incroci di culture, crocevia di razze, faccia a faccia tra i formidabili pro-

Un uomo condannato alla libertà tra viaggi e ritorni fili, gli sguardi taglienti che Pratt tracciava sulla pagina. Corto Maltese, il suo eroe marinaio pubblicato e tradotto in quasi tutte le terre del mondo da lui raggiunte via mare, è «figlio di una gitana andalusa e di un marinaio bretone, nato a Malta e trascinato in Laguna». Pure se entro i confini epici (e dunque non retorici) del romanzo d’avventura, Corto non ha altra chiave se non questa: il mondo è uno e gli uomini si rassomigliano anche quando si odiano e si combattono. L’afflato che li unisce è l’insaziabile bisogno di scoprire e di scoprirsi. Di partire e tornare. Di vivere. Quando Pratt, negli anni Settanta, avverte il pregiudizio politico contro il vitalismo di Corto (e suo), e si rende conto che il fumetto avventuroso è considerato un genere “d’evasione”, l’esatto opposto dell’“impegno”, non fa una piega. Non partecipa al dibattito su se stesso. Si limita a fare osservare agli intimi che gli basta e gli avanza l’Ulisse di Dante, «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza», per considerare il viaggio e l’avventura come un genere «rivoluzionario, addirittura eversivo». E quanto all’“evasione”, faceva notare beffardo che la parola era ottima perché gli suggeriva piuttosto la fuga dal carcere, e la sete di libertà. Manara ricorda qualche breve discussione, subito troncata

da Pratt, con giovani estremisti che gli contestavano il presunto disimpegno politico: per lui l’avventura era in sé una dichiarazione politica, presupposto di una condizione umana libera e aperta al nuovo, agli orizzonti sconosciuti, alle persone ignote. Sempre Manara annota in margine (e condivido senz’altro) che molti dei critici di allora di Pratt, all’epoca ferrei tutori dell’ideologia comunista, sono poi tranquillamente approdati alla destra e al potere. Un lungo viaggio anche quello, chissà se Pratt lo avrebbe voluto e saputo disegnare… Le fotografie (tante) del libro di Silvina ci mostrano un uomo di notevole bellezza, appesantito dalle infinite mangiate e bevute (al ristorante — ricorda la figlia — dopo avere finito la cena sosteneva che bisognava cominciare daccapo). Nonostante la pesantezza e i bagordi, il volto riesce ancora a rammentare i tratti giovanili, virili e regolari, da attore cinematografico, che Pratt in qualche modo provò a riportare sulla carta attribuendoli a Corto, che lui riteneva essere «un incrocio tra me e Burt Lancaster, il solo che potrebbe interpretarlo al cinema». Il suo alter ego disegnato, per dire il vero, accentuava, di Pratt, l’aria latina. Molti volti dei suoi personaggi erano «presi dalla vita», a cominciare da Anna della Giungla (uno dei suoi primi eroi) che era visibilmente ispirata alla seconda moglie (la madre di Silvina) Anne Frognier, una adolescente belga che Hugo, già sposato, conobbe a Buenos Aires, innamorandosene per la vita anche se con l’intermittenza nevrotica del suo andirivieni per il mondo. Rimarrebbe da spiegare qualcosa del talento artistico di uno dei più grandi disegnatori del secolo scorso, che ha influenzato fortemente decine di disegnatori (in Italia, oltre a Manara, certamente l’Andrea Pazienza meno satirico e più pensoso). Manara lo definisce «un sottrazionista». Nel senso che la sua pagina, anno dopo anno, periodo dopo periodo, si libera lentamente dei chiaroscuri e degli ornamenti delle tavole giovanili, fino ad assumere una misteriosa, ineffabile purezza. Il Pacifico, l’ultimo Pacifico di Corto, è appena una linea, un orizzonte, eppure contiene il mare, il sole e il cielo per intero. I suoi volti — soprattutto i suoi profili — sono una specie di miracolo di semplicità, una linea appena che scorre dai capelli al mento eppure indica perfettamente un prototipo razziale, un carattere, uno sguardo sulla Terra. Molto del suo meglio nacque nella casa di Malamocco, estremità del Lido, racchiusa tra il mare aperto e la laguna, quasi appoggiata sugli scogli, una prua, un invito al viaggio. Silvina Pratt ricorda quell’appartamento con pagine tra le più intense, il senso di mare e di sconfinatezza, il senso di casa e di raccoglimento. I due sensi che diedero movimento e anima a Hugo Pratt e alla sua opera, quello della partenza e quello del ritorno, l’eterna odissea, il mare che accoglie e respinge, l’amore che aspetta, la miracolosa, dolorosa pazienza femminile. I cassetti con le fotografie che tanto tempo dopo una donna (una moglie, una figlia) raccoglie e vivifica. Infinite Penelopi sorreggono il viaggio di Ulisse, cercando anche senza l’illusione di trovarlo un bandolo, uno scopo, una direzione in quella linea sottile, infinita, che chiamiamo orizzonte.

Una vita con Corto Maltese SILVINA PRATT (segue dalla copertina) io padre era uno con la parlantina sciolta, sempre pronto ad abbellire la verità. Voleva trasformare e correggere ogni cosa, il suo nome, il suo passato, la sua famiglia, le sue origini, i suoi figli. La realtà doveva apparirgli troppo scialba. La realtà della minuscola bottega di pedicure di suo nonno e l’odore di piedi. La realtà di tutti quegli adulti stipati nell’appartamento di famiglia a Venezia, tutte quelle donne, sua madre, le zie, la nonna, e tutti quegli uomini che vanno e vengono nelle loro uniformi militari. A tavola, gli adulti e lui, il solo bambino, che si rifugia nel suo mondo grazie ai fumetti americani, un altro mondo, un mondo ancora da scoprire. [...] Mi raccontava che un giorno sua madre aveva buttato nella spazzatura i suoi fumetti e i suoi disegni infantili. Di fronte alla sua collera, gli aveva chiesto se preferisse essere piccolo nel mondo dei grandi o grande nel mondo dei piccoli. Hugo aveva risposto senza esitazioni: «Grande nel mondo dei piccoli!» [...]

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Imparare a nuotare.Prima di tutto c’è il sentiero tra le “canne”, gli alti bambù. Il calore toglie il fiato e la luce è abbacinante. Si sente il canto dei grilli, facciamo lo slalom tra le pozzanghere di fanghiglia quasi secca nelle quali si dimenano i girini. Raccogliamo queste piccole creature nere per vederle trasformarsi in rane grigie, ma nel giro di qualche giorno le rondini vi planano sopra. Questo sentiero non è più lungo di

una decina di metri, ma è tutto il nostro mondo. Abbiamo le pinne ai piedi e Hugo ci trascina dove noi non tocchiamo. Per prendere fiato, di tanto in tanto ci aggrappiamo a lui, alla sua grande pancia, alle braccia ricoperte di lentiggini. [...] Poi Hugo rientra tutto solo nel suo grande studio al pianoterra, per starsene tranquillo e disegnare. Per quanto i miei ricordi riescano a portarmi indietro nel tempo, so che mio padre è un disegnatore, mi sembra di averlo sempre saputo. Devo avere due o tre anni. [...] Lo vedo seduto davanti alla pagina in corso di realizzazione, affonda il pennello in un vasetto di vetro. Sul tavolo ci sono dei pennini e l’inchiostro di china. Si sente un sottofondo musicale, come in sordina. Lui non parla, è concentrato sul suo lavoro. Sta disegnando la prima tavola di Una ballata del mare salato. Corto è attaccato a una zattera naufragata in mezzo all’immensità dell’oceano. Il mio primo ricordo di mio padre disegnatore. [...]

Lo chiamai “papà” solo una volta Disse: non azzardarti Papà. Noi non lo chiamiamo mai “papà”, nessuno dei suoi figli l’ha mai chiamato “papà”. Personalmente, faccio un tentativo verso i quattro o cinque anni. Sono per strada con i miei amici sotto la nostra abitazione. Hugo mi chiama per dirmi di tornare a casa. Gli rispondo: «Sì, PAPÀ». Lui non dice niente, ma si volta di scatto, come se avesse preso la scossa. Saliamo le scale di marmo, tre piani, senza una parola. Arrivati a casa, finalmente mi risponde. Se mi azzardo di nuovo a chiamarlo “papà”, giura di trattarmi come una vecchia cornacchia puzzolente davanti a tutti! Avrei dovuto insistere! Per un “figlio della lupa”, nipote del fondatore del movimento fascista a Venezia, probabilmente è meglio diventare un “duro” il più presto possibile. Figlio unico, maschio, circondato da donne di carattere, Hugo nutriva una grandissima ammirazione per gli uomini di famiglia. [...] Soldato adolescente, partito per la guerra in Africa, ha visto suo padre imprigionato e poi, malato, morire in un campo. Hugo aveva solo sedici anni quando ha lasciato la terra d’Africa senza suo padre. [...]

Con Hugo si hanno sempre impressioni talmente mutevoli che sembra di essere sulle montagne russe. Il rosso e il nero, il caldo e il freddo, dalla felicità all’aridità. [...] Con i suoi occhi blu di ferro, acuti come scalpelli, che ti scandagliano e trafiggono il cuore, Hugo riesce a far abbassare lo sguardo altrui e può anche far piangere per un sì o per un no. È consapevole del suo ascendente sugli altri e non se ne rallegra, anzi, a volte ne è addirittura furioso e triste. [...] In viaggio.Mi ricordo di un lungo viaggio con la famiglia. Devo avere a malapena una decina d’anni, sono le vacanze estive, ci troviamo in macchina e guida la mamma. Percorriamo la costa spagnola, attraversiamo l’Andalusia per poi terminare il nostro periplo in Portogallo. Ricordo le autostrade sotto il sole. La sera ci fermiamo in alberghi con piscina. A Cordoba la piscina è sul tetto dell’hotel. Nuotiamo sotto il sole ormai al tramonto ma ancora caldo; degli uccelli ci planano intorno e le campane di una chiesa suonano a distesa. Uno di quei momenti che non si possono dimenticare… Sempre a Cordoba, Hugo ci fa cercare la statua del filosofo arabo Maimonide. Tocchiamo la sua babbuccia e ciascuno di noi esprime un desiderio. Sulla costa portoghese mi ricordo di un enorme castello bianco costruito sul bordo di una falesia a picco sulle scogliere. È un ristorante. Di gran classe. La sala è vuota, come se stesse aspettando solo il nostro arrivo per animarsi. I camerieri in divisa bianca vengono subito ad accoglierci e sono pieni di premure. Io ordino delle cozze. Le mangio con le mani e per Hugo è un’onta terribile, in un ambiente tanto signorile! Lui può permettersi di tutto al ristorante: può scoreggiare, ruttare, fare qualsiasi cosa per metterci a disagio o far ridere i presenti, ma io no, neanche per sogno! Sua figlia deve mangiare con la delicatezza di una principessa… In effetti, ricordo che disegna principesse, marchese e ogni sorta di altri personaggi. Sono in bianco e nero perché io possa colorarli. Cerco di non uscire dai contorni e lui è particolarmente attento alle mie scelte cromatiche… I viaggi fatti insieme restano nei miei ricordi come bolle di felicità. In quei momenti nostro padre è tutto per noi. Ogni giorno. Ogni ora. Dirige le operazioni, ci vuole mostrare delle cose, condividerle con noi, desidera che amiamo quello che lui ama. [...] Arrivederci. Prima di sprofondare nel coma, le ultime parole che mi ha detto sono state: «Non ti preoccupare, tuo padre sarà sempre al tuo fianco…». Questa frase è senza dubbio la cosa più importante e concreta che mi abbia lasciato, quella che mi permette di battermi ancora oggi, nonostante tutto. Arrivederci. (© Marsilio Editori Spa, Venezia)

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LE FOTO

I DISEGNI Il disegno di copertina è Silvina disegnata da Pratt; qui accanto, ancora Silvina vista dal padre e uno schizzo di donna del ’74; a sinistra in basso, altri disegni di Pratt sempre tratti dal libro Con Hugo. Per tutte queste immagini © Cong SA, Lausanne. In alto a sinistra, un ritratto di Pratt fatto dal figlio Jonas (Collezione particolare Silvina Pratt / © Cong SA, Lausanne) Il disegno grande è Corto Maltese

E SILVINA RTICOLAR EZIONE PA FOTO COLL

CONG PRATT / ©

E SA, LUSANN

Le foto di queste pagine che ritraggono Silvina da bambina e Hugo Pratt con i figli provengono dalla collezione particolare Silvina Pratt / © Cong SA, Lusanne

IL LIBRO Con Hugo Il creatore di Corto Maltese raccontato dalla figlia, è il libro di Silvina Pratt edito da Marsilio (256 pagine,16 euro) e corredato da un ricco apparato di disegni inediti e foto private (alcuni riprodotti nelle pagine). Il volume sarà in libreria l’8 luglio e verrà presentato lo stesso giorno alle 18.30 a Venezia al Museo di Ca’ Rezzonico

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la società Vita americana

ALEXANDER STILLE

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NEW YORK

a follia comincia subito dopo il lieto evento. «A quale scuola materna lo manderai?», ti senti già chiedere. C’è gente che mette i figli in lista di attesa per l’asilo appena nati. E non è una pura leggenda metropolitana. Ho fatto domanda per iscrivere mio figlio a una scuola materna molto gettonata con undici mesi di anticipo, ma era già troppo tardi. Un mio collega è andato assieme alla moglie a vedere ben quindici asili diversi per essere certo di scegliere bene. E non stiamo parlando di scuola vera e propria: all’asilo i bambini non imparano a leggere e a scrivere, per lo più giocano. La selezione avviene attraverso una cosiddetta “intervista”. Il bimbo di tre anni viene fatto “giocare” una mezz’ora sotto gli occhi del personale dell’asilo. Il clima generale porta il genitore a pensare che se il figlio non frequenterà il nido giusto, l’asilo giusto e poi le elementari giuste non riuscirà mai a entrare a Harvard o a Yale o in una delle università che sono garanzia di un futuro brillante. La competizione per l’ammissione alle materne e alle elementari migliori è spietata sia nel pubblico che nel privato. I costi di questa corsa agli armamenti nel campo dell’istruzione sono sbalorditivi. Per mandare un figlio ad una buona materna privata tre ore al giorno si spendono 12mila dollari. La scuola vera e propria, a partire dai cinque anni, è molto più cara: oggi come oggi la retta media si aggira sui 30mila dollari l’anno, 32mila per le elementari alla Dalton School, una delle migliori e più “in” di New York. Le famiglie fanno sacrifici enormi, vivono in tre stanze per riuscire a pagare 50mila dollari l’anno di retta. In una certa misura questa straordinaria competizione è un sottoprodotto culturale della fase di capitalismo selvaggio che stiamo vivendo, caratterizzata da crescenti ineguaglianze, salari in stagnazione o in calo e incredibili, stratosferici guadagni per pochi. Ad esempio nel 2007 il reddito dei contribuenti più ricchi (l’un per cento del totale) è arrivato a 1,2 milioni di dollari, con un incremento annuo di circa 139mila dollari, pari al quattordici per cento, mentre il reddito del novanta

Bambini in carriera per cento della popolazione ha subito un calo reale. I trecentomila americani più ricchi hanno incassato quanto centocinquanta milioni di contribuenti meno abbienti, raddoppiando la loro quota di reddito nazionale rispetto al 1980. È proprio questa realtà sociale, caratterizzata da una feroce competizione e da una fortissima polarizzazione tra “vincenti” e “perdenti” che a mio parere scatena la follia collettiva attorno all’educazione e all’istruzione dei figli. L’istruzione ha un ruolo cruciale nelle prospettive economiche di un individuo. Nel 1980 un laureato guadagnava solo circa il trenta per cento in più rispetto a un diplomato. Aveva senso allora decidere di andare a lavorare subito dopo le superiori e iniziare a guadagnare quattro anni prima rispetto a un universitario. Ma oggi che le fabbriche chiudono e si è passati a un’economia post-industriale, basata sulla conoscenza, la laurea può rendere molto di più. Oggi un laureato guadagna il sessanta per cento in più di chi ha iniziato a lavorare dopo il diploma. I laureati in legge, medicina, ingegneria e economia guadagnano fino a cinque volte tanto. Tutto ciò fornisce una patina di razionalità a una cultura dell’infanzia sempre più folle. Sulle paure e le speranze dei genitori di oggi è nata una vera e propria industria. La corsa verso l’eccellenza inizia già nell’utero e si fa sempre più agguerrita. Qualche anno fa venne messo in commercio il BabyPlus, un sistema mirato a inviare suoni al feto nel grembo materno. «Il sistema sonoro BabyPlus avvia un processo di apprendimento graduale basato su ritmi naturali dell’ambiente del bambino», spiega il sito web del produttore e promette «tappe di sviluppo più precoci, maggiori capacità cognitive, tempi di attenzione più lunghi» e «una precoce maturazione scolastica». Per non parlare della Baby Einstein, produttrice di dvd per bebè di pochi mesi, nata nel 1997 e oggi colosso miliardario. Circa

BRAVI SCOLARI Qui sopra, alzabandiera in una scuola elementare del New Mexico. In alto, nella foto grande, preghiera in una scuola elementare di Dallas, Texas; a destra, dall’alto: genitori e figli al liceo di Toms River, New Jersey; scolara alla lavagna in una scuola elementare di Oklahoma City

un terzo dei bambini americani ha guardato i suoi video dai titoli lusinghieri: Baby Mozart, Baby Bach, Baby Van Gogh. Questa fiorente industria si basa sul discutibile presupposto scientifico che i bambini nei primi tre anni di vita siano particolarmente sensibili agli influssi

esterni. Bisogna approfittare di questa “finestra” aperta per puntare all’eccellenza futura. Una volta chiusa, il destino è inevitabilmente la mediocrità. Peccato che questa tesi abbia basi fragili o decisamente errate. Nel 1993 due ricercatori scoprirono il cosiddetto “effetto Mo-

È la fortissima polarizzazione sociale tra “vincenti” e “perdenti”

a scatenare la lotta

zart”: un piccolo numero di studenti si dimostrò più brillante in un test dopo aver ascoltato Mozart. Si trattava però di studenti universitari, la musica quindi non aveva avuto un impatto sulla formazione del cervello; altri studi, alcuni degli stessi autori, non hanno registrato lo stesso esito riproducendo l’esperimento. «Non esistono dati scientifici a indicare che l’ascolto di Mozart renda più “intelligenti” i neonati», ha dichiarato Frances Rauscher, uno degli autori del primo studio. In realtà uno studio condotto dall’American Pediatric Association ha dimostrato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Baby Einstein, mostrare video a bambini di età inferiore ai due anni è nocivo. Non sorprende che questi video pubblicizzati come mezzo per creare dei piccoli geni in realtà non sono altro che una nuova baby-sitter elettronica. Parallela alla competizione per le scuole migliori fiorisce l’industria delle attività extrascolastiche: musica, calcio, danza, scacchi, taekwon-do e così via. «Non ne posso più», mi ha detto tempo fa la mia amica Martha, «tutti i nostri soldi vanno a finire nella retta scolastica, nonostante i sussidi che riceviamo. E poi c’è la lotta per le lezioni di piano, di pattinaggio sul ghiaccio, di danza classica. Sto riflettendo se andarmene da New York solo per sfuggire a tutto questo». Visto che ormai è considerato necessario stimolare al massimo i bambini per ottimizzarne lo sviluppo cognitivo, l’infanzia e i giochi di una volta non esistono più. Già a tredici-quattordici anni i ragazzi sono dei semi-professionisti, impegnati a costruirsi un curriculum per gli esami di ammissione al college. Mio nipote ha diciannove anni ed ha superato il Sat (l’esame che normalmente si fa a diciassette anni per entrare all’università) a soli tredici anni. Durante i quattro anni delle superiori ha partecipato a tre diversi “campi” estivi, gestiti dalle università. Un’estate l’ha passata a Oxford ad approfondire il tema dittatura e democra-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31

A New York la follia comincia subito dopo il lieto evento I genitori sono indotti a pensare che se il figlio non frequenterà il nido giusto, l’asilo giusto e poi le elementari giuste, non riuscirà mai a entrare a Harvard o a Yale. La competizione è spietata,

FOTO MAGNUM/CONTRASTO

i costi per le famiglie sono sbalorditivi

450

costo medio in euro di un figlio alla scuola materna in Italia

250

costo medio in euro di un figlio alla scuola elementare in Italia

zia. Fortunatamente non si è trasformato in un mostro e le sue fatiche sono state premiate con l’ammissione alla Columbia University. Nell’era della globalizzazione e di Internet le migliori scuole e università della costa est degli Stati Uniti attraggono studenti da tutto il Paese e da tutto il mondo, rendendo la competizione per entrare ancora più agguerrita. Quasi il venti per cento degli studenti delle scuole superiori americane spende dai quattrocento ai duemila dollari per frequentare corsi particolari, mirati ad alzare il punteggio per i temuti Sat. È nata una vera e propria industria di insegnanti pagati per

110-360

spesa in euro per il corredo scolastico di un figlio alle elementari in Italia

aiutare gli studenti a prepararsi agli esami di ammissione al college. Un reportage del New York Times ha raccontato gli sforzi di una famiglia per garantire al figlio l’ammissione all’Università della Pennsylvania. Fieri del suo punteggio altissimo, hanno scoperto che era il punteggio medio degli ammessi. Per la folle competizione accademica non basta che gli studenti eccellano nelle materie di studio, devono anche costruirsi un “profilo”, una storia personale attraverso attività extrascolastiche che li renda candidati “interessanti”, e li metta in luce tra gli studenti migliori. Così c’è chi già dalle superiori fa assistenza ai

1700

costo medio in euro di un figlio in prima media in Italia

Quarant’anni fa le matricole volevano una filosofia di vita

Oggi invece un lavoro ben pagato

400

800

costo medio in euro di un figlio in seconda o in terza media in Italia

bambini svantaggiati, suona il flauto in un gruppo musicale professionistico, va a ricostruire le case per le vittime dell’uragano di New Orleans oppure impara lo spagnolo lavorando per le associazioni a difesa dei diritti umani in Guatemala. La figlia sedicenne di una mia cugina ora è in Malawi per un progetto di microcredito destinato alle donne povere. Il prossimo anno sarà in collegio in Sud Africa. Alla base c’è un reale interesse da parte della ragazza, ma di certo queste esperienze le serviranno ad emergere tra compagni di università di altissimo livello. Gli studenti devono mostrare aspirazioni idealistiche in un mondo sempre

costo medio in euro di un figlio al primo anno delle superiori in Italia

più dominato dal denaro e dalla pressione economica. La rivista degli studenti di Harvard indica che circa il cinquanta per cento dei giovani laureati è intenzionato a entrare nel mondo della finanza. Quarant’anni fa il primo obiettivo delle matricole era acquisire una «filosofia di vita», mentre l’aspirazione a un lavoro ben retribuito era all’ultimo posto. Oggi i valori si sono invertiti. È sorprendente quanti ragazzi intelligenti, interessanti e idealisti si incontrino nei campus americani, peccato che debbano sostenere pressioni così straordinariamente intense. Traduzione di Emilia Benghi

• BORSE, NON C'È LUCE IN FONDO AL TUNNEL

La crisi è esplosa l'estate scorsa, ma dopo un anno non siamo ancora alla fine. Tutte le nubi sul futuro dei mercati

• POLONIA, LA TIGRE D'EUROPA

Il pil cresce a ritmi cinesi, l'inflazione è stata debellata: un paese stabile che attira sempre più capitali esteri

• TV, RALLENTA LA “PAY” E SU INTERNET NON DECOLLA La pubblicità è pronta a spostarsi sul nuovo media ma l'offerta di Iptv è ancora limitata

• MPS E UNIPOL, LA FINE DELLA FINANZA ROSSA

Siena esce da Finsoe, ora i destini sono separati. I progetti della banca e della compagnia

Nel numero in edicola domani con Repubblica Nazionale

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

DOMENICA 6 LUGLIO 2008

la memoria Leader allo specchio

Uno apostolo della non violenza, l’altro vincitore della guerra mondiale. Uno simbolo del dialogo, l’altro paladino della superiorità europea. Plasmarono le loro nazioni e cambiarono il pianeta. Si incontrarono una volta, non si capirono mai. Una nuova biografia parallela li avvicina. Attraverso gli errori che commisero

Il Mahatma e Sir Winston uniti solo nella sconfitta FEDERICO RAMPINI

Churchill, nonostante la sua lucidità, non riuscì a capire Gandhi e lo definì “un avvocaticchio che si atteggia a fachiro”

Il padre dell’indipendenza indiana si dimostrò incredibilmente ingenuo nei confronti del nazifascismo Agli ebrei tedeschi consigliò di “dimostrare che la forza di soffrire è un dono di Dio” PREMIO NOBEL

GRANDE ANIMA

Winston Leonard Spencer Churchill (1874-1965)

Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948)

difficile immaginare due vite parallele e al tempo stesso così diverse. Da una parte l’apostolo della non violenza; dall’altra un vincitore della Seconda guerra mondiale. Uno è il simbolo del dialogo fra le religioni e della tolleranza multietnica, l’altro è un paladino della superiorità europea. Per il primo la libertà è un dono di Dio; per il secondo è il valore supremo della civiltà occidentale. Gandhi e Churchill si sono visti di persona una sola volta, brevemente, nel 1906 a Londra: un incontro fugace e insignificante. Hanno passato il resto della loro vita a non capirsi, a combattersi a distanza, cercando di trascinare la storia del Novecento in direzioni opposte. Mohandas Karamchand Gandhi nasce nel 1869 in una piccola città di provincia del Gujarat, a nord di Bombay, da una famiglia della casta dei banias (mercanti). Da bambino cresce coccolato dagli affetti familiari, ha una mamma devota che pratica lunghi digiuni e meticolosi riti nei templi induisti. In un ambiente impregnato di spiritualità, molti conoscenti e amici di famiglia sono giainisti, appartengono a una religione che insegna il vegetarianesimo e il rispetto di tutti gli esseri viventi: i fedeli più rigorosi si coprono la bocca con una mascherina per non inghiottire inavvertitamente dei moscerini. Secondo le consuetudini, all’età di tredici anni i genitori lo sposano con una bambina di loro scelta, figlia di un commerciante. Più giovane di cinque anni, nel 1874 Winston Leonard Spencer Churchill vede la luce in un ambiente che è davvero l’altra estremità del mondo. Nasce nel palazzo più grande d’Inghilterra dopo la dimora reale, il castello di Blenheim: 187 stanze. Tra i suoi avi annovera il primo duca di Marlborough, il generale le cui vittorie all’inizio dell’Ottocento hanno contribuito a costruire l’Impero britannico. A differenza di Gandhi il piccolo Churchill ha un’infanzia infelice. È trascurato dalla madre, impegnata con troppi amanti. Il padre Randolph è un politico brillante e ambizioso che ricambia la sconfinata ammirazione di Winston con il disprezzo, abbandona il figlio in collegio, e da vecchio viene distrutto dalla sifilide.

È

Le strade di Gandhi e Churchill si avvicinano — senza veramente incrociarsi — per la prima volta in un paese lontano dall’India e dall’Inghilterra. È in Sudafrica che Gandhi fa carriera come avvocato e scopre la sua prima vocazione politica: difendere i diritti civili della minoranza indiana, immigrati colpiti dalle discriminazioni e dall’apartheid. Nella guerra dei Boeri (1899-1902) Gandhi aiuta gli inglesi creando un corpo di volontari indiani per soccorrere ai feriti. È la stessa guerra in cui Churchill si distingue per il suo eroismo militare combattendo in un reggimento di cavalleria degli ussari di Sua Maestà. Da lì si trasferisce in India, dove riempie i tempi morti della guarnigione studiando la storia dell’antica Roma di Gibbon, la storia inglese di Macaulay, e L’origine delle specie di Darwin. Per la prima volta oggi uno studioso si cimenta con il confronto tra due icone così universali e antitetiche, scrivendone le biografie incrociate. Arthur Herman ha appena pubblicato Gandhi and Churchill(editore Bantam, Londra e New York). Il sottotitolo è: L’epica rivalità che distrusse un impero e diede forma alla nostra epoca. Herman prende in contropiede la tradizione agiografica. Castiga il vizio di interpretare queste due vite nel modo più scontato, cioè partendo dall’apice della gloria per illuminare tutto il percorso dei due personaggi. Lui fa il contrario. Il massimo dell’attenzione la dedica alle loro sconfitte. Perché gli insuccessi di Gandhi e quelli di Churchill sono collegati fra loro. I due sono entrati in rotta di collisione anche per le loro speculari rigidità, l’incapacità di dialogare e di trovare dei compromessi. Forse furono simili proprio in questo: ebbero in comune una tenacia che sconfinava nell’ostinazione, visioni grandiose e profetiche che potevano diventare ossessive, monomaniacali. Dei loro trionfi sapevamo già quasi tutto. Sono giganti della storia che hanno plasmato due nazioni. Il loro irriducibile antagonismo è meno esplorato. I loro errori oggi ci incuriosiscono di più. Churchill è ricordato per la sua lucidità nel capire il pericolo nazista, la forza con cui trascina l’Inghilterra — per un tempo da sola —

a resistere contro la travolgente avanzata delle potenze dell’Asse, per l’abilità che dispiega nel convincere Roosevelt a far scendere in campo l’America. È anche un notevole scrittore, premio Nobel della letteratura nel 1953 per la sua storia della Seconda guerra mondiale. Ma non riuscirà mai a capire Gandhi, che gli ispira solo irritazione. Lo definisce «un avvocaticchio che si atteggia a fachiro, una figura comune in Oriente». Per tutta la sua vita resta convinto che l’Impero britannico è una forza benefica, un pilastro di stabilità su cui fondare l’ordine internazionale, un maestro di progresso per i popoli dominati. Rifiuta l’idea dell’indipendenza indiana: «Non sono diventato primo ministro per presiedere allo smantellamento dell’Impero britannico». Bisogna aspettare che gli elettori inglesi lo caccino all’opposizione dopo la vittoria contro Hitler: l’India diventa sovrana nel 1947 quando a Londra governano i laburisti. Con un errore di valutazione storica che oggi sembra incredibile, Churchill ha una ripugnanza identica verso il nazismo, lo stalinismo e il gandhismo. Gli sembrano avere una caratteristica in comune, quello scatenamento di movimenti di massa che nel Novecento sconvolgono l’ordine costituito. Ispirandosi all’interpretazione di Gibbon sul ruolo della religione nella caduta dell’Impero romano, Churchill diffida della spiritualità a cui fa appello Gandhi. Nell’Impero britannico vede un potere disciplinante, che può portare modernità e libertà attraverso regole e istituzioni collaudate. È l’unico statista mondiale a non esprimere le sue condoglianze per l’assassinio del Mahatma nel 1948. Quell’uccisione gli appare, scrive Herman, «solo un morto in più nella lunga catena di stragi» provocate dal fanatismo religioso. Malgrado il suo acume di studioso della storia, Churchill non si rende conto che un suo errore ha accelerato i tempi della decolonizzazione: nella Prima guerra mondiale la sua decisione di lanciare l’offensiva di Gallipoli contro la Turchia ha alienato alla Gran Bretagna l’appoggio della minoranza musulmana in India, gettandola (per un po’) nelle braccia di Gandhi. La pervicace opposizione all’in-

dipendenza indiana lo ha indebolito perfino in Inghilterra, rendendolo meno credibile quando negli anni Trenta lancia profetici avvertimenti contro il pericolo del riarmo tedesco. Gli errori storici di Gandhi non sono meno gravi. Il suo pacifismo gli fa velo al punto di trasformarsi in una folle ingenuità di fronte al nazifascismo. Quando insiste perché i soldati inglesi lascino l’India nel cuore della Seconda guerra mondiale, non capisce che spianerebbero la strada al ricongiungimento delle forze tedesche e giapponesi, consegnando a Hitler il petrolio del mondo arabo. Durante i bombardamenti della Luftwaffe su Londra lancia agli inglesi un appello sconcertante: «Invitate Hitler e Mussolini a prendersi quei Paesi che considerate vostri. Lasciate che s’impadroniscano della vostra bella isola. Gli darete la terra ma non le vostre menti né le vostre anime». Agli ebrei tedeschi perseguitati dal nazismo consiglia di «dimostrare con calma che la forza di soffrire è un dono di Dio, e la dignità umana convertirà i persecutori». Anche agli etiopi aveva suggerito di non resistere contro le truppe italiane, fino ad accettare lo sterminio, «perché tanto a Mussolini non serve conquistare un deserto». Se l’India fosse caduta nelle mani dei giapponesi — che ci arrivarono molto vicini, in Birmania e a Singapore — la storia della guerra mondiale poteva cambiare. Hitler da parte sua aveva le idee chiare su Gandhi. Nel 1938, prima che esplodessero le ostilità, aveva offerto un consiglio disinteressato a Lord Halifax sul modo migliore per trattare il movimento indipendentista indiano. «Fucilate Gandhi per primo — aveva detto il Führer — e se non basta fucilate una dozzina di leader del suo partito del Congresso. Se ancora non basta fucilatene duecento. E andate avanti così, finché l’ordine sarà ristabilito». Le vite di Gandhi e Churchill si concludono su fallimenti paralleli. Le battaglie a cui tenevano di più non sono quelle in cui hanno trionfato. Per Churchill l’ambizione più grande era tenere unito l’Impero britannico, che invece si disintegrò in pochi anni dopo la sconfitta di Hitler. Per Gandhi il traguardo era l’affermazione dell’amore uni-

GANDHI 2 OTTOBRE 1869

1881

1885

1893

1903 - 1913

1920 - 1932

15 AGOSTO 1947

30 GENNAIO 1948

Nasce a Porbandar, una città di pescatori nell’attuale Gujarat, in India, Mohandas Karamchand Gandhi La famiglia è di religione giainista, ma il padre è induista

All’età di tredici anni Ghandi sposa, con un matrimonio combinato secondo la tradizione indù, Kasturba, sua coetanea Avranno quattro figli, tutti maschi

A diciassette anni, tre anni dopo la morte del padre, Gandhi parte per Londra per studiare da avvocato presso lo University College dove si laurea con facilità

Tornato in India, Gandhi è incaricato di seguire una causa in Sudafrica Qui si batte contro l’apartheid e a difesa dei diritti degli indiani Fonda il Natal Indian Congress

Adotta per la prima volta la strategia della protesta non violenta. Ottiene il riconoscimento di importanti diritti per gli indiani in Sudafrica

Lotta per un’India indipendente e unita, lo fa attraverso la disobbedienza civile, la non cooperazione, uno sciopero generale E infine organizza la marcia del sale

Svanisce il sogno di Gandhi. Il Paese viene diviso in due Stati: l’India, a maggioranza indù, e il Pakistan, a maggioranza musulmana È la “partizione”

A 78 anni Gandhi viene assassinato a Nuova Delhi da Nathuram Godse, un fanatico indù, mentre sta andando a pregare nel suo giardino

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IL LIBRO Lo storico Arthur Herman ha appena pubblicato Gandhi and Churchill (Bantam, 681 pagine, 30 dollari) Il sottotitolo è: L’epica rivalità che distrusse un impero e diede forma alla nostra epoca È una biografia parallela dei due maggiori protagonisti della caduta dell’egemonia britannica e del nuovo ordine mondiale

COVER STORY L’immagine grande è un’illustrazione di Achille Beltrame sulla Domenica del Corriere che documenta la resistenza non violenta indiana contro l’occupazione britannica; in alto a destra, insieme ad alcune memorabilia dell’impero britannico, due delle copertine che Time dedicò ai due leader politici, a Gandhi il 31 marzo 1930 e a Churchill il 6 gennaio 1941

versale: dovette assistere impotente alla tragedia della Partizione, la secessione del Pakistan voluta dai leader islamici, i terribili pogrom fra le comunità indù, musulmane e sikh che fecero quasi due milioni di vittime. In un certo senso l’uno e l’altro furono prigionieri di una visione idealizzata del passato: per Churchill la missione civilizzatrice dell’Impero britannico, il «fardello dell’uomo bianco»; per Gandhi il mito dell’India ancestrale fondata sull’economia dei villaggi, l’autarchia, il rifiuto dello sviluppo economico. Il Mahatma avrebbe eliminato volentieri il telegrafo, la ferrovia e gli ospedali. Quell’anti-modernismo fu ripudiato dal suo allievo politico Nehru, il primo capo di governo dell’India indipendente; oggi non si riconosce in quell’aspetto della visione gandhiana neppure il Dalai Lama. I due grandi rivali come reagirebbero nel vedere l’India del Ventunesimo secolo campionessa di crescita economica, capace di conquistarsi uno status da grande potenza? È un gioco ingeneroso attribuire giudizi sul presente a chi non c’è più. Ma sulla base di quel che sappiamo di loro, il più contento forse sarebbe Churchill: nel boom indiano potrebbe scorgere anche i segni positivi dell’eredità britannica. Gandhi probabilmente troverebbe quest’India troppo americanizzata, succube del materialismo e della seduzione del denaro.

CHURCHILL 30 NOVEMBRE 1874

1893

1899

1900

1908

1940 - 1944

1945

1951 - 1965

Nasce a Woodstock, nell’Oxfordshire, da padre aristocratico inglese e madre americana, Sir Leonard Winston Churchill Spencer. Trascorre l’infanzia in Irlanda

Dopo aver studiato presso la celebre scuola di Harrow, Churchill è ammesso alla scuola di Sandhurst dove si dedica alla carriera militare. Diventa ufficiale dell’esercito

Partecipa come ufficiale e inviato del Morning Post alla guerra del Traansval in Sudafrica. Catturato dai Boeri, evade e si guadagna la prima notorietà

Churchill lascia la carriera militare e si dedica alla politica Viene eletto come deputato conservatore di Oldham. Ma negli anni seguenti si avvicina ai liberali

È nominato ministro del Commercio nel governo liberale di Herbert Henry Asquith. Sposa Clementine Hozier e diventa ministro dell’Interno

Churchill diventa primo ministro nel 1940 Il Paese resiste all’attacco tedesco e, ottenuto l’aiuto americano, esce vincitore dalla Seconda guerra mondiale

Nonostante la vittoria bellica, Churchill non viene confermato primo ministro La richiesta di riforme sociali porta nelle elezioni politiche alla vittoria dei laburisti

Sarà ancora primo ministro dal’51 al’55 Nel’53 diviene Sir e ottiene il Nobel per la letteratura grazie agli scritti sulla guerra Muore a Londra il 24 gennaio 1965

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CULTURA*

Un archeologo-bibliofilo ha raccolto volume dopo volume la collezione dell’autore di “Lavorare stanca”. Come un’autobiografia per pagine lette

e annotate, che mostra la passione per la letteratura d’oltreoceano e la ribellione ai temi imposti dal fascismo al potere. Una mostra e un catalogo, nell’anno del centenario, celebrano quell’avventura

Amori di carta nella biblioteca perduta MASSIMO NOVELLI

G

TORINO

li antichi Romani pensavano che nel nome di una persona fosse indicato il suo destino. Ci si può credere o meno, però nel caso di Claudio Pavese il nomen omen non fa una grinza. È un gentile signore di Torino che, dopo essersi occupato per un certo periodo di comunicazione aziendale, ha scelto di diventare soltanto ciò che sentiva di essere: uno che ama i libri e che li colleziona, in particolare i testi delle case editrici italiane di cultura che hanno operato nella parte nobile del Novecento. Tutto questo con una predilezione speciale per l’Einaudi dei tempi eroici e per lo scrittore che della casa dello Struzzo è stato il simbolo e, in virtù di un’omonimia fatale, porta il suo stesso cognome: Cesare Pavese. Più che di collezionismo preferisce parlare di «archeologia editoriale», ossia di un lavoro con cui, «libro dopo libro, restauro dopo restauro», da una trentina d’anni cerca di «ripristinare vere e proprie avventure editoriali», andando a scovare i suoi tesori cartacei da rigattieri, oscuri librai ed esosi antiquari, in scantinati e in magazzini polverosi. Ed è esattamente un’avventura editoriale quella che l’archeologo-bibliofilo, la cui raccolta si aggira sui duemila libri e comprende pressoché tutte le collane storiche einaudiane, ora ha ricostruito insieme a Franco Vaccaneo, direttore del comitato scientifico della Fondazione Pavese di Santo Stefano Belbo, il paese natale dell’autore de La luna e i falò del quale si sta celebrando il centenario della nascita. Dalla duplice passione sono sbocciati una mostra e soprattutto un volume raffinato e prezioso, Cesare Pavese. I libri, edito da Nino Aragno, che ha il suo punto di eccellenza nella ricchissima documentazione iconografica: le copertine di duecentocinquanta libri (quasi tutti prime edizioni) forniti dal collezionista torinese e che, spiega Vaccaneo nell’introduzione, raccontano Cesare Pavese attraverso «una vita con i libri e per i libri, suoi e degli altri. L’uomo libro, secondo una sua celebre auto-definizione. Un uomo di carta, secondo Massimo Mila: “Una pila di migliaia, milioni di pagine dei libri più diversi, un concentrato di letteratura e di pensiero”». Oltre a testimoniare la sua attività letteraria, editoriale e di traduttore, il volume è nel contempo un viaggio, unico nel suo genere, nella storia della nostra editoria di qualità del secolo scorso. L’Ei-

Disse di lui Calvino: “La sua cultura e la sua sensibilità si trasformavano in lavoro produttivo” naudi di Giulio Einaudi, di Pavese, di Leone e Natalia Ginzburg, di Giaime Pintor, di Norberto Bobbio, di Mila, di Italo Calvino e di Elio Vittorini è naturalmente al centro, come un impero su cui il sole sembrava non dovesse tramontare mai. Intorno si muovono gli altri: editori grandi e piccoli, dai torinesi Frassinelli, De Silva e Ribet per arrivare a Mondadori e a Bompiani, ognuno impegnato a divulgare, in pieno fascismo, le opere migliori della grande letteratura americana ed europea. Spicca, tra le altre, la figura di Elio Vittorini, narratore, traduttore dall’inglese, organizzatore culturale ed editoriale al pari di Pavese, con il quale condivise passioni letterarie e che stimò fin dal suo primo romanzo pubblicato, come gli scriveva il 16 giugno 1941, rife-

NOTE A MARGINE In queste pagine, alcune copertine dei libri della “biblioteca” di Cesare Pavese; a destra, la prima poesia dell’Antologia di Spoon River con una nota di Fernanda Pivano che tradusse il libro sotto la guida di Pavese

rendosi a Paesi tuoi: «Tornando al tuo libro, come ho sentito vociferare in proposito di americanismo e citare particolarmente Steinbeck, voglio essere più preciso della volta scorsa: io lo trovo di “gran lunga” migliore dei libri di Steinbeck». È una biblioteca dei libri perduti, quella che il collezionista piemontese ha prestato al volume curato da lui e da Vaccaneo, e restituisce il valore di un’epoca dove nel mondo editoriale, come ebbe a dire Calvino del Pavese redattore dell’Einaudi, «la cultura del letterato e la sensi-

bilità del poeta si trasformavano in lavoro produttivo, in valori messi a disposizione del prossimo, in organizzazione e commercio d’idee, in pratica e scuola di tutte le tecniche in cui consiste una civiltà culturale moderna». Dietro alle edizioni delle collane dello “Struzzo”, dalla “Universale” ai “Narratori stranieri tradotti”, fino ai “Gettoni”, ai “Coralli”, alla

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La scoperta dell’America per raccontare l’Italia NELLO AJELLO libri come autobiografia di chi li colleziona. Si può dirlo di ogni intellettuale. Ma nel caso di Cesare Pavese, quel legame fra un uomo e i propri libri diventa storia, aneddotica, racconto. Si viene trasportati all’interno di un ambiente, la Giulio Einaudi editore, di cui il romanziere fu gran parte fra gli anni Trenta e Cinquanta. Circolano dentro quegli scaffali eroi “di carta” e compagni di avventure intellettuali. Vi si scorgono passioni sedimentate. Vi si intravedono continenti sognati o trasfigurati dall’arte della parola. Partiamo da quest’ultima realtà: la geografia ideale di Pavese. Essa culmina nella sua passione per l’America, quasi temeraria negli anni del tardo fascismo. A provarla, questa passione, l’autore di Paesi tuoi e dei Dialoghi con Leucò non è né resterà il solo. Ne sarà addirittura divorato il coetaneo Elio Vittorini, del quale figura in biblioteca il romanzo Conversazione in Sicilia (ancora in edizione Parenti, 1941, con il titolo Nome e lacrime). Italo Calvino, amico di entrambi ma di quindici anni più giovane, arriverà a confessare: «C’è stato un tempo in cui per me e per molti altri Hemingway era un dio». Da Melville, di cui è appassionato traduttore, a Caldwell, da Sinclair Lewis a John Steinbeck, da Sherwood Anderson (anch’esso da lui tradotto nel ‘32 per l’editore Frassinelli) all’Antologia di Spoon River, di cui conserva una copia del ‘43 nella versione dell’“americanista” Fernanda Pivano, gli scaffali di Pavese si riempiono di questa letteratura, nella quale, egli annota, i richiami «della terra e del sangue assumono forme ingenue, violente, talora selvagge». «Noi scoprimmo l’Italia», concluderà più tardi, «cercando gli uomini e le parole in America». Il confronto con un modo libero e immaginoso di concepire l’esistenza assumeva, in quegli anni, il valore di una rivolta antiprovinciale. Il jazz, voga musicale ostica alle orecchie dei fascisti, diventò il vessillo di un cosmopolitismo indocile; e la mitologia yankee si estese alla letteratura disegnata per l’infanzia. Un suggestivo messaggio proveniente da oltreoceano emanavano i cartoon di Walt Disney, con in cima quel Mickey Mouse, nelle cui vicende di giornalista brillante, fortunato detective o astuto scavezzacollo si riflette nella maniera più naturale il costume americano. Finché il regime, con l’incalzare della Seconda guerra mondiale, non ne vieterà la diffusione, le avventure di Topolino trovarono vari editori, da Nerbini a Mondadori e al torinese Frassinelli, sotto la cui sigla sono presenti nella libreria di Pavese. La realtà ufficiale dell’Italia, insomma, vissuta nettamente a rovescio, proprio in quegli anni Trenta e metà Quaranta, che nella vita dello scrittore piemontese (1908-1950) occupano una stagione privilegiata. Intorno a lui ferveva l’attività della Einaudi, un’istituzione ancora giovane — data di nascita, 1933 — ma ben presto sospetta di sovversivismo. Di fatto, tra la sua fondazione e la caduta del regime littorio, la casa torinese aveva percorso il proprio viaggio attraverso il fascismo nelle varie tappe comuni a un’intera generazione di intellettuali. E ne aveva riportato traumi esemplari: a cominciare dalla soppressione, nel ‘34, della Riforma sociale, la rivista diretta da Luigi Einaudi e poi passata alle cure editoriali di suo figlio Giulio, per finire con le noie giudiziarie subite dal periodico La Cultura, ideata da Leone Ginzburg e diretta infine dallo stesso Pavese. Il catalogo einaudiano testimonia, in quegli anni di censure e di arresti («il carcere ci scottò tutti quanti», avrebbe ricordato patron Giulio, riferendosi alla retata subita dai suoi redattori nel maggio 1935) un’apertura mentale impossibile da nascondere. Essa investiva, oltre alla letteratura, l’economia, la scienza e la saggistica di argomento civile. Scorgendo per esempio fra i libri di Pavese una copia ingiallita de Il pensiero politico italiano di Luigi Salvatorelli, si risale alla fondazione di quella “Biblioteca di cultura storica” che quel volume inaugurò, e che sarebbe sempre restata un emblema di qualità. Italo Calvino indicherà in Leone Ginzburg l’uomo dal quale «la collana ebbe il primo impulso» (e fu lo stesso Ginzburg a trovar da ridire quando un’altra collana venne battezzata “Biblioteca dello struzzo”: così, osservò, tutti penseranno che stampiamo «libri che solo uno struzzo può digerire». Cesare Pavese, Felice Balbo, Massimo Mila, poi i “romani” Muscetta, Alicata e Giolitti: sono soltanto alcuni degli intellettuali che, fra carcere, condanne al confino e lutti irreparabili (la morte di Ginzburg e di Giaime Pintor), s’inscrivono in quella storia. Di cui sono parte integrante quelle riunioni redazionali del mercoledì, in cui — racconterà Giulio Einaudi — si poteva vedere «Giaime Pintor in polemica con Vittorini, Vittorini con Calvino, e Pavese con Felice Balbo». Troppi cervelli riuniti insieme, con l’obbligo di pensare. Uno fra i dibattiti più accesi riguardò quella collana viola di studi religiosi, etnologici e psicologici, che fu inventata (benché in vivace disaccordo fra loro) da Pavese ed Ernesto De Martino. L’autore de La bella estate ne conservava vari volumi. E le altre aziende editoriali? «Bocca, Laterza, Treves erano per noi gli esempi storici», ricorderà ancora patron Giulio. «I nuovi antagonisti, la Mondadori e la Bompiani». Specie quest’ultima, nella persona del suo fondatore, il conte Valentino. Dopo essere stato segretario di Arnoldo Mondadori, egli si era messo in proprio fin dal ‘29, iscrivendosi a quella categoria che uno storico della cultura, Gian Carlo Ferretti, chiama degli «editori-protagonisti». Soprattutto nel campo della letteratura d’oltreoceano la sua presenza era determinante. Porta il marchio Bompiani quella preziosa raccolta di narratori intitolata Americana (Pavese la conservava nell’edizione del ‘42) intorno alla quale il regime inscenò un autentico baccanale censorio. Elio Vittorini, che come consulente editoriale si divideva fra Mondadori, Bompiani ed Einaudi, partecipò alle trattative con grande veemenza. Si diceva allora fra letterati che, pur avendo chiuso le proprie sedi diplomatiche a guerra iniziata (1941), gli Stati Uniti potevano contare in Italia su due ambasciatori. Uno era Pavese, l’altro Vittorini.

I

ILLUSTRAZIONE DI TULLIO PERICOLI

L’Einaudi è al centro, come un impero

su cui sembrava non dovesse tramontare il sole IL LIBRO Curato da Claudio Pavese e Franco Vaccaneo, su progetto grafico di Carlo Fantinel, il volume Cesare Pavese. I libri (Nino Aragno editore, 204 pagine, 35 euro), sarà in libreria nei prossimi giorni. Dal libro è stata tratta una mostra, inaugurata venerdì alla Fondazione Pavese di Santo Stefano Belbo L’esposizione sarà aperta fino al 4 ottobre

collana viola degli studi etnologici, religiosi e psicologici, così come ai romanzi degli americani stampati da Bompiani e da Mondadori nella “Medusa”, con le traduzioni di Vittorini, si avverte la mano dell’intellettuale e del grafico, del pittore che illustrava le copertine (da Francesco Menzio a Renato Guttuso) e dello stampatore. Davano vita a una confraternita nella quale l’uno, per scomodare Ezra Pound, era «il miglior fabbro» dell’altro. Una raccolta di lettere editoriali di Cesare Pavese, compresa nel libro di Aragno e selezionata da Silvia Savioli, con alcune inedite (ce n’è una a Eugenio Montale)

contribuisce a comprendere l’eccezionalità e l’irripetibilità di quella stagione. Sono le ragioni che hanno spinto Claudio Pavese a indossare i panni di una sorta di Indiana Jones dei libri: «Tassello per tassello, frammento per frammento, ogni parte trovata viene catalogata, studiata, indagata, poi, con calma certosina, sempre un tassello dopo l’altro, un frammento dopo l’altro, l’opera ritorna alla sua interezza originaria». E, un po’ come nel romanzo L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafon, il libro ricomincia a essere un’avventura memorabile.

LETTERE Sopra, la letteracontratto di Carlo Frassinelli a Pavese del 1932 per la traduzione di Moby Dick, e una di Pavese a Montale del 1945 Nel disegno a centropagina, Pavese visto da Tullio Pericoli

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Il grande regista ha donato il suo archivio alla città di Firenze In attesa che venga trasferito nelle Antiche scuderie granducali, ce lo ha mostrato e ha tirato fuori dai cassetti per la prima volta i disegni per un lavoro ispirato a Dante ma mai realizzato anche per i cattivi presagi del veggente Rol che consigliò: “Materia scottante, lascia perdere”

SPETTACOLI

on tutto quello che ha passato, le umiliazioni dell’infanzia da N.N., le molestie di un frate all’oratorio, gli amori spesso travolgenti, come il rapporto che tanto lo ha segnato con Visconti; con le follie del successo, le invidie, i bisticci e i clamori attraversati, la morte a volte sfiorata da vicino, i grandi incontri in giro per il mondo, leader potenti come Bob Kennedy e i Clinton, star del podio come Karajan e Kleiber, icone del femminile come Anna Magnani, Liz Taylor e la venerata Callas, e ancora Laurence Olivier e «l’orribile Onassis», il quale, riferisce, lo insultò con le sue avances, «forse per mettere zizzania tra me e Maria», Franco Zeffirelli ha coltivato sempre un’incrollabile fede in Dio. E come ogni credente ha fantasticato molto sull’inferno, col suo sentire da regista, immaginando «un luogo di sospensione nel tempo, capace di frantumare cognizioni reali e cronologiche, come un trasognamento allucinato al quale accedere lungo un tunnel, per poi precipitare in abissi senza fine». Su quest’idea spaventosa, «perché si tratta dell’esserci e del non esserci, e dell’identificazione di un linguaggio che comunichi allo spettatore tale sfasamento, quindi anche dell’invenzione di una tecnica espressiva e fotografica ardita e inquietante, estranea alle nostre percezioni più familiari», Zeffirelli ha lavorato a lungo, a fine anni Settanta, mettendo in cantiere un film grandioso mai andato in porto: «Dopo il successo del Gesù di Nazareth mi chiesero quale film avrei voluto girare: difficile far seguire un’opera come il Gesù da una cosa qualsiasi. Perciò decisi di tornare a un ambizioso progetto vagheggiato anni prima e dedicato all’inferno dantesco». Nel frattempo c’era stata la preparazione cupa e accidentata de Il viaggio di G. Mastorna di Fellini, film che avrebbe dovuto far morire il suo protagonista in un disastro aereo per poi gettarlo all’inferno: «Gustavo Rol, famoso mago torinese che ho conosciuto bene, lo aveva sconsigliato. E Fellini non faceva neppure colazione la mattina se prima non parlava con Rol. Il quale, riguardo a Mastorna, era stato categorico: accantonalo, potrebbe essere l’ultimo film della tua vita, smuove energie pericolose. Quando il produttore De Laurentiis annunciò quella sua nuova impresa, Fellini s’ammalò gravemente. Ma dal momento in cui disse a De Laurentiis di voler rinunciare al film maledetto cominciò a sentirsi meglio, finché guarì del tutto. Il produttore gli fece causa e gli portò via ogni proprietà, e fu così che Federico perse l’amatissima casa di Fregene». Quanto all’altro Inferno, quello di Zeffirelli, «anche a me Rol disse: non farlo, materia scottante, lascia perdere. Eppure mi piaceva pensare a una grande produzione in lingua inglese, con un Dante di oggi che è un intellettuale cinico e una forte personalità che fa opinione. Un uomo che lavora nell’arte e nell’editoria, che avverte il talento dei giovani e ha gli strumenti per lanciarli. Costui, morendo su un aereo che precipita — però io non sapevo niente del Mastorna—, vive il suo sogno infernale». Aggiunge che il produttore avrebbe dovuto essere Bini, «un avventuriero», e spiega che «il film partì nella fase preparatoria, nel senso che andammo a fare i sopralluoghi. Si doveva girare in Croazia e Slovenia, perciò visitammo le montagne del Carso dove scorre il fiume Timavo, che ha scavato grotte nelle Alpi carsiche, come quella di Postumia, impressionante e potenziata a suo tempo da Mussolini, che ne fece un polo turistico, costruendo una ferrovia di quattordici chilometri nelle viscere della terra. In quella zona ci sono anche altre grotte di terrificante suggestione». Però tutto andò a monte: «Bini vendette la mia idea nel mondo, prendendo acconti senza avere ancora alcun contratto con me, e il film crollò perché non aveva soldi. Rol me lo aveva detto: quel tuo Inferno non lo girerai. E io me lo auguro per te».

C

“Il mago mi disse Quel film non girarlo” LEONETTA BENTIVOGLIO

Oggi, a ottantacinque anni, passionale e dispettoso come sempre, Zeffirelli tira fuori per la prima volta dai cassetti i disegni da lui firmati per quel lavoro: vorticose raffigurazioni in inchiostro color seppia, con gironi, abissi, squadre di peccatori, paesaggi tenebrosi e creature imponenti come idoli orientali e annotazioni scritte attorno, come nei fumetti. Quel film è una delle sue fantasie che considera attuali e ancora realizzabili, come la serie de I Fiorentini, «che per me resta una spina nel fianco. Sei puntate per la Rai a cui cominciai a lavorare nell’83, anno in cui facemmo addirittura un annuncio ufficiale al Louvre, nella Sala dei Giganti. È una storia su quanto accadde nei vent’anni più prodigiosi di Firenze, l’epoca di Michelangelo e Leonardo, dei grandi Medici e Machiavelli. Oggi è difficile fare un film del genere perché non c’è più una visione epica del cinema: ci si limita a girare porcherie che costano fortune, tutte a base di effetti speciali». Le sette stesure de I Fiorentini(«non smetto di lavorarci»), così come tantissimo altro, fanno parte dell’immenso archivio Zeffirelli finora custodito nella sua villa romana, nei pressi dell’Appia Antica, piena di cani innamorati del padrone, da cui non sembrano volersi mai staccare. Lui, loquace e scatenato, vi abita tra telefonate e viavai di assistenti, accudito e protetto da Pippo e Luciano, i due aitanti giovanotti che ha adottato come figli. Qui conserva centinaia di bozzetti, scenografie, disegni, costumi, appunti e note di regia per la prosa, il cinema, l’adorata lirica. E ancora copioni, foto, sceneggiature, scambi di corrispondenza con attori, cantanti, direttori d’orchestra e drammaturghi. Dai un’occhiata agli scaffali e leggi: 1948, Eliseo di Roma, Un tram che si chiama desiderio, con un tris d’assi come Gassman, la Morelli e Mastroianni; 1964, Dopo la caduta di Arthur Miller, con Monica Vitti e Albertazzi. Il contenitore delle varie fasi di Fratello Sole, Sorella Luna, lo scatolone con le tappe di Romeo e Giulietta, la splendida visione di Richard Burton e della Taylor nella Bisbetica Domata, gli schizzi della crocifissione per il Gesù. Le tinte dense delle scene per le opere: toni scarlatti per Carmen e aurei per Aida, l’intensissimo turchino del Trovatore, il fasto azzurro di una Traviata. «Ho studiato pittura a Firenze», racconta, «e ho sempre avuto una buona mano, che mi ha facilitato il compito nel cinema e in teatro. Quando avevo un’idea e volevo spiegarla ai miei collaboratori la disegnavo. Visconti invece disegnava male, e a volte era disperato di non poter esprimere le sue intenzioni tramite le immagini». Come regista di lirica Zeffirelli è stato frenetico, instancabile: «Ho firmato otto Don Giovanni, sei Aide, non so quante Traviate. Ricreo nuove edizioni dello stesso titolo, o rimonto quelle passate: la mia Bohème dell’81 è stata rappresentata 546 volte. Con l’opera non si finisce mai di scoprire». Spiccano pareti colme di libri anche pregiati e antichi che formano una biblioteca enorme scandita da volumi specializzati nelle arti dello spettacolo: «Saranno diecimila o forse più. Si va per blocchi di argomenti, fonti d’ispirazione e documentazione: tutto sul Giappone, sull’Inghilterra elisabettiana, sulla Parigi romantica... Testi e immagini a cui attingere per i miei spettacoli, dei quali sono sempre scenografo oltre che regista». Un patrimonio generoso che in questi giorni viene catalogato prima di essere trasferito a Firenze, la città di Zeffirelli, alla quale il regista ha scelto di darlo in donazione: «Per ospitarlo il Comune sta allestendo uno spazio molto bello nelle Antiche scuderie granducali, che diventerà un centro internazionale delle arti dello spettacolo, col supporto di società americane e russe. Vi confluiranno anche altri materiali: recupereremo cose di Visconti andate disperse, arriverà forse la collezione del grande costumista Piero Tosi, proveremo a riunire informazioni e documenti sparsi». Dice che lo fa

Quando caldo e fatica ti buttano giù, scegli la forza del numero uno

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DISEGNI INEDITI Qui sotto, tre dei disegni preparatori, finora inediti, realizzati da Franco Zeffirelli per un film, mai girato, ispirato all’inferno dantesco. In basso a sinistra, altri due disegni del regista fiorentino: un bozzetto per l’allestimento della Cavalleria rusticana (1969) e uno per quello di Dopo la caduta (1965) Nelle foto, tutte tratte da Zeffirelli Autobiografia, Oscar Mondadori, Zeffirelli bambino (qui accanto) e, in basso, un suo ritratto e due momenti in compagnia di Maria Callas e Richard Burton

per i giovani, per il futuro, per l’avvenire di un’arte che si sta sfaldando: «Noi italiani “siamo” l’opera, e dovremmo sforzarci di rammentarlo. Abbiamo avuto Monteverdi, Verdi e Puccini, abbiamo costruito magnifici teatri in ogni città, i tesori della nostra lirica sono rimbalzati fuori dall’Italia, e tutto questo va valorizzato, non svilito come accade troppo di frequente. Credo che il mio archivio possa essere utile alle nuove generazioni, non come esaltazione di Zeffirelli, ma come metodologia di lavoro. Io disegno lo spettacolo in tutte le sue fasi: la prima idea e le tappe degli sviluppi fino all’andata in scena. Tanti giovani mi chiedono consigli, cercano maestri, vorrebbero svilupparsi nella direzione giusta, annaspano nel mare di nulla in cui siamo immersi. A chi rivolgersi? Dove sono, oggi, i pittori e gli scenografi geniali, la gente del teatro più autentico, gli artisti come Visconti a fare da apripista? E se i ragazzi odierni hanno talento, come faranno a scoprirlo? A chi possono guardare come punti di riferimento, oggi che i barbari stanno facendo irruzione ovunque?». Sostiene che «gli attuali registi sono degli scellerati, convinti che far morire Violetta schiacciata da un autobus, invece che di tuber-

Inferno Zeffirelli L’

di

colosi come nel libretto, sia un’interpretazione intelligente del testo di Verdi». Le sue scenografie, centotrenta quadri di forte rilievo pittorico, sono state esposte di recente dal Museo Puskin, in Russia, per una visitatissima mostra durata sei mesi. E a New York, poco tempo fa, per l’ottantacinquesimo compleanno, è stato festeggiato da un “Tribute” che celebrava i suoi allestimenti al Metropolitan, teatro con cui iniziò a collaborare nel ‘64 in un succedersi di successi riportati e commentati da Caterina Napoleone nel volume Zeffirelli at The Met, sottotitolo: One thousand five hundred and forty-nine perfomances (so far), primo della serie in tre volumi che la storica dell’arte sta preparando sull’intera opera di questo regista orgogliosamente fuori dalle mode nella sua deferenza alla tradizione.

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i sapori Morsi allegri

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È il più gettonato “comfort-food” della stagione calda

e il rito infantile di affondare il viso nelle sue fette rosse, croccanti, zuccherine, dissetanti si moltiplica nelle notti insonni di luglio e agosto. Ma attenti al gusto, perché anno dopo anno le varietà locali, più saporite ma meno redditizie, vengono rimpiazzate da ibridi americani

LICIA GRANELLO state calda, caldissima. Umidità a mille, zanzare in agguato, traffico insopportabile, irritabilità sotto pelle. Una fetta di cocomero/anguria è il miglior comfort-food possibile. Purché sia appena tolta dal frigo, matura, rossa, croccante, zuccherina con un ricordo di acidulo. Hanno voglia a raccontarci che piccola è meglio: dopo tanto incrociare, selezionare, sperimentare, il nuovo formato-mini riesce docile al taglio e facile per il frigorifero. Ma dismettere il gesto infantile di affondare la faccia nella mezzaluna rosso acceso, riemergendone ristorati e ridenti solo per sputacchiare più o meno educatamente i semi, è come negarci un pezzo di allegria a costo zero (o quasi). Perché tra tutti i frutti, il cocomero è sicuramente il più grande, sfrontato, dissetante (95 per cento d’acqua!), bandiera tricolore tradotta in bocconi golosi e freschissimi. L’origine è lontana da qui, nella valle del Nilo. I geroglifici testimoniano che cinquemila anni fa i cocomeri erano già presenti nelle tombe dei Faraoni, simbolo di nutrimento nel passaggio verso l’aldilà. L’uscita dalle terre d’Egitto verso la Cina è datata poco prima dell’anno mille: da lì, un paio di secoli più tardi arrivò in Europa, dove ricevette attenzioni alterne, tanto che il nome scientifico, Citrullus Cucumis, fu assegnato solo alla fine del Settecento dal direttore dell’Orto botanico di Gottinga, mutuandolo da quello del cetriolo, altro appartenente alla famiglia delle cucurbitacee. In Italia, ne coltiviamo un centesimo della produzione mondiale. Ci superano di gran lunga Cina, Russia, Turchia, Brasile e Stati Uniti. Pochi ma

E

Un frutto sfacciato per guadare l’estate

buoni: nelle nostre pianure, infatti, questa pianta strisciante annuale innamorata del caldo e dell’acqua si trova benissimo. Dalla bassa padana al Salento, dalla Toscana al Lazio, quando le temperature cominciano a restare saldamente sopra il limite del nostro sbuffare per il caldo, i cocomeri si gonfiano felici, sviluppando gli elementi aromatici che imitano così bene lo zucchero (presente in dosi risibili, per la gioia dei dannati della dieta), fino a quando il peduncolo si secca e si stacca. Lì comincia il suo viaggio verso le nostre tavole e la nostra sfida per scegliere quello giusto. Ormai sono pochissimi i cocomerai che “tassellano” il frutto per verificarne insieme al cliente l’effettiva maturazione. Se nel fai-da-te dell’acquisto ci sentiamo smarriti, non dimentichiamo che il cocomero ideale deve essere di aspetto ceroso ma brillante, consistenza croccante e pesante, e mostrare una chiazza giallastra che identifica la parte appoggiata a terra durante la maturazione. Bussando sulla buccia, deve rispondere con un suono sordo, pieno. La conservazione in frigo è obbligatoria anche da intero, per evitare al calore esterno di indurre una super-maturazione interna, che rende la polpa farinosa e fibrosa. E, una volta tagliato, occorre coprirlo con una pellicola, per evitare che assorba odori dagli altri alimenti. Il buon cocomero è irresistibile: perché disseta e non stanca, è goloso senza calorie, mette allegria agli occhi e al palato, è praticamente privo di controindicazioni, al di là dell’ingestione dei semi che hanno effetti lassativi. In quanto alla presunta poca digeribilità, l’effetto è quello di bere un paio di bicchieri d’acqua fredda: a fine pasto questo significa diluire i succhi gastrici e raffreddare i processi digestivi (che invece hanno bisogno di calore). In compenso, il cocomero è una fonte preziosa di vitamina C e di potassio, qualità che lo elegge a frutto anti-crampo per eccellenza, in alternativa alla molto più calorica banana. Purtroppo, le varietà di cocomeri disponibili sul mercato si stanno assottigliando anno dopo anno: nell’ultimo secolo abbiamo smarrito una ventina di varietà locali, sostituite da ibridi americani, più redditizi e insapori. Per questo, se vi offrono una fetta di cocomero quadrato, ideato in Giappone per razionalizzare il sistema di trasporto, lasciate perdere e addentate una pesca.

19

le calorie ogni cento grammi

95%

la quantità d’acqua nella polpa del frutto

20 kg

il peso massimo di un singolo frutto

Cocomero Maximus

Luna e stelle

Detto anche cocombero di Pistoia e Faenza – varietà nostrana e non ibrida – pesa fino a 20 kg Di forma sferica, ha buccia spessa e croccante, polpa rosso vivo e semi neri. Più piccolo il medium, semi bianchi, origini napoletane

Salvato dall’estinzione dalla cocciutaggine del ricercatore americano Kent Whealy, si riconosce dai puntini giallo vivo con una chiazza più grande sulla buccia verde scuro. Ovale, succosissimo, resiste alle malattie

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Mostarda

Granita

Zuppetta

Gelatina

Confettura

L’altra faccia della composta di frutta – speziata, piccante – ha trovato ottima collocazione con i formaggi stagionati Uno dei grandi vecchi della cucina italiana, Aimo Moroni, la offre con pecorino sardo e pane ai fichi

Difficile trovare miglior dissetante della grattachecca di sola polpa d’anguria. Per il veronese Elia Rizzo, chef-patron de “Il Desco”, è perfetta in chiusura di pasto, contraltare freschissimo a una mousse di cioccolato bianco

Succo e polpa d’anguria frullati sono la base di ricette dolci-salate super-estive: tocchetti di frutta e/o verdura, crostini, piccole meringhe. Sul lago d’Orta, Tonino Cannavacciuolo aggiunge essenza di oliva e batida di cocco in gelato

Tolti i semi e centrifugata la polpa, il succo addizionato di colla di pesce è un compagno profumato e discreto di pesci e carni bianche Del romano Fabio Baldassarre l’antipasto con gelatina d’anguria, mazzancolle, ricotta e olio speziato

Più delicata, originale e insolita delle tipologie classiche, regala una nota zuccherina e aromatica a mousse dolci e piatti salati Lo chef ferrarese Igles Corelli la accompagna al germano reale con purea di pere e salsa di ribes

Novellara (Re)

Orsigna (Pt)

itinerari Davide Palluda è tra gli chef più bravi della nuova generazione Nel ristorante “All’Enoteca” – Enoteca Regionale del Roero a Canale d’Alba – si alternano ricette tradizionali e piatti creativi, come il polpo al vapore con gazpacho di anguria e ostrica

Galatina (Le)

L’incontaminato borgo montano tanto amato da Tiziano Terzani è una frazione di Pistoia, su cui svetta il monte battezzato Cocomero. Storiche, infatti, sono le varietà coltivate nei pianali pistoiesi, recuperate grazie al lavoro dei vivai della zona

Borgo agricolo adagiato nella bassa padana, impreziosito dalla Collegiata di Santo Stefano e dalla Rocca, tra due fine-settimana ospiterà una gara per divoratori di cocomeri e l’elezione di Miss Anguria, il frutto più grande e zuccherino

Appoggiata sulle colline salentine fra Adriatico e Ionio, vanta testimonianze architettoniche importanti dal romanico al barocco. Oltre alle produzioni di olio e vino, eccellenti le coltivazioni di cucùmmari, anche a polpa bianca

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

LA SELVA Via Casa Sandrella Tel. 0573-490094 Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa

HOTEL NUBILARIA (con cucina) Via della Costituzione 64 Tel. 0522-652097 Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

PALAZZO BALDI Corte Baldi Tel. 0836-568345 Camera doppia da 95 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

TRATTORIA DELL’ABBONDANZA Via dell’Abbondanza 10, Pistoia Tel. 0573-368037 Chiuso merc. e giov. a pranzo, menù da 25 euro

ALQUICOSÌ (con camere) Via della Costituzione 75, Correggio Tel. 0522-633063 Senza chiusura, menù da 28 euro

PURITATE Via Sant’Elia 18, Gallipoli Tel. 0833-263836 Senza chiusura estiva, menù da 35 euro

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

I SAPORI DELLA BOTTEGAIA Via del Lastrone 4, Pistoia Tel. 0573-358450

AZIENDA AGRICOLA AL LIVEL Via Don Sturzo 38, Gualtieri Tel. 0522-220031

PASTICCERIA EROS Piazza San Pietro Tel. 0836-566100

Mangiatelo alla vietnamita con sale e peperoncino MASSIMO MONTANARI

«G

l’appuntamento Si chiama La Cucombra, la Sagra di San Matteo della Decima, nella campagna bolognese, che per tutta questa settimana celebra il cocomero A partire da metà luglio, feste anche in Salento, con Melpignano e Botrugno protagoniste di eventi

li cucumeri, detti ancora angurie vulgarmente, sono in uso l’estate» e si mangiano più che altro «per stinguere la sete», visto che non danno nutrimento né «dilettamento». Così scrive verso il 1570 il botanico marchigiano Costanzo Felici, senza dedicare molta attenzione a un prodotto che stima decisamente “minore” sul piano nutrizionale. Però anche alla sete bisogna pensare e per quella i cocomeri funzionano perfettamente: a ciò giova la loro sostanza «molto acquosa», in alcuni casi dolce, «che per questo son detti cucumeri zuccarini». Del cocomero e dei suoi usi, la storia dell’alimentazione non ci racconta granché, anche per la difficoltà di mettere a fuoco una terminologia incerta, ambigua. Quando si riferiscono a questa pianta, i testi che se ne occupano (per lo più trattati di dietetica o di botanica) faticano a trovare indicazioni e riferimenti autorevoli, poiché neppure riconoscono con certezza il cocomero fra le citazioni dei classici. Nel 1627, per esempio, Salvatore Massonio (autore di un’interessante opera sulle insalate e i cibi vegetali) cita il testo-base di Dioscoride per distinguere tra cocomeri domestici e selvatici: questi ultimi «in verun modo nutritivi», utili solo a scopi medicinali «e di sapore amarissimo»; gli altri invece «utili allo stomaco, e al corpo». Ma di che piante parla esattamente Dioscoride? Dei cocomeri o dei cetrioli? O di altro ancora? Massonio confessa di non capirlo: e allora preferisce glissare sulle auctoritates e passare direttamente alla pratica e al linguaggio dei suoi contemporanei, «onde per la chiarezza del nome… diciamo intendere per cocomeri quelli, che cocomeri chiamano i Lombardi, e che in Toscana, e in Roma son detti cedriuoli, e in questi nostri paesi dell’Aquila [di cui Massonio è nativo] passano sotto il nome di melangole». Gli Spagnoli da parte loro li chiamano peponi, e li usano (afferma Amato Lusitano) per rinfrescare il corpo sia dall’interno che dall’esterno: «L’estrema parte tagliata, solemo per rinfrescarci metterlo alla fronte nell’hore più calde del giorno, quando anche solemo per lo stesso effetto mangiarlo». Anche Bartolomeo Platina, umanista quattrocentesco, autore di una celebre opera «sul piacere onesto e la buona salute», sembra usare il termine poponi per indicare i cocomeri, «diversi dai meloni, essendo questi ultimi quasi rotondi e costolati mentre quelli sono oblunghi». Come ogni cosa, il cocomero possiede delle qualità: purga i reni e la vescica, «lenisce l’infiammazione di stomaco e dà un certo sollievo all’intestino» (purché ne siano tolti i semi). Ma in generale intralcia la digestione, ossia il processo di “cottura” dei cibi nello stomaco, che abbisogna di caldo e di secco, qualità esattamente contrarie a quelle del cocomero. «Il popone», scrive Platina, «è senza dubbio gustoso, ma si digerisce a stento perché è freddo e umido». Per questo è consigliabile mangiarlo a stomaco vuoto, «altrimenti ritarda la digestione». Per questo è bene accompagnarlo col vino piuttosto che con l’acqua, perché questa aggiungerebbe altro freddo e altro umido, mentre il vino agisce in senso contrario. Lo si percepisce anche d’istinto: «Io», scrive ancora Platina, «consento con la natura, la quale, dopo che si è mangiato il popone, è inclinata a desiderare il vino, e di quello buono, perché è quasi un antidoto alla crudezza e alla frigidità del popone». Altri antidoti sono possibili, e capita di incontrarli ancora oggi negli usi alimentari di questo o quel paese. Qualche anno fa ero in Vietnam. Faceva molto caldo e il cocomero si serviva dappertutto. Non da solo, però: rigorosamente accompagnato da una presa di sale e da un pizzico di peperoncino. Il secco del sale e il caldo del peperoncino. Fate la prova, è assai piacevole (e il gusto, come insegnavano Platina e tanti altri, è la nostra prima guida alla salute).

Sugar Baby

Crimson Sweet

Moscatello

Rotondo come una palla, di piccola pezzatura – 3/4 kg – ha buccia sottile color verde scuro e buona succosità. Coltivato pensando ai mercati lontani dalle zone di produzione per la facilità di trasporto, matura da inizio luglio

Tra i più imponenti in commercio – arriva a 15 kg – ha forma sfericoovale e buccia striata tra il verde chiaro e quello scuro È il più apprezzato dai cocomerai per l’aspetto invitante e le fette gigantesche

Altra varietà autoctona a un passo dalla scomparsa, è riconoscibile per la polpa gialla e i semi marrone chiaro. Slow Food International tutela una varietà analoga, coltivata dai nativi americani in Arizona, che si cucina come zuppa fredda

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le tendenze Pronta a tutto

Multiforme, morbida e colorata mostra tutti i suoi vantaggi soprattutto in estate

Era poco amata dai designer, usata per rivestimenti e accessori industriali.Oggi

E diventa subito di moda

è partita la rivincita globale

ACCOMODANTE

PASSI FIORATI

FRUTTA & VERDURA

È entrata a far parte della banca dati di materiali riciclati Matrec la sedia Bucatini di Hk: la seduta è ottenuta da vecchie camere d’aria

Nati per gli ospedali, da un paio d’anni gli zoccoli in gomma Woz sono la moda dell’estate. Il modello Fiorelloni è solo uno dei tanti

Un contenitore in gomma morbida e colorata, dotato di spazzola, per lavare frutta e verdura o tenere in fresco alimenti È Washing-up di NOmadeDesign

Riciclata o no, alla conquista del mondo AURELIO MAGISTÀ

ifficile trovare qualcosa di migliore della gomma per illustrare la citazione amletica: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia». Infatti, in questa estate che registra la moda febbrile della gomma, preferibilmente multiforme, tassativamente multicolore, non sappiamo, o dimentichiamo, che quando si dice gomma si indica una famiglia così numerosa che si rischia di non dire niente. Nel senso comune, la gomma è liscia, morbida, elastica. Quando diciamo gomma pensiamo di indicare una cosa precisa. E invece le gomme sono tante. Perché sono polimeri, ovvero molecole organizzate in catene. La molecola originale, la lavorazione, le sostanze aggiunte e il tipo di catena determinano le caratteristiche finali del materiale. Il numero delle combinazioni possibili tende all’infinito (per saperne di più: http://temi.repubblica. it/casa/). L’albero genealogico della gomma si biforca subito; da una parte le gomme naturali, piuttosto rare, che si ottengono coagulando il lattice di alcune piante; dall’altra le gomme sintetiche. Albero genealogico sbilanciato: il secondo ramo si divide ossessivamente fino a diventare, da solo, una selva selvaggia: polibutadiene, neoprene, isobutene, poliestere, stirene, sono solo alcuni membri dell’affollata famiglia. Per dare un’idea dei risultati possibili, si può pensare che perfino l’ebanite, duro e fragile antenato della plastica, viene da una gomma naturale ipervulcanizzata, ovvero “cotta” molto a lungo insieme a zolfo. E i siliconi sono delle gomme un po’ strane, basate su una catena silicio-ossigeno, i due elementi più diffusi in natura. Tutto questo discorso non serve a consigliare di far studiare chimica ai figli, che un lavoro lo troveranno sempre, ma per dire, intanto, di andarci cauti, quando vi dicono che un oggetto è di “gomma”, e poi per sottolineare che il settore, così sovraffollato, è fonte di continue sorprese. Per esempio, tra i polimeri più recenti c’è il Melflex, nome commerciale, registrato dal marchio Melissa, di un’evoluzione del pvc (quindi, a rigore, non una gomma ma una plastica) sottoposto a una lavorazione particolare. Risultato: una singolare specie di gommoso velluto che sembra fatto apposta per irretire e sedurre. In genere i designer non amano molto la gomma: la sua morbidezza non garantisce la durata della caratteristica cui i designer tengono di più: la forma. Quindi, in passato, per il design la gomma era soprattutto una materiale di rivestimento e finitura di strutture più durature, in metallo o plastica. Ma si sta prendendo la sua rivincita. Lentamente, come il blob del celebre film di fantascienza, finirà per ricoprire il mondo. Le scarpe tutte di gomma, per esempio, hanno cominciato a prendere piede lo scorso anno. Adesso si sono trasformate in un fenomeno virulento. Per analogia di accessorio, le borse di gomma ne hanno imitato il destino. Anche perché, bisogna riconoscerlo, la gomma dimostra il suo vantaggio competitivo soprattutto d’estate: non patisce acqua o sabbia, e il sole la ammorbidisce appena un po’. Uno spirito democratico, tanto più che ormai anche

D

SEMPRE IN PIEDI Lo sgabello Zanzi Swing di Rexite ha una base basculante in gomma che permette di dondolarsi senza cadere. Disegnato da Raul Barbieri, è regolabile in altezza con un pistone a gas e proposto in diverse versioni di colore Costa circa 300 euro

TEMPO DI LUSSO Gli orologi PZero Pirelli Luxury hanno cinturino in gomma vulcanizzata con struttura identica a quella dei pneumatici

GHIACCIO DA URLO Ahhhhh è uno dei coloratissimi portaghiaccio estivi dai nomi “urlati” di MoroniGomma Da portare a tavola, ci sono infatti anche Arghhh e Brrrrr

gli orologi meccanici si permettono di ostentare il cinturino di caucciù o, magari, come nel caso di Pirelli, di gomma vulcanizzata con la scolpitura identica a quella degli pneumatici. Il richiamo alle ruote delle automobili torna anche in Bucatini, la sedia di Hk ricoperta con camera d’aria riciclata e opportunamente traforata. La sedia, per la sua vocazione ecologica al riuso, è entrata a far parte di Matrec (Material Recycling), banca dati dell’ecodesign. E questo conduce al di-

SPIAGGIA & CITTÀ Nate in Brasile, le scarpe Melissa Plastic Dream sono vendute in tutto il mondo Con o senza tacco, sono in Melflex, materiale brevettato simile alla gomma

lemma: com’è possibile che, mentre aumenta la sensibilità ambientalista, si accende in parallelo tanto amore per la gomma, che quasi sempre deriva dal petrolio e non è di certo un esempio di biocompatibilità? Forse perché è amichevole, morbida, allegramente colorata, pronta a tutte le situazioni. E quando i tempi si fanno duri, come adesso, ci appare la multiforme reincarnazione della coperta di Linus: un feticcio, il tabù consolatorio per le nostre ansie.

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l’incontro Ragazzi cresciuti

Vent’anni di attività discografica, la perdita del fratello maggiore, un cd, “Safari”, un nuovo spettacolo. A quarantuno anni Lorenzo Cherubini è diventato definitivamente grande: Il suo nome d’arte, dice, “è un personaggio, la mia maschera, il costume di scena, il mio aspetto giocondo e ribelle. È interessante il fatto che un adulto si chiami così”. E a proposito del suo lavoro confessa: “È un gioco che patisco molto”

Jovanotti trafficare nei quartieri off limits degli artisti si scopre sempre qualcosa d’inedito. «A Caserta Lorenzo era fuori di sé, furioso. Non l’avevamo mai visto così», dicono dietro le quinte del Palasport di Perugia. Jovanotti che perde la calma, alza la voce, aggredisce anche solo verbalmente qualcuno: questa sì è una notizia. «Ma no, che ha capito, era solo per una situazione di palco che non funzionava», minimizzano subito. Mentre in sala i tecnici mettono a punto la strumentazione per il concerto (una data del Safari Tourancora in corso) generando feedback assordanti, nel retropalco il cuoco Marco prepara la cena per novanta persone. Braciole, verdure fresche, frutta di stagione. Oggi ci sono anche i bambini che ficcano il naso ovunque. Quelli della quarta elementare della vicina Cortona — dove vivono i Cherubini — la classe di Teresa, figlia di Lorenzo, che suona il violino e ha davvero i colori di un cherubino. Impossibile per mamma Francesca, «la compagna che prima o poi sposerò», tenerli a bada. Chi chiede una t-shirt, chi la foto autografata, chi il cd Safari. Che per la verità non è proprio un disco da quarta elementare, anzi è il più maturo che Jovanotti abbia mai inciso. Ispirato, potente, raffinato persino. Un pugno in faccia a chi due anni fa diceva: è finito, non ha più niente da dire, non riuscirà mai a far convivere Jovanotti con Lorenzo Cherubini. Quando il giovanotto entra nel camerino del Palasport, abbellito con lumini e teli indiani, ha ancora un’aura di santità che la sfuriata di Caserta non è riuscita a cancellare. Saranno i capelli biondi e gli occhi buoni, sarà la barba francescana, sarà la tenerezza con cui si rivolge ai compagni di scuola di Teresa, saranno le rughe timide dei quarant’anni (che non

tute. Padre: «Mi piaci di più da quando fai meno il rapper». Figlio: «Sei elegante, un look quasi berlusconiano». Padre: «Sì, come Silvio ai Fori Imperiali». Figlio: «Quindi come Rascel che faceva Napoleone, ah ah ah». Il signor Mario si dilegua in cucina. «Ha settantatré anni, tiene botta, ha una tigna... «, dice Lorenzo. «La morte di mio fratello ha scatenato in lui una reazione incredibile. Superato il dolore, è più allegro, dinamico, persino più paterno. Mi dice “sei bravo”, complimento che non mi aveva mai fatto. Una volta magari me lo faceva capire, ora ha l’urgenza di comunicarlo, come se volesse dire a me anche le cose che non ha avuto il tempo di dire a Umberto. E pensare che quando esordii non ne faceva passare una, un rompicoglioni infernale. Aveva paura che mi mettessi nei guai, le discoteche di notte, le ore piccole. Adesso lo capisco. Oddio mica tanto… ma sì lo capisco, aveva paura. La prima volta che si è reso conto che facevo un lavoro serio fu quando mi vide in Rai, con Pippo Baudo a Fantastico. La Rai per lui era come la banca, il pezzo di carta».

Invecchiare bene è il massimo che possa capitare a un artista. Molti

geni della musica sono morti trentasettenni ma si possono fare cose belle anche dopo

FOTO GRAZIANERI

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PERUGIA

sembrano quaranta anche se sono quarantuno). «Lorenzo entra spesso in conflitto con Jovanotti», esordisce, «ma è sempre un conflitto tenero, un dubbio che non dura mai più di un minuto. In fondo, superati quegli anni lì, Jovanotti invecchiando è migliorato. È un personaggio, la mia maschera, il mio costume, l’etimologia non conta più. È interessante il fatto che un adulto si chiami Jovanotti. A vent’anni funziona, dai trenta ai quaranta è strano, poi diventa un nome da circo, è il mio aspetto giocondo e ribelle, dà forza a quei momenti in cui vado in altre direzioni, perché li rende noncantautorali. Ci tengo a non essere mai un cantautore. Jovanotti sarà un nome perfetto quando avrò settant’anni, perché sarà paradossale». Oggi dice: «Il mio lavoro è un gioco che patisco molto». All’inizio, invece, era un gioco e basta: È qui la festa? «Partii come un razzo, niente gavetta, numero uno in classifica, mezzo milione di copie in tre settimane. Pazzesco. Non ho mai avuto ostacoli davanti né obiettivi, fino a… fino a che non sono diventato grande. Quando mi presero alla radio, per me era il massimo. Quando cominciai a fare il dj nei locali, era quello il massimo. Quando feci un disco per Goody Music, era il top del top. Poi mi chiamò Cecchetto, e non riuscivo neanche a immaginare che potesse succedermi qualcosa di meglio. Avevo solo piccoli sogni e nessuna aspettativa, questo ha premiato la mia salute. D’altronde, senza doti musicali, non avrei potuto dire né pensare “prima o poi il mondo capirà quanto valgo”. A me succedeva il contrario, avevo l’impressione di avere più di quanto meritassi». Safari celebra vent’anni di attività discografica, iniziata nel 1988 con Jovanotti for President. «In realtà», precisa, «la mia prima paga l’ho avuta il 4 luglio 1982, a una festa di americani a Cortina, come dj. Bilancio? Boh, sì, me lo fanno fare per forza. La sensazione, oggi, è di aver ricominciato. Avevo il terrore di dovermi chiedere un giorno: e adesso che faccio, dove vado? Invece questo disco e questo spettacolo mi hanno dato una vitalità che in vent’anni non ho mai avuto. Ho la sensazione che il meglio debba ancora venire, nella scrittura delle canzoni, nelle invenzioni. Mi sento come il ragazzo di bottega che finalmente ha un negozio tutto suo. Mi piace la gente che invecchia bene, è il massimo che possa capitare a un artista. Molti geni della musica sono morti a trentasette anni: Mozart, Marley, Lennon. Ma si possono fare cose belle anche dopo quell’età, penso a Tom Waits, a Springsteen, agli U2, a Chico Buarque. Vorrei invecchiare in maniera vitale, restare attuale, parlare agli adulti e, contemporaneamente, alla generazione che sogna, ai ventenni. Perché se perdi il contatto con quelli che hanno il futuro davanti sei fottuto». Arriva papà Mario, col bastone, allegro, rassicurante. Stasera si canta anche per la famiglia. «Sa che è diventato un mio fan?», esclama Lorenzo. Scambio di bat-

Adesso papà Mario è il suo bambino. Come Teresa che, dice suo nonno, «nel carattere è tutta Lorenzo». «Con la differenza che lei è figlia unica», precisa Jovanotti, «io ero il terzo di quattro, tre maschi e una femmina, mi son dovuto guadagnare gli spazi. Mio padre ha trovato un cassettone pieno di superotto che sto digitalizzando. Li riguardo con grandissima emozione e tanto dolore. Rivedendo noi tre insieme, mi rendo conto che eravamo inseparabili, una gang. Abbiamo dormito nella stessa stanza per anni, fino alle superiori. I fratelli maggiori sono stati opposti modelli per me. Umberto (morto l’anno scorso in un incidente di volo) quello con la testa sulle spalle, il caposcout; Bernardo il rocker, il ribelle. Siamo cresciuti ascoltando musiche diverse. A me il rap riusciva a dare un’identità, a loro faceva schifo. Io, che sono sempre stato un solitario socievole, non raccontavo ai miei che, durante il liceo, frequentavo una scuola di teatro, che anche da piccolo ero un avido visitatore di musei. Era un segreto, una passione solitaria. In realtà, quando avevo l’età di Teresa, pensavo che sarei diventato un disegnatore, che avrei fatto qualcosa nel mondo del fumetto. Poi in tv comparve Arbore: mi stregò quella maniera un po’ pacchiana e goliardica di far spettacolo. Nei miei esordi radiofonici, anch’io tentavo di cazzeggiare, di creare situazioni un po’ surreali, ma non avrei mai pensato di fare dischi. Mi sono accorto di fare il cantante quando ho cominciato a cantare. Non era nei miei piani». È cresciuto all’ombra del cupolone, suo padre era un impiegato del Vaticano, San Pietro la sua casa-museo. «Un luogo meraviglioso, ma mai mistico o spirituale ai miei occhi. Ero soggiogato dall’aspetto visivo, dall’apparato. Puro significante, niente significato. Dio esiste? Boh, non lo so, non m’importa. Non m’interessa tuttora. Le madonne, San Pietro, il baldacchino, la colomba su quel vetro… mi rendo conto che faccio i concerti per ricreare quella roba lì… L’Estasi di Santa Teresa del Bernini era una cosa che mi spaccava, come laPietàdi Michelangelo, con la Madonna giovane che tiene in grembo un figlio coetaneo. Mi scoprivo a immaginare i pensieri dell’artista mentre la scolpiva, la sua eccitazione nel levigare il braccio, nel modellarne gli occhi della Vergine. Estasi vera. Ricordo ancora oggi, con un brivido, i colli delle donne di Modigliani. Poi, dopo la sbandata rap, persi la testa per Keith Haring, abbracciai un’altra forma di comunicazione. Se ripenso a quegli anni non mi riconosco, ero come drogato, ma in maniera buona, giusta. Drogato da una persona — Claudio Cecchetto, il mio primo produttore — che sapeva fare il suo lavoro, una benedizione per un esordiente». Non si montò la testa, neanche quella volta che salì sull’elicottero di Berlusconi, che voleva proporgli un contratto in esclusiva per la Fininvest. Aveva diciannove anni. «Mi portò in villa, fece mostra di sé e mi conquistò. È bravo a conquistare. “Devi

leggere, leggere molto”, mi raccomandò. Era la prima volta che incontravo uno così ricco, la prima volta che vedevo una casa che assomigliava al Vaticano». Ammette che una preghiera, una volta ogni tanto gli scappa. Come quella volta che andò a Guadalupe, nel sommo santuario mariano dell’America Latina. «Adesso quando prego penso a mio fratello», dice. «Ho un corpo, una faccia cui rivolgermi… lui era molto religioso, ho la sensazione che abbia trovato quello che cercava. Per questo provo dolore per la sua morte, non tristezza». Racconta che la lettura della Bibbia è stata assidua negli ultimi anni, ma di non essere mai stato uno con uno spiccato senso di spiritualità. «Non riesco mai ad attaccarmi a un pensiero mistico», spiega. «Anche se a volte, attraverso i sensi, mi arriva una forte percezione di trascendenza che non riesco a tradurre a parole. E meno male, altrimenti comincerei a rompere i coglioni agli altri. Farò accapponare la pelle ai preti, ma io credo a tutto, a ogni religione. Quando attraversai il Pakistan in bicicletta, e dietro a ogni curva trovavo un uomo chino a pregare sul suo tappetino, non potevo non provare ammirazione per l’Islam. Idem sul Monte Athos, alla presenza di quei monaci ortodossi così fieri, maestosi. O nella quiete ascetica dei monasteri buddisti. Come si fa a sceglierne una sola?». Pochi giorni dopo il concerto di Perugia, in una chiesetta della campagna umbra, il parroco unisce in matrimonio due giovani. Lui un operaio, lei una psicologa già col pancione. A metà messa, dopo il sì, tre ragazzi accompagnano l’Eucarestia cantando sommessamente: A te che hai preso la mia vita / E ne hai fatto molto di più / A te che hai dato senso al tempo / Senza misurarlo /A te che sei il mio amore grande /Ed il mio grande amore. È un brano di Safari, la più bella canzone d’amore del nuovo millennio. Alla fine, un applauso lunghissimo. Al trio? Agli sposi? O a Jovanotti?

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GIUSEPPE VIDETTI

Repubblica Nazionale