DI Repubblica - La Repubblica

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18 dic 2005 ... Memorie di una geishadi Arthur Golden, caso lette- rario di otto fa anni: ... di una vera geisha, Mineko Iwasaki, e cucendole con altre storie vere ...
Domenica La

di

DOMENICA 18 DICEMBRE 2005

Repubblica

il fatto

Nozze gay, la sfida di Elton John FRANCESCO MERLO e GIUSEPPE VIDETTI

il viaggio

Giganti dei mari, le foto di Salgado con un inedito di FRANCISCO COLOANE

Geisha FEDERICO RAMPINI

R

TOKYO

itorna la geisha e non possiamo resisterle. Il più misterioso modello di femminilità venuto dall’Estremo Oriente soffia di nuovo la magìa della sua seduzione su di noi. Era già accaduto, un secolo fa. Prima che nascesse Hollywood, molto prima di Greta Garbo e Marilyn Monroe, a un’epoca senza tv né star-system, una geisha giapponese seppe ammaliare una generazione di europei e americani. Per capi di Stato e intellettuali, geni della pittura e della musica, scrittori e gente del popolo divenne un oggetto del desiderio e un sogno erotico che sfidava antichi tabù. Il suo fascino ha segnato l’immaginazione dell’uomo bianco. Madame Sadayakko, la geisha che stregò l’Occidente, aveva 27 anni nel 1898 e alle spalle un “privilegio” scabroso (il primo ministro nipponico Ito Hirobumi conquistò l’onore di sverginarla al suo debutto nell’arte) quando lasciò il Giappone per una tournée sensazionale. A Washington fu ricevuta dal presidente McKinley, a Londra dal principe Edoardo; miliardari di Boston e San Francisco pagavano qualsiasi prezzo per una serata con lei. Vollero conoscerla Isadora Duncan, Claude Debussy, Gustav Klimt, Auguste

Rodin e André Gide. Giacomo Puccini ne fu influenzato per la Madama Butterfly, Picasso la disegnò dopo averla vista all’Expo universale di Parigi. Neanche le donne occidentali si sottraevano alla sua influenza, nacque la moda dei “Sadayakko kimono”, riconoscibili in certi ritratti di dame dell’alta società nel primo Novecento. Mentre ancora il fruscìo delicato delle sete preziose di Madame Sadayakko eccitava i salotti europei, il magnate americano George Morgan (nipote del banchiere J. P. Morgan) all’età di 31 anni partì per Kyoto a vedere la Danza delle Ciliegie e al teatro s’innamorò perdutamente della geisha Oyuki, 21 anni. La corte fu lunga e difficile, la piccola Oyuki era un pezzo di ghiaccio di fronte al rampollo della più grande dinastia finanziaria di Wall Street. Secondo la versione cinica della storia — raccontata da Sheridan Prasso in The Asian Mystique: Dragon Ladies, Geisha Girls and our fantasies of the exotic Orient — la geisha di Kyoto negoziò per mesi un contratto matrimoniale coi fiocchi, costringendo Morgan a umilianti andirivieni con New York per raccogliere fondi (la storia ispirò una commedia di Broadway, Il sogno di una notte per 40.000 yen). I due convolarono a nozze nel 1904, lo stesso anno della prima di Madama Butterfly alla Scala. (segue nelle pagine successive) con un servizio di RENATA PISU

FOTO JODI COBB - NATIONAL GEOGRAPHIC

Un film accolto da mille polemiche riporta alla ribalta una seduttrice leggendaria, da sempre simbolo malinteso della donna d’oriente. Siamo andati a vedere cosa c’è e cosa c’era di vero dietro la leggenda cultura

Istanbul e Kars, le città di Orhan Pamuk MARCO ANSALDO e SIEGMUND GINZBERG

la lettura

La vita incollata sui muri di San Vittore PINO CORRIAS e PAOLO D’AGOSTINI

spettacoli

Pippi Calzelunghe compie sessant’anni CONCITA DE GREGORIO

l’incontro

Dulbecco: “Dico addio all’Italia” DARIO CRESTO-DINA

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DOMENICA 18 DICEMBRE 2005

la copertina Miti immortali

Riecco, irresistibile, la magìa della geisha. Era già successo molto prima di Hollywood: più di un secolo fa al tempo di “Madama Butterfly”, e dopo ancora alla fine della seconda guerra mondiale. Ecco come e perché...

Il mistero d’amore

FEDERICO RAMPINI (segue dalla prima pagina)

della cortigiana

venuta dall’Oriente FOTO JODI COBB - NATIONAL GEOGRAPHIC

Repubblica Nazionale 38 18/12/2005

U

n secolo dopo è Steven Spielberg a rivisitare il mito venuto dal Sol Levante, lanciando la prima superproduzione hollywoodiana interpretata esclusivamente da star asiatiche. È la trasposizione cinematografica delle Memorie di una geisha di Arthur Golden, caso letterario di otto fa anni: l’autore raccolse le confessioni di una vera geisha, Mineko Iwasaki, e cucendole con altre storie vere confezionò una love story che divenne un best-seller mondiale. Ora il cinema americano se ne impadronisce rilanciando questa figura femminile inafferrabile: leggendaria e idealizzata, maschera di un erotismo esotico eppure in larga parte sublimato, schiava votata a soddisfare i desideri maschili ma anche algida e irraggiungibile nel suo cerimoniale di gesti rituali e stilizzati. L’universo della geisha è così astralmente lontano da noi — dai seni siliconati di Pamela Anderson, dai glutei onnipresenti di Paris Hilton, dalle gravidanze mediatiche di Britney Spears e da tutto il sesso pubblico e pacchiano della reality tv — che il segreto del suo fascino diventa ancora più arcano. L’origine storica della vera geisha si perde nella notte dei tempi: le sue antenate erano le Saburuko del VII secolo dopo Cristo, le prime cortigiane specializzate nell’intrattenimento della nobiltà. Un millennio più tardi l’attività si diffonde e acquista prestigio reclutando molte figlie di samurai, che nel Seicento si insediano nei quartieri Yoshiwara e Shimabara della capitale imperiale Kyoto, accanto ad artisti e intellettuali. La rispettabilità del mestiere viene sancita con l’introduzione del kenban, una sorta di albo professionale con requisiti severi per l’ammissione: regole precise sull’abbigliamento, le movenze, il costume di vita. “Gei” significa arte, “sha” persona, le geishe sono davvero maestre di tante arti. Seguono un apprendistato rigoroso per padroneggiare la danza antica, il canto, gli strumenti musicali, la composizione floreale, la cerimonia del tè, la conversazione colta, la calligrafia, il galateo del servire bevande alcoliche, e naturalmente la cultura del kimono. Una geisha esperta è capace di calembour provocanti, giochi di parole licenziosi che liberano il maschio dalle sue inibizioni senza mai scivolare nella volgarità. Cortigiana e cerebrale, custode orgogliosa di tradizioni che vanno al cuore della civiltà giapponese, la geisha deve al suo talento erotico solo una parte dell’ascendente che ha sull’uomo. Perciò in certe cene di rappresentanza dell’establishment nipponico ancora oggi è buona usanza ingaggiare una geisha di lusso per animare la serata (tutta maschile, ovviamente), ma le più stimate sono signore in età avanzata, che ispirano soggezione, e neanche un cliente in preda ai fumi del saké oserebbe importunarle con avances sessuali. L’incomprensione degli occidentali verso la complessa figura della geisha fu ingigantita dagli avvenimenti dell’immediato dopoguerra. La massiccia e prolungata presenza di militari americani in Giappone costrinse le autorità locali a una vera e propria campagna di reclutamento nazionale di prostitute, per far fronte a un volume di domanda senza precedenti. Si formò così un esercito (70mila secondo lo storico John Dower) di panpan girls e geesha girlsche occupavano il tempo libero dei G. I., banalizzando l’immagine della geisha come di una professionista del sesso. Ma quell’equivoco madornale non era nato per caso. Gli americani sbarcati in Giappone sotto gli ordini del generale MacArthur (lui stesso protagonista di una lunga relazione clandestina con una giovane asiatica) si portavano già inconsciamente nella memoria antiche immagini di una donna orientale sottomessa e disponibile, fragile preda, delicata e incantatrice. La geisha reale invece è una creatura straordinariamente disciplinata, costruita e artefatta, proiettata verso un ideale di perfezione femminile quasi inquietante, indecifrabile dentro i canoni della nostra cultura. Ma l’altra geisha, quella figura immaginaria che attrae l’Occidente da oltre un secolo, è un essere non meno stupefacente. L’infatuazione per la donna in kimono alla fine dell’Ottocento non era stato l’exploit singolo di una grande diva. Prima ancora che sbarcasse in Europa Madame Sadayakko, nel 1876 Claude Monet aveva dipinto La Japonaise, ritratto di sua moglie col vestito tradizionale nipponico e il ventaglio. Il 14 marzo 1885 al Savoy Theater di Londra aprì The Mikado, l’operetta di Gilbert e Sullivan ambientata in Giappone, che rimane a tutt’oggi uno degli spettacoli più popolari nella storia del musical. L’Estremo Oriente immaginario di quelle opere, e l’eccitazione del pubblico che comprava quei sogni, tradivano una rivolta contro il puritanesimo dell’èra vittoriana. Alla fantasia degli uomini la geisha giapponese offriva la fuga verso un piacere sensuale e innocente, senza cristiani sensi di colpa, a un’epoca in cui la morale dominante esortava le austere donne inglesi a restare immobili e mute mentre compivano il loro “sacrificio” nel letto coniugale. Dopo la vittoria delle truppe di MacArthur nel Pacifico, negli anni Cinquanta Hollywood si incarica di reinventare il mito della geisha. È l’inizio di un lungo filone di film americani — per lo più medio-

cri e presto dimenticati — da Sayonara con Marlon Brando (1957) a Il barbaro e la geisha (1958) con John Wayne. Le majors cinematografiche di allora non ingaggiavano star asiatiche come fa Spielberg oggi, le geishe erano quasi sempre attrici americane vistosamente truccate: pesava ancora l’eredità delle leggi contro la promiscuità razziale (abrogate in California solo nel 1948). In quei film l’immagine della geisha amorevole e sottomessa, in ginocchio davanti al suo uomo per servirgli il tè, era un messaggio subliminale che le femministe americane non tardarono a decifrare. Durante la guerra gli Stati Uniti avevano dovuto riempire fabbriche e uffici di donne per sostituire gli uomini al fronte, ora bisognava far tornare nei ranghi tutte quelle mogli emancipate. L’archetipo della donna asiatica in chiave anti-

femminista resiste anche al termine degli anni Sessanta, dopo la pillola e l’aborto, la minigonna e la rivoluzione sessuale. Nel 1975 James Clavell azzecca un best-seller mondiale con il suo romanzo Shogun (sette milioni di copie vendute), e l’adattamento in una serie televisiva diventa uno dei più grandi successi della tv americana con 130 milioni di spettatori. Ispirato alla storia vera di William Adams, naufrago inglese sulle coste del Giappone nel Seicento, nonché il primo occidentale ad avere sposato una giapponese, Shogunmette in scena una Mariko che si offre spontaneamente come regalo sessuale all’uomo bianco, senza mai abbandonare la sua docilità e obbedienza verso il «signore e padrone». Dopo avere incarnato il sogno della liberazione dal puritanesimo vittoriano, la geisha offre l’agognata rivincita contro la donna occidentale, è la fu-

ga ideale verso un Oriente favoloso dove il maschio è servito e adorato. Il maschilismo reale della società giapponese — quello esibito in maniera esilarante da Stupori e tremori di Amélie Nothomb, il romanzo autobiografico sulle tribolazioni di una giovane belga alle prese con la vita dell’impiegata d’ufficio a Tokyo — può solleticare l’invidia dei maschi occidentali, che da lontano vagheggiano un mondo dove le colleghe si affaccino alle riunioni solo per servire il tè. Le immagini delle teenagers-lolite giapponesi, con le loro divise da educande trasformate in mini-abiti provocanti, si incrociano con le memorie del passato e compongono strani mosaici. L’Occidente sbanda fra le opposte visioni di una donna asiatica obbediente e lasciva, laboriosa e carnale. Inseguendo il fantasma sexy di una geisha imma-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39

LA TRADIZIONE Nelle foto in queste pagine, alcune geishe giapponesi: le origini del loro mestiere risalgono al settimo secolo dopo Cristo

I giapponesi e “la donna sacra”

Tra giochini e coccole l’uomo torna bimbo RENATA PISU

ginaria, la fantasia occidentale subisce sorprese e infortuni. Può accadere che il pubblico scopra di colpo una figura di geisha cattiva — la giapponese Yoko Ono che circuisce e manipola il fragile John Lennon — e allora la trasfiguri nel mito opposto della donna-drago. Arthur Golden, l’autore delle Memorie di una geisha, viene trascinato penosamente in tribunale dalla sua ispiratrice Mineko Iwasaki: la vera protagonista della storia lo accusa di avere inventato di sana pianta una “vendita all’asta” della verginità delle giovani geishe al migliore offerente. In quanto al film prodotto da Spielberg prima ancora di uscire nelle sale è stato già il bersaglio di contestazioni in Asia. In Giappone sono allibiti che Hollywood osi smerciare al mondo intero un film dove tutte le geishe sono impersonate da attrici cinesi. Un esperto giapponese sul suo blog aggiunge che

FOTO MAGNUM/CONTRASTO

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LA STORIA DI CHIYO Tratto dal best-seller di Arthur Golden, il film “Memorie di una geisha”, diretto da Rob Marshall, promette di diventare un campione d’incassi Da venerdì nelle sale, la pellicola racconta la storia Chiyo (l’attrice Ziyi Zhang), figlia di pescatori giapponesi che, a nove anni, viene venduta a una scuola per geishe. La sua sarà una vita di successi ma l’amore resterà un sogno impossibile

«in questo film le geishe ballano come se fossero in uno strip-show di Las Vegas». I più furibondi sono i cinesi. Notoriamente i rapporti tra Pechino e Tokyo sono pessimi. I cinesi accusano il Giappone di non avere mai fatto i conti con il passato, con le atrocità inflitte ai popoli asiatici invasi dagli anni Trenta alla seconda guerra mondiale. In un’atmosfera simile, vedere le due dive più popolari del cinema cinese (Gong Li e Ziyi Zhang) prostituirsi nel ruolo di geishe giapponesi, viene vissuto come un oltraggio e l’ondata di sdegno trabocca su tutti i siti Internet della Cina. Ancora una volta l’apparizione della nobile geisha eccita i sensi, ma gli stereotipi fanno velo alla sua vera natura. La leggerezza infinita della creatura che sfiora la terra come una farfalla è destinata a non incontrare mai i nostri passi maldestri.

a geisha più famosa che ho avuto la ventura di conoscere è morta a Tokyo nel 1996: aveva centodue anni e ancora esercitava la sua antica professione, due o tre volte la settimana suonava il shamisen, il liuto a tre corde, in qualche ristorante esclusivo. A cantare non ce la faceva più perché la sua voce si era abbassata in un roco sussurro, però era ancora spiritosa, lanciava frizzi, battute a doppio senso, e si concedeva qualche bicchierino di sakè, se i clienti proprio insistevano. Il suo nome d’arte era Asaji, il suo vero nome Haru Kato. Quando compì cento anni diede alle stampe le sue memorie, per niente piccanti, niente pettegolezzi su nomi famosi del mondo politico e industriale giapponese, soltanto qualche scarna annotazione tipo: «All’epoca in cui il Giappone era in guerra, spesso mi è capitato di intrattenere il Primo Ministro Hideki Tojo (giustiziato nel 1948 come criminale di guerra). In seguito ho versato sakè al signor Honda e cantato per lui». A Asaji i medici avevano proibito, negli ultimi anni, di bere sakè, ma lei ha continuato a sorseggiarlo con i suoi clienti perché, come ha scritto, «dovere di una geisha è sorseggiare il vino con gli ospiti che intrattiene per la serata e mai invece deve mangiare, a meno che uno degli ospiti non la costringa porgendole dei bocconcini con le sue bacchette». Imboccare una vecchia signora? Imboccare una nonna? È un atto di carità, un dovere di pietà filiale, o cosa? «È una noia mortale, una perversione» mi ha detto un giapponese che considera le geishe più o meno dei fossili. Eppure Asaji era onorata come “tesoro nazionale vivente”, incarnava quella che per i giapponesi è una sacra istituzione, “unica” della loro cultura. Ti senti spesso domandare: ma voi ce le avete le geishe? No, grazie, vien fatto di rispondere. E non soltanto a me che sono donna ma anche agli uomini occidentali. «Per un maschio adulto occidentale non c’è cosa più tediosa di una cena con geishe» scriveva nel 1893 un diplomatico tedesco. E di recente il sociologo inglese David Bennet ha notato che «è estremamente difficile capire per un occidentale, come il fatto che il sasso vinca la forbice o sia vinto dalla carta, susciti tanta ilarità nei giapponesi». Eppure si divertono, eccome, a giocare alla morra cinese o a intagliare figurine di origami, o a fare tanti giochini di società con donne la cui compagnia costa dai duecento ai cinquecento euro all’ora. Sono stata invitata anch’io una volta, a Tokyo, a una cena con geishe, sommo onore. Ne avevo una tutta per me che continuava versarmi sakèin un bicchiere grande come un ditale e voleva a tutti i costi insegnarmi a fare dei pupazzetti di carta, così mi sembrava di essere all’asilo d’infanzia. La cosa più “spinta” che mi ha proposto è stato il “bacio dei cerini”: si accendono assieme due cerini, uno maschio e l’altro femmina (il cerino diventa femmina raschiando via con l’unghia la cera che avvolge la carta che si apre poi a ruota, come un manto o una gonna) e i due simulacri si consumano nel loro breve amplesso. Che ridere, bambini miei. Tuttavia sembra che agli uomini giapponesi piacciano molto questi scherzetti innocui, questi giochini di società che facevano da piccoli con le loro zie e cuginette, intrisi di un vago erotismo pre-adolescenziale. Le geishe sono maestre nell’arte di far regredire i loro onorevoli ospiti allo stadio infantile, recitando filastrocche e poesiole, e gli uomini sono felici di essere trattati come “bambinoni”. Come mai? Una spiegazione c’è, bisogna rifarsi a un concetto che spiega la personalità tipica giapponese, un concetto unico che in giapponese si chiama amae e che noi fatichiamo a comprendere e a tradurre. Si tratta di un atteggiamento infantile di totale dipendenza e abbandono, un sentimento dolce derivante dal piacere che si prova a essere coccolati e perdonati, qualsiasi cosa si faccia o si dica. Nell’età adulta non ce lo si può più permettere, a meno che non si ceni con una geisha, una professionista nell’arte di far regredire un uomo a quello stadio felice della vita in cui tutto è permesso. Tutto tranne il sesso, ovviamente: quello è permesso quando si diventa grandi e le geishe non sono mica lì per quello. Per il sesso, ovviamente, ci sono altre professioniste. Un amico giapponese con il quale discutevo di amae, che può anche essere inteso come una sorta di amore passivo, mi ha detto: «Forse anche voi sapete cosa sia amae ma non ne avete fatto un punto focale della vostra cultura, noi invece sì. E una volta cresciuti cerchiamo di ricreare quella meravigliosa condizione di libertà che la nostra cultura ci concede soltanto nella prima infanzia. La verità è che nell’infanzia a voi occidentali vengono posti dei limiti, dei divieti, a noi no. Ma voi, diventando adulti, passate dal regno della costrizione a quello della libertà, noi invece da quello della libertà a quello della costrizione». Così in qualche modo loro, i giapponesi, devono rifarsi, riconquistare appena possibile il paradiso perduto. Bevendo, per esempio, perché in Giappone gli ubriachi sono considerati come bambini, non conoscono vergogna, bisogna rabbonirli, vezzeggiarli, non punirli. Sbornie nostalgiche, dolci, con pianti e canti sommessi, sono spesso la conclusione di una dura giornata di lavoro del sararimen, l’impiegato giapponese che confida nell’indulgenza delle mama-san, le proprietarie dei bar che li capiscono, si comportano proprio come mamme. Oppure ci si concede una cena con geishe ma è un lusso riservato solo ai potenti, politici, industriali e altri vip. Dal canto loro le geishe, le poche rimaste, «anziane signore vestite all’antica e un po’ buffe» come le ha definite un teen-ager di Tokyo, ovviamente continuano a fare innocenti giochetti e ci trovano il loro tornaconto. Finché dura, dura.

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DOMENICA 18 DICEMBRE 2005

il fatto

Fra tre giorni, grazie alla nuova legge britannica, il celebre musicista inglese Reginald Kenneth Dwight, in arte Elton John, e il film-maker canadese David Furnish si sposeranno: una coppia straordinaria e normale che si avvia a diventare l’icona planetaria

Svolte sociali

dei diritti degli omosessuali

Nozze gay, la sfida di Elton GIUSEPPE VIDETTI

«D

LONDRA

Sotto i riflettori tutto è concesso, ma la realtà è un’altra cosa, soprattutto quando la star in questione è anche un appassionato di calcio (di più, presidente del Watfor Football Club), un hobby che più etero non si può. Nel 1984 sposò Renate Blauel (dalla quale divorziò nel 1988): «Non fu la prima né l’ultima grande menzogna dell’Elton John che ero», ci confessò dieci anni dopo, in un’intervista senza veli. Si presentò in tuta da ginnastica, barba lunga, occhi ancora pieni di sonno. L’Elton dei lustrini e degli eccessi era già stato chiuso a chiave. Raccontò sorridendo, come se parlasse di un

suo lontano parente strambo e patetico, di quella volta che per festeggiare il suo quarantesimo compleanno si era fatto confezionare un costume settecentesco così pesante ed elaborato che per essere “trasportato” al party fu necessario affittare un camion. «Sudavo, stavo male. Risultato: arrivai alla festa completamente disidratato, da ricovero». L’ultima volta, pochi mesi fa, lo abbiamo incontrato a Las Vegas, dove ormai da tempo divide il Colosseum del Caesars’ Palace con Céline Dion (lui con lo spettacolo The red piano, lei con A new day). Erano passate poche ore dall’e-

a questo momento vi dichiaro marito e marito». Le pubblicazioni sono state esposte, la promessa è stata fatta, mercoledì 21 dicembre il matrimonio tra Reginald Kenneth Dwight, 58 anni, cittadino inglese, in arte Elton John, e David Furnish, cittadino canadese, 43 anni, sarà celebrato a Windsor. Una decisione annunciata e un gesto simbolico, visto che le nozze tra la popstar e il film maker/produttore avverranno proprio il primo giorno in cui in Gran Bretagna la legge che consente il matrimonio tra persone dello stesFRANCESCO MERLO so sesso entra in virima di chiederci se è vero che la maggioranza delle coppie omosessuali gore. «Niente regavoglia sposarsi, con i fiori d’arancio, i confetti, il riso, e tutto il grottesco di li, solo opere di beuna cerimonia che già nella versione eterosessuale è sontuosamente inne», hanno fatto digesta, impetuosamente barocca, mobilitante come una chiamata alle armi sapere i Dwight (o i ed estenuante come una guerra di trincea; prima di chiederci perché mai i gay Furnish?) ai settedovrebbero imitare gli eterosessuali, va subito detto che impedire il matrimocento tra vip e star nio è un delitto, il più anti italiano dei delitti. Il «matrimonio che non s’ha da fainvitati alla cerire» è infatti l’ossessione attorno alla quale è stato costruito il nostro unico romonia, che si terrà manzo storico, che è anche il catechismo dell’antropologia italiana, di un’inello stesso luogo dentità nazionale fondata sul «vissero felici e contenti», sul rito coniugale intedove sono convoso non come un inizio, ma come una fine, come il fine. Ebbene, sostituendo lati Carlo e CamilRenzo e Lucia con Renzo e Lucio rimangono inalterate la struttura del delitto e la, esortandoli a l’immoralità degli impedimenti dirimenti. donare generosaDunque, vietare ai conviventi, alle coppie di fatto, di siglare un patto civile, mente all’Aids di legarsi con un contratto riconosciuto dallo Stato, è la soperchieria di una Foundation di cui classe dirigente che, ancora e sempre, è composta dai soliti don Rodrigo e daElton è presidente. gli eterni don Abbondio, pronti a somministrare sofferenza proprio in nome di «Sarà una cosa per quel Cristo che prese su di sé tutta la sofferenza del mondo. Davvero ci vorrebpochi intimi», avebe un moderno Manzoni per raccontare che mai Gesù approverebbe lo stato vano annunciato di sofferenza di due persone che si amano e credono in Lui e pure nei SacraSir Elton e David menti, ma devono soffrire perché il loro amore, la loro convivenza e la loro stesnell’unica intervisa fede non sono riconosciute come ortodosse da Berlusconi don Rodrigo e dal sta cheek to cheek Griso Castagnetti, dai bravi Casini e Rutelli, dai lanzichenecchi Buttiglione e rilasciata a AttituMastella, da una classe politica antimoderna che non rappresenta il proprio de, il mensile gay paese e le sue tantissime famiglie di fatto, non solo omosessuali. Ci vorrebbe britannico a più alun nuovo Manzoni per spiegare che Renzo e Lucio non sono mostri sociali, orta tiratura. Ma la rori della natura, errori di Dio. mania di grandezE tuttavia, una volta stabilito che gli omosessuali hanno il diritto di fare tutto za della popstar è quel che vogliono, con il loro corpo, con la loro anima, con i loro soldi, con le loproverbiale, e gli ro pensioni, con la loro vita..., ci permettiamo di aggiungere che il matrimonio, intimi, tra Liz Huril rito classico del matrimonio, non ci pare una bella idea. Certo, su Elton John ley e i Beckham, non abbiamo dubbi: il matrimonio sarà il più fantasioso dei suoi concerti, non Rod Stewart e i più un assolo ma un duetto, un fantastico spettacolo con il sindaco come imVersace, basterebpresario, la sala comunale come palcoscenico, il mondo come pubblico e i benbero a popolare un pensanti come bersaglio dell’irriverenza, della provocazione, del “prendersi matrimonio reale. gioco”. Quel rito che spettacolarizza un ambito molto intimo come il rapporto «Adesso sono la amoroso, e che sempre resta a ridosso del grottesco, anche nelle coppie eteroregina madre del sessuali, in Elton John si riscatta perché il grottesco è l’anima dello spettacolo, è pop», esclamò irril’alimento della teatralità eccessiva. Come molti artisti, anche Elton John fa delverente il 24 febla bizzarria una forza. Ma perché mai le normali coppie gay dovrebbero accebraio 1998, quando dere a un’istituzione che si regge a fatica e che tutti dribblano con il tradimenElisabetta II lo noto, con l’evasione, con il divorzio, con la sacra rota, persino con l’omicidio? minò cavaliere delIl matrimonio è un’istituzione in crisi, difesa a spada teologica dispiegata sola corona, confelo da chi non si sposa, dai preti appunto che pretendono di salvare una istiturendogli l’ambito zione che non solo non conoscono ma che nei fatti dileggiano, con il loro voto titolo di sir (già dal di castità. Dunque il matrimonio omosessuale è un pasticcio perché è modella‘95 è Comandante to su un altro pasticcio, sulla filosofia matrimonialista del prete, del single per dell’ordine dell’imdevozione. Del resto, basta un’occhiata distratta per capire che sfasciamo più pero britannico). matrimoni di quanti ne facciamo. Neppure da un punto di vista contabile l’istiAll’epoca poteva tuzione regge, visto che ogni matrimonio in crisi prelude almeno a due matrianche permettersi moni sfasciati. La verità è che ci sposiamo per i figli. Ci sono famiglie plurime che di scherzare sulla sembrano fattorie di genitori, altre che sono fondate su una fatica domestica propria omosesquotidiana, e nel migliore dei casi le mogli diventano sorelle... Davvero il matrisualità, David Furmonio sopravvive come istituzione solo per i figli. Funziona come i numeri irnish era ufficialrazionali in matematica, quei numeri matti che permettono il calcolo del cemente il suo commento armato, l’elevazione di un grattacielo, la costruzione del ponte che colpagno da cinque lega la Danimarca alla Norvegia. Chi capisce i numeri irrazionali? anni. Ma fare coCerto, se si ammette il diritto all’adozione per le coppie omosessuali, allora il ming out non era discorso cambia. Ma noi, che siamo contro le discriminazioni, sappiamo che le stato così semplice: differenze esistono. Ci sono l’affetto materno e quello paterno, c’è il doppio reuna star deve rigistro psicologico, la tenerezza della mamma e la durezza del papà o viceversa. spondere del suo L’omosessualità è uno dei tanti misteri della psiche degli uomini e delle donne, comportamento (e una piega che non è frattura, una opportunità come un’altra, una divagazione, della sua sessuauna delle possibili maniere di vivere il sesso. Ma, senza obiezioni teologiche, non lità) a milioni di fan. ci convince la banale vita quotidiana di un figlio affidato a una coppia di omoNel 1971 aveva sessuali. E perciò l’adozione non ci pare un diritto, ma un eccesso perché i figli mandato un segnahanno bisogno di un padre e di una madre, perché anche Elton John è cresciule a buon intendito come noi e l’idea che si possa fare a meno della madre è il rovesciamento di tor... Sulla copertiquell’altra turpe idea secondo la quale il padre è solo un incidente nella gestana dell’album zione di un figlio. Ci sono importanti momenti della vita nei quali contano i sesTumbleweed consi diversi e complementari, i complessi di Edipo e di Saturno..., ci sono atti in cui nection si era fatto la differenza ha una forza, un codice e un protocollo che nessuno sinora ha pofotografare con il tuto sostituire. Sarà banale, sarà un luogo comune o magari anche una presunsuo paroliere di zione, ma noi siamo laicamente contro l’idea che un bambino passi dalla viosempre, Bernie lenza di un orfanotrofio a quella di un “omosessualtrofio”. Taupin, sulla banchina di una stazione di provincia nell’atteggiamento di un tipico “rimorchio” gay. Nel 1976 dichiarò in un’intervista a Rolling Stone: «Sono bisessuale». Il pubblico non reagì benissimo, ci fu una flessione nelle vendite, anche perché le canzoni non erano all’altezza di quelle incise nei primi cinque anni di carriera (1969-74). Non faceva molto per nasconderlo, ma il palcoscenico, si sa, può essere complice del reato d’ipocrisia.

sternazione di Buttiglione contro i matrimoni gay all’Europarlamento. «State combinati male in Italia», esclamò, «con il Vaticano in casa c’è poco da sperare per i diritti degli omosessuali e una corretta informazione sull’Aids. Peggio di così hanno fatto solo Reagan e Bush», disse, tormentandosi l’orecchino pendente, un piccolo fallo d’oro forgiato dal suo gioielliere di fiducia. Ma il discorso scivolò quasi subito su David, mentre ci faceva ascoltare My elusive drug (La mia inafferrabile droga), una canzone dell’ultimo cd dedicata al compagno, in cui canta: Ti stavo cercando da una vita /

Tutti i vizi che non riuscivo più a gestire / Ormai li ho nascosti sotto il tappeto / In favore della più dolce delle dipendenze / Tu, mia inafferrabile droga. Con un Oscar sul camino per le musiche del Re leone, tre musical in scena (Aida, The lion king e Billy Elliot, in cui Furnish figura come produttore) e uno in arrivo (Lestat, musical sulla saga dei vampiri di Anne Rice che debutta a San Francisco il 17 dicembre e arriva a Broadway a marzo 2006), Elton John pretende di aver fatto un salto al di là dei confini della cultura pop. «Non sono una popstar, non nel senso comune

LA PROVA GENERALE La prova generale delle nozze, Elton John e David Furnish l’hanno fatta davanti a Julian Dufort che li ha fotografati per la copertina di dicembre di “Attitude”, il mensile gay britannico a più alta tiratura Nella lunga intervista, la coppia racconta ogni dettaglio della storia d’amore che dura da 12 anni: «Non ci sentiamo i paladini del matrimonio gay», dice Elton John. «So che il nostro non può rappresentare un modello di famiglia identico a quello eterosessuale»

Il matrimonio che non s’ha da fare quell’ossessione tutta italiana

P

Il cammino dell’artista per sfuggire all’ipocrisia

è stato lungo: una moglie di comodo lasciata presto, le allusioni sulla scena, l’ammissione di essere bisessuale, fino al coming out

I PROMESSI SPOSI In alto Elton John e David Furnish sulla copertina della rivista “Attitude”. Al centro, la coppia in un’immagine recente. Qui sopra, la pop star britannica al pianoforte durante un concerto

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41

LE LEGGI I MATRIMONI

LE UNIONI

IL RICONOSCIMENTO

IL DIVIETO

I matrimoni fra omosessuali, spesso con diritto all’adozione, sono ammessi in Olanda, Belgio, Canada e Spagna

Dai Pacs alle unioni civili: in Francia, Gran Bretagna, Germania e Danimarca forme giuridiche ad hoc regolano le coppie gay

Diritti alle coppie gay sono riconosciuti, con diverse gradazioni, in Norvegia, Finlandia, Svezia e Portogallo

In Italia non esistono norme statali che riconoscano le coppie gay. Lo stesso accade in numerosi stati americani

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che si attribuisce a questa parola. Ho 58 anni, sono un artista, punto. Robbie Williams e i Blue sono popstar. È un lavoro bellissimo, meraviglioso, ma anche quello a un certo punto può venire a noia. Infatti, a un certo punto della mia esistenza, mi ha trascinato in basso. Ma negli ultimi dodici anni, da quando David è entrato nella mia vita, ho cambiato le mie abitudini, ho dato un taglio netto alle droghe, niente più alcol. Mi dicono, non hai paura di diventare vecchio? No, perché la maturità mi ha dato saggezza. Se avessi a disposizione la macchina del tempo, vorrei tornare indietro, non per cambiare qualcosa della mia carriera, ma di me stesso, degli errori, delle scelte sbagliate che ho fatto in amore, del male che mi sono inflitto abusando di sostanze nocive. Oggi ho una consapevolezza che quando sguazzavo tra cocaina e boa di struzzo mi mancava. Per questo mi appassiona aiutare la gente che è caduta nei miei stessi errori, artisti come l’attore Robert Downey Jr. (che ha voluto nel clip di I want love) che ha dovuto affrontare anni di riabilitazione per liberarsi dal vizio del bere. Ma anche Rob-

bie Williams e George Michael, che malvolentieri hanno accettato i miei consigli», dice riferendosi a quella volta che piombò in casa dell’ex Take That con uno stuolo di psicanalisti e alle ripetute telefonate per convincere Michael (che a suo volta sposerà il suo compagno Kenny Goss tra qualche settimana) a smetterla con gli spinelli, con il risultato che quest’ultimo ormai non si fa più trovare in casa. Con Pete Doherty, il più irriducibile tossicodipendente della nuova scena rock, ha duettato al Live 8. «Elton John, la popstar, appartiene a quei primi cinque anni della carriera in cui ho inciso i miei capolavori. Poi la vita cambia, diventi ricco, hai una casa tutta tua, comici a coltivare altri interessi. All’epoca io non avevo una vita privata, solo dischi e concerti. Poi a un certo punto senti un campanello d’allarme: hey, è ora che incominci a vivere. Rimpianti? Non me li posso permettere, perché la lista sarebbe infinita. Per riacquistare l’equilibrio che ho ora con David ho dovuto prima di tutto chiedere scusa a me stesso. Una storia d’amore come la nostra basta di per sé a cambiare una vita. Quando mi drogavo, circondato com’ero da inutili yes men, non avrei neanche avuto il tempo di accorgermi di una persona come David. Il mio più grande rimorso è di aver offerto cocaina agli altri, di aver fatto l’amore con ragazzi che avevo sedotto con la cocaina. Non c’è da esserne fieri. Il mio percorso esistenziale e sentimentale con David è iniziato con un chiaro proposito: cambiare vita. Con lui è una sfida continua. È stato perentorio fin dall’inizio, anche quando si trattava di critiche aspre: “Non dovresti fare così, da troppo tempo stai buttando all’aria la tua vita, non è ora che la smetti con questi atteggiamenti?”. E aveva ragione, perché un lato del mio carattere è molto autodistruttivo. Questa è una cosa che accomuna tutti noi artisti: ci facciamo del male, ci spariamo sui piedi, non sentiamo ragioni. A volte quel vecchio demonio mi assale di nuovo; per fortuna c’è David a sdrammatizzare: “Dai, falla finita”, mi dice. E io mi rendo conto che sto facendo di nuovo lo stronzo. Ma la differenza tra me e il “vecchio Elton” è che ora, grazie a David, non chiudo più la porta a chi ha un buon consiglio da darmi. E, soprattutto, ho molto più rispetto verso me stesso. Troppo tempo ho sprecato a dormire di giorno, con le imposte che impedivano ai raggi del sole di entrare in casa. Versace fu il primo a insegnarmi che la vita andava vissuta pienamente, a trasformarmi un una spugna che assorbe tutto. E ora lo faccio. Mi accusano di spendere troppo in fiori (oltre 300mila euro all’anno, giardinieri esclusi, naturalmente, ndr), ma a me i fiori piacciono, mi piace essere circondato dalla bellezza». Di fiori ce ne sono tanti anche a Woodside, la villa di Windsor che delle sue quattro sparse per il mondo (a Nizza, ad Atlanta e a Venezia, «il nostro nido d’amore alla Giudecca») è quella più vicina al luogo delle nozze. «Ho una specie di cappella in giardino in cui ci sono, scolpiti su marmo, i nomi di tutte le persone morte di Aids che conoscevo. Almeno quaranta. In cucina ho il ricordo più caro, una foto di Matthew Shepherd che mi hanno dato i genitori. Non so se ricordate la storia: era quel ventunenne gay di Laramie, Wyoming, che fu pestato a morte da due suoi coetanei (6 ottobre 1998). Scrissi per lui la canzone American triangle e feci un concerto nella sua città. Per me è diventato il simbolo della nostra fragilità, del linciaggio di cui tanti omosessuali sono stati oggetto, soprattutto in provincia». Sulla religione è categorico, e non si illude che i matrimoni gay saranno mai un sacro vincolo: «Mi ha scandalizzato soprattutto il fatto che nessun leader religioso, neanche il Dalai Lama, abbia preso posizione contro la guerra con un gesto più clamoroso di una semplice omelia. Se sono credente? Lo spero. Una parte di me m’induce a credere. Ho sentito così tante storie di fantasmi... ma non so dare una risposta definitiva. La vita sarebbe inutile se la morte cancellasse ogni cosa, ma mi consola il fatto che a un certo punto nella vita arriva un momento in cui smetti di preoccuparti di perdere il prossimo aereo. Quel che più desidero, se esiste un aldilà, è di continuare a vivere con David».

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il viaggio

L’itinerario di Sebastião Salgado alla ricerca delle origini del mondo fa tappa in Patagonia, dove il grande fotografo ha immortalato splendidi esemplari di “balena franca”, chiamata così proprio perché considerata dai cacciatori un bersaglio facile e ideale. Le evoluzioni dei cetacei ci portano dunque fino all’Antartide, al cospetto di una bellezza bianca e unica: lo spettacolo del ghiaccio

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FOTO SEBASTIÃO SALGADO/AMAZONAS/CCONTRASTO

Genesi

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Sulla rotta segreta dei giganti fragili FRANCISCO COLOANE

N

ell’estate del 1947, mi metto in viaggio verso l’Antartide, partendo da Valparaíso per arrivare a Bahía Margarita, settemila miglia più in là. Passo a volo d’uccello sui giorni e le notti della traversata, che per me significarono oltre due mesi attraverso labirinti di specchi. Dallo Stretto di Magellano arriverò al Mare di Drake, sull’isola vulcanica chiamata Decepción: i suoi crateri trasformati in specchi di acque celesti, sulfuree, rassomigliano a smeraldi sinuosi che imitano le stampe fotografiche. Il Mare di Drake, dal temuto Capo Horn in poi, è tranquillo. Le sue ondulazioni sono trapassate dalle veloci lancette delle pinne dei pinguini, e dalle danze degli uccelli delle tempeste di Wilson, una specie di falena marina, che si sostiene sull’acqua grazie alle sue membrane natatorie. Da queste parti si inciampa sul ghiaccio compatto, ostacolo impenetrabile per il dislocamento: come fortificare il nostro spirito di fronte a questo paesaggio di freddo, di vento, di neve? La mente umana a volte è come una rete vuota, o come il grosso cucchiaio di un ricercatore capace di raccogliere microscopici crostacei, particelle dell’universo sommerso. Siamo a metà febbraio, la temperatura oscilla tra i due e i quattro gradi sotto lo zero, per arrivare fino ai cinque e qualcosa sopra lo zero. Un giorno radioso di estate antartica che è un autentico microclima delle Shetland meridionali. Approfitto di questo dolce tepore e mi incontro con quell’immensa lastra di ghiaccio che assomiglia a una montagna di colori e musica, quando il sole e il mare mi spruzzano il viso producendo le lo-

ro iridescenze di raggi e ondosità sul suo contorno. Man mano che mi addentro in queste solitudini, l’imponenza dei ghiacci diventa sempre più impressionante, è un’unica bellezza bianca, un’unica natura, quella del ghiaccio, con un biancore che arriva a essere monotono. Ora mi godo un giorno chiaro, trasparente, anche se il sole non c’è. Il chiarore si prolunga per quasi ventuno ore, e quindi cede il passo all’aurora polare, con i suoi bagliori e luminosità, ma il mare non si lascia vedere. *** Ma ovunque, fin dove arriva lo sguardo, c’è uno strano chiarore. Il mare è talmente trasparente che si può vedere fino a grandi profondità. Si è detto che l’Antartide è una terra ricca di oro, carbone, petrolio e altri minerali. Sicuramente è così. Ma soltanto per arrivare alla superficie della Terra di Graham bisognerebbe attraversare una crosta di ghiaccio spessa diverse centinaia di metri, secondo quello che è stato misurato al suo interno. Il giorno in cui la nave solcò le acque del Canale Gerlache, e quindi del canale Neumayer, che passano proprio accanto alle coste della Terra di Graham, questa imponente bellezza del ghiaccio si mostrò in tutta la sua grandezza. Era un giorno chiaro, trasparente, nonostante non ci fosse il sole, quella trasparenza custodita come un tesoro dai ghiacci, e che sembra portarci in altri ambiti. Le acque del canale erano talmente limpide che la prua della nave le infrangeva appena, fluidamente e silenziosamente, come lo sfiorare di un tessuto di raso. La stretta fascia di acqua grigio-verde del canale era incorniciata da montagnosi contrafforti di ghiaccio e neve, che scendevano fino al mare in diverse e curiose prospettive. (segue nelle pagine successive)

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IL SALTO DI ADELITA Nella pagina accanto, la balena chiamata Adelita che riemerge nelle vicinanze di Puerto Piramides. Sotto, lo stesso cetaceo che salta e, sullo sfondo, le spiagge e la costa di Adele Bay. Adelita non si è tuffata ogni giorno ma quando lo ha fatto, ha lasciato il suo balenottero a giocare vicino alla nostra barca e si è allontanata di poche centinaia di metri

IL PROGETTO: LA TERZA PUNTATA “Genesi” è un viaggio alla scoperta delle origini del mondo. Un percorso fotografico, rigorosamente in bianco e nero, che fa fare al lettore un salto all’indietro nel tempo, alla ricerca della preistoria della Terra, quando i luoghi e la natura erano incontaminati, quando i primi insediamenti umani diedero vita alla civiltà Il progetto è iniziato nel 2003 e dovrebbe durare in totale otto anni. Il lavoro sarà diviso in quattro capitoli: “La creazione”, “L’Arca di Noè”, “I primi uomini”, “Le prime società” Questa terza puntata è dedicata alle balene che si possono incrociare al largo della costa atlantica della Patagonia (La prima puntata del progetto “Genesi” è uscita su La domenica di Repubblica del 16 ottobre, la seconda è stata invece pubblicata il 20 novembre). Le didascalie in queste pagine sono di Sebastião Salgado

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IL COLPO DI CODA Sotto, una balena vista dall’aereo, nel Golfo di San José. Le balene colpiscono l’acqua con la coda, esercitando la massima forza. A volte lo fanno dopo aver saltato: potrebbe significare che tentano di far staccare la pelle vecchia. In basso, ancora Adelita: veniva verso di noi e, quando era arrivata abbastanza vicino, si è voltata di lato e ci ha fissato (le balene australi hanno gli occhi in basso, sotto la mascella inferiore)

IN ESCLUSIVA SU REPUBBLICA E D La Domenica di Repubblica e D-La Repubblica delle donne continueranno a pubblicare in esclusiva per l’Italia il progetto Genesi di Sebastião Salgado. La divulgazione dell’opera del fotografo in Italia è a cura di Contrasto. Salgado è nato in Brasile l’8 febbraio del 1944: ha firmato reportage sugli indios, i contadini dell’America Latina e sulla carestia in Africa, che sono stati raccolti nei suoi primi libri. Poi, tra il 1986 e il 2001, ha documentato la fine della manodopera industriale e il mondo dei migranti

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il viaggio Genesi

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La navigazione è durata sei settimane. E ha rivelato la dolcezza degli animali più grandi ma anche più delicati del pianeta Questi cetacei sono stati vittime di una strage: due secoli fa si contavano fra le duecentomila e le trecentomila balene ma oggi al largo dell’Argentina non ce ne sono più di settecento

(segue dalle pagine precedenti) Un giorno, una bambina di Santiago mi chiese com’era l’Antartide: lì per lì non seppi che cosa dirle, ma poi mi tornò alla memoria il passaggio attraverso il Canale di Gerlache, e le dissi: immagina che tutta la terra si trasformi in una colossale torta nuziale, avvolta da strisce di veli bianchi e tempestati di pietre luccicanti, e che d’improvviso si frantuma ai bordi lasciando passare fino al suo cuore innevato una nave color del piombo, dove tu solchi un’angusta via d’acqua.In quel canale mi imbattei anche nelle lastre di ghiaccio più belle che abbia incontrato sul percorso. Non le più imponenti, ma le più belle e delicate: queste lastre di ghiaccio, tuttavia, che sono l’espressione più viva e presente del paesaggio, dove si trovano le balene, la foca di Weddell, l’elefante marino, non sono altro che pesanti ombre statiche adagiate ai suoi bordi. Oltrepassato il Gerlache, chiamato così in memoria dell’esploratore belga Adrian de Gerlache, che attraversò i mari polari all’inizio del XX secolo, entrammo nel Canale Neumayer, e la decorazione precedente cambiò fino a dare un senso di tristezza. La serena bellezza del canale Gerlache, ci condusse a una tortuosa strada di meandri dove la prua della nave sembrava cozzare di tanto in tanto con le alte pareti di ghiaccio. Strade senza uscita, dove un colpo di timone faceva virare l’imbarcazione dal lato opposto per imboccare un nuovo canale. L’isola León, con una protuberanza che ricorda la ieratica testa del grande felino, si restringe ancora di più in uno dei suoi passaggi per il Canale Neumayer, alla fine del quale si trova un porto di tranquillità e bellezza che ha pochi eguali nella regione: Porto Lockroy. Qui la natura ha ritagliato ormeggi pacifici, baie e insenature protette da moli e argini, dove la nostra nave ebbe modo di riposarsi. Osservo anche gli isolotti disseminati come in base a un disegno razionale. È un angolo meraviglioso, preferito dalla stessa fauna del luogo: foche, pinguini papua e pinguini di Adelia. Mi accolgono con la loro innocente curiosità e il loro malinconico gracchiare. Forse loro vivono il piacere della tranquillità, e la loro malinconia è solo apparente. FRANCISCO COLOANE Il primo frammento è tratto dal racconto Antártica, contenuto nel libro omonimo e mai tradotto in italiano. Il secondo appartiene al manoscritto inedito L’inglese di Lockroy, curato ed editato da Eliana Rojas de Coloane nel 2004 (Traduzione di Fabio Galimberti)

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IL MISTERO DELLA VERTICALE A sinistra, una balena al largo dei golfi della penisola. Talvolta una coda rimane eretta fuori dall’acqua per decine di minuti e possiamo dedurre che l’animale sia completamente in verticale in una sorta di posizione di riposo. Alcuni sostengono anche che le balene usino la coda come una vela spinta e diretta dal vento. Accanto, Adelita e il suo balenottero che nuotano: un gabbiano punta la schiena di Adelita

LO SHOW NELL’OCEANO Nella foto grande qui sopra, la balena Adelita: a volte rimaneva con la coda in aria e il corpo immerso verticalmente mentre il figlio giocava, nuotava e girava intorno a lei. Nelle due foto in alto nella pagina accanto, un altro bellissimo spettacolo nei golfi della Penisola Valdes: la vista delle code delle balene che si ergono sull’acqua

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Due romanzi, due luoghi in cui si riflette la vita e il pensiero dello scrittore

che in questi giorni viene processato nel suo Paese per “avere offeso l’identità turca”: “Neve”, successo internazionale ambientato nell’Anatolia estrema, e “Istanbul, le memorie e la città”, già pubblicato in Gran Bretagna e Stati Uniti e di prossima uscita in Italia; un borgo sperduto dove confluiscono tutti i conflitti della Turchia moderna e una capitale da rievocare “non per la sua purezza ma per la lamentevole assenza di essa”

Orhan

Pamuk SIEGMUND GINZBERG

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L

a mia Istanbul è la stessa di cui scrive Orhan Pamuk nel suo ultimo libro: in bianco e nero. Solo, se possibile, ancora più sfocata, “mossa”, sgranata, pulviscolare, annebbiata, incerta nei contrasti, nel confondersi di grigi e foschia delle fotografie e altre illustrazioni che fanno di Istanbul, le memorie e la città un libro forse unico nel suo genere (un romanzo? Un’autobiografia? Un saggio fotografico? In America l’ha pubblicato Knopf, in Inghilterra Faber & Faber, in Italia sta per uscire da Einaudi). Da leggere e da guardare, sfogliare. Da gustare, mi verrebbe da dire, se un libro potesse dare anche un senso degli odori e dei sapori (per me il profumo salmastro del mare, quello acre dello smog da carbone, le vernici per barche, quello della ciambella al sesamo appena sfornata) e dei suoni (lo sferragliare dei tram, le sirene delle navi che attraversano il Bosforo, le grida dei venditori, il raglio struggente degli asini). Sono nato a Istanbul qualche anno prima di lui. Lui non l’ha mai lasciata. Noi l’abbiamo lasciata su una nave nera, che avevo otto anni, dopo le sommosse del 1955, che Pamuk ricorda nel libro. In quel caso non ce l’avevano con gli armeni, non con i curdi e nemmeno con gli ebrei, ma con i greci. Il negozio di mio padre aveva comunque un nome che suonava “straniero”. Non bastò che vi sventolasse una bandiera turca (per anni poi tenemmo una

Istanbul, la nostalgia di uno sguardo bambino

bandiera italiana nel cassetto, non si sa mai). Mio padre aveva “voglia d’Europa”. L’ultima cosa che vorrei ancora vedere è un’Europa che se la prende coi suoi stranieri. «Parlate turco!», ingiungeva lo slogan nazionalista. Meglio: pensavo in turco. «È vostro figlio? Non sembra», dicevano ai miei, che tra di loro parlavano in armeno o francese quando non volevano che orecchiassi. L’ho dimenticato, tranne le parolacce e i nomi del cibo. Ma le poche foto di famiglia sono identiche a quelle dei Pamuk. La sua Istanbul in bianco e nero l’ho riconosciuta nei recessi della memoria. Quella di de Nerval, Gautier, Flaubert, De Amicis, Loti, Melling, Tampinar, Yahya Kemal — «La maggiore virtù di Istanbul è come la città possa essere vista sia da occhi occidentali che orientali» — l’ho ritrovata in questi anni nei libri (mi chiedo solo perché non citi Nazim Hikmet: ancora non si può?). Un po’ diversa la nostalgia, se si preferisce la malinconia che evocano quelle immagini e quelle memorie. Hüzün la chiama Pamuk, preferendo

mantenere anche nella traduzione inglese, da lui riveduta, il termine turco che viene dal Corano, cui intitola un intero capitolo. Non è angoscia, non è tristezza, non è solo rimpianto, mancanza di qualcuno o qualcosa di caro, o «lontananza da Dio» come sostenevano i mistici. Non è solo senso di solitudine, anche se resta per definizione qualcosa di intimo, personale. Non è sofferenza, anzi è uno stato di malessere che può dare soddisfazioni, in cui ci si può crogiolare provandone persino piacere. Ha forse affinità col pianto, che non è la stessa cosa del dolore, anzi lo addolcisce. Forse non c’entra, ma mi fa venire in mente il particolare no-

“Sono nato a Istanbul qualche anno prima di Pamuk. Lui non l’ha mai lasciata. Noi l’abbiamo lasciata su una nave nera, che avevo otto anni”

do in gola — amaro, ma anche liberatorio — che sin da bambino mi veniva non dalla soddisfazione di un torto, ma dalla sensazione che fosse in qualche modo riconosciuto. «Il mio punto di partenza è l’emozione che può provare un bambino a guardare attraverso una finestra madida di vapore. Ora cominciamo a comprendere che hüzün non è solo la malinconia di un individuo in solitudine ma può essere l’umore nero condiviso da milioni di persone insieme. Quello che sto cercando di spiegare è lo hüzün di un’intera città: Istanbul», è il modo in cui lo scrittore riassume quel che si propone. Non la malinconia di una città, ma il modo in cui ciascuno, a modo suo, vi si riflette. «Parlo delle sere in cui il sole tramonta presto, di padri sotto i lampioni nei vicoli che tornano a casa con sacchetti di plastica. Dei vecchi traghetti del Bosforo in stazioni deserte nel mezzo dell’inverno… vecchi librai che aspettano tutto il giorno che faccia la comparsa un cliente; dei barbieri che si lamentano che la gente non si sbarba più così spesso con la crisi economica; di bambini che giocano al pallone tra le auto in strade selciate; delle donne con i loro sacchetti di plastica in remote stazioni di autobus in attesa di un autobus che non arriva mai; …di sale da tè affollate di disoccupati; di ruffiani pazienti… in attesa di un ultimo turista ubriaco; della folla che si affretta a prendere il traghetto nelle sere d’inverno; degli edifici di legno dove ogni asse scricchiolava anche quando erano magioni di pascià…; delle donne che sbirciano tra le tende mentre

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PENSIERI E PREMI Orhan Pamuk è nato a Istanbul nel 1952. È uno dei più importanti scrittori turchi. Tra i suoi romanzi, pubblicati in più di 25 lingue, sono stati tradotti in italiano “Roccalba”, “La casa del silenzio”, “Il libro nero”, “La nuova vita”, “Il mio nome è rosso”. Più volte premiato, ha vinto anche il Grinzane Cavour

IL LIBRO: LA MEMORIA E IL RIMPIANTO Il libro di Orhan Pamuk “Istanbul, le memorie e la città” è già stato pubblicato da Knopf negli Stati Uniti e da Faber & Faber in Gran Bretagna, e uscirà in Italia l’anno prossimo, tra aprile e maggio, per Einaudi. Un’opera che ripercorre i ricordi d’infanzia, pieni di malinconica nostalgia, (testimoniati anche da un ricco album di famiglia fotografico) del romanziere turco oggi al centro di un processo per reati d’opinione

Kars, la città bianca nodo e specchio della questione turca MARCO ANSALDO

N

INFANZIA Nelle foto della pagina, tratte dall’edizione americana dell’ultimo libro di Orhan Pamuk, una serie di immagini e di memorabilia dell’infanzia dello scrittore, della sua famiglia e della capitale turca di quegli anni

KARS

eve, solo neve. Una distesa bianca accecante, lunga fino al Caucaso. E freddo. Molto freddo. «Quaranta gradi sotto zero qui sono la norma — dice Celil, la guida — sarà così fino ad aprile». A Kars, cittadina incastonata in un triangolo di terra fra Turchia, Armenia e Georgia, l’aria è rarefatta. L’atmosfera quella descritta perfettamente da Orhan Pamuk nel suo ultimo romanzo di grande successo, Neve (Einaudi), Kar in turco. Dove il protagonista, dal singolare nome di Ka e alter ego dell’autore, si trova al centro di una vicenda inquietante. Nella realtà lo scrittore, venerdì scorso, è stato chiamato a processo per aver accennato in un’intervista alla questione del genocidio armeno e alla guerra con i curdi. Il suo libro dunque lo ha preceduto. Ka, Kar, Kars. Un gioco di parole i cui riferimenti kafkiani sono evidenti. Perché attorno a questo abbagliante paesaggio di neve, stretto addosso a un pugno di viali spazzati da un vento bianco che non smette di soffiare, c’è di tutto: islamici radicali, nazionalisti laici, polizia segreta, religiosi, terroristi. E donne belle, dal profilo caucasico. Alcune indossano il velo. Si uccidono, nel romanzo, perché non sono ammesse a scuola con quella bandiera, simbolo dell’Islam politico. Una città unita da cinque strade perpendicolari che squadrano il centro, nella regione più sperduta e arretrata dell’Anatolia. Buttata in mezzo a un grumo di etnie diverse, turchi, curdi, armeni, caucasici, iraniani. Al di sopra di tutto, la neve che cade in fiocchi copiosi, qui più grandi del normale. Fiocchi enormi, si legge, «come piume d’uccelli». Da guardare dietro le finestre ghiacciate. La realtà non è poi molto diversa. A Kars alle tre del pomeriggio è già notte. Nell’aria una malinconia che prende allo stomaco e non ti lascia se non con la luce dell’alba. Al piccolo sgangherato albergo dove il taxi si ferma non c’è nessuno. Una stordente sosta di venti minuti mentre nel deserto bianco la neve sul cappotto diventa ghiaccio. Alla fine, dal negozio a

fianco esce qualcuno a spiegare in un dialetto incomprensibile che «il proprietario è andato in moschea a pregare». In tv solo immagini di canali turchi. Fuori, il silenzio. Per strada coppie di militari fanno la ronda. Le ragazze sfiorano veloci i muri, la maggior parte sono in jeans e a capo scoperto. Il freddo è davvero impossibile. Agli angoli gruppi di disoccupati giocano a dadi battendo i piedi, il ripiano appoggiato su un trespolo. Da una taverna arriva un’ondata di calore. Dentro, cibo semplice e caldissimo: riso, fagioli, carne e sugo, verdure cotte. Si è serviti in un lampo. Gli avventori hanno gli occhi appesi al televisore attaccato alla parete e alle curve della bella Gulsen, la cantante di Istanbul più sensuale del momento. Da qui, la grande metropoli appoggiata alla costa europea, sul lato opposto del paese, sembra lontana quanto Marte. Sorgu è il cameriere. Si pianta seduto al tavolo che ha appena apparecchiato e sfoglia i giornali lasciati sulla sedia: «Perché così tanti?», chiede. Poi commenta la notizia del capo delle Forze armate che smentisce di voler entrare in politica. «Qui ci sono tanti problemi — bisbiglia calando la voce di un tono — soprattutto il Pkk». E si passa un dito sotto la gola. Tutti si stupiscono della presenza dello straniero, lo guardano come un marziano. Non devono essere molti i viaggiatori che si spingono fin quassù. «Lei perché è venuto?», chiede la gente di continuo. All’Internet cafè l’ospitalità turca è comunque salva, e per prima cosa gli addetti ai computer portano il tè. La musica è alta, niente salmi islamici, ma il rock di Anastacia e la Madonna della Isla bonita. «Qui molti ce l’hanno a morte con Pamuk — spiega Celil — dicono che ha infangato il nome di Kars. Ma non hanno nemmeno letto il libro. Però non è vero che questa città è il cuore del fondamentalismo turco e del confronto fra militari e Pkk. Non è la mistica Konya, e nemmeno Batman o Hakkari dove si combatte tutti i santi giorni. Neve in fondo è solo un romanzo». In parte è così. Pamuk ha mescolato in maniera eccelsa elementi reali con la fantasia. Vere sono le descrizioni delle strade e degli edifici, gli uffici della polizia e le casupole senza riscaldamento al di là dei binari dove Ka, il poeta che si finge giornalista, incontra Blu, il terrorista fanatico. Altrove siamo al verosimile: la pasticceria “Nuova vita”, dove si svolge la scena centrale e forse più drammatica del libro, con il colloquio fra il killer integralista armato di pistola e il rettore dell’Università che si rifiuta di ammettere ai corsi le ragazze velate, non esiste. Ma botteghe simili si aprono a grappoli lungo Ataturk Caddesi e le cinque parallele del centro. Kars appare davvero come l’altra faccia della Turchia, lontana secoli dalla luce solare di Istanbul e dai colori rutilanti della grande città. All’ospedale, un dottorino di Smirne è l’unico chirurgo cardiovascolare nella zona. Si trova qui solo da un mese, e come tutti i medici farà pratica per un anno a est prima di iniziare la professione vera e propria. Oggi appare stremato. «Il cellulare squilla di continuo — dice — le urgenze sono infinite, notte e giorno. Ma qui non c’è nemmeno un’unità per la terapia intensiva. Operiamo con mezzi arcaici. Tra questo e l’ospedale di Smirne ci sono cinquant’anni anni di differenza». Quarantacinque chilometri più su si apre la frontiera. E soprattutto Ani, l’antica capitale armena, ridotta a un cumulo di rovine. Una fortezza conquistata e ripresa da tutti: arabi, bizantini, selgiuchidi, georgiani, persiani, mongoli, ottomani, russi, armeni, turchi. Un paio di montagne perennemente imbiancate segnano l’esatto punto di convergenza tra i confini di Turchia, Georgia e Armenia. Se mai Ankara dovesse entrare a far parte della Ue, fra dieci anni i confini d’Europa arriverebbero fin qui. Si torna a Kars, sepolta nella neve e già immersa nell’ombra. La notte in giro ci sono solo cani, ad abbaiare e inseguire i passanti. Dall’alto dominano invece gli storni, padroni dei viali deserti con i loro urli striduli e gli escrementi lanciati a pioggia dalla cima degli alberi. Per strada la neve è adesso una poltiglia informe. All’Internet cafè il ragazzo barbuto che serve tè sorride: «E mi raccomando, scriva un bel reportage, che lo vogliamo leggere». Al rientro in albergo trovo la camera in ordine perfetto e il mio libro buttato a terra. A Kars è inutile chiedere di Kar, Neve. Nelle librerie, il romanzo di Orhan Pamuk non c’è.

Qui, in queste strade spazzate da un vento polare, a pochi chilometri dalla

frontiera armena,

lo scrittore ha ambientato la sua storia più famosa

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aspettano mariti che non rincasano sempre a notte tarda; di vecchi che vendono libri religiosi, rosari nei cortili delle moschee; di decine di migliaia di ingressi di case d’appartamento identici, le facciate scolorite da sporco, ruggine, cenere e polvere…; delle sirene delle navi nella nebbia; …dei gabbiani appollaiati su zattere incrostate di muschio e molluschi…; di sottili nastri di fumo che si alzano dai comignoli nel giorno più freddo dell’anno; …di coloro che pescano dalle sponde del ponte di Galata; dell’odore del fiato nei cinema che un tempo avevano soffitti dorati e ora sono locali pornografici frequentati da uomini che se ne vergognano; …di muri coperti da manifesti anneriti; dei vecchi e stanchi dolmus, Chevrolet anni Cinquanta che sarebbero pezzi da museo in qualsiasi città occidentale, e qui servono da tassì collettivi; …dei libri di storia in cui i bambini leggono delle vittorie dell’Impero ottomano…». Così continua per molte pagine, tra le più belle. Qualche pagina dopo confessa la tentazione di evocare un’età dell’oro, un momento splendente in cui la città era «in pace con sé stessa» (quando i miei antenati sefarditi vi vivevano in pace con turchi, musulmani, cristiani, armeni, greci?), ma poi si sovviene di «amare questa città non per la sua purezza, ma appunto per la lamentevole assenza di essa». Sì, si potrebbero forse dire cose simili di qualsiasi altra città d’Europa. Ma perché ritrovo in questa nostalgia di Istanbul di Pamuk tanto della Istanbul della mia infanzia? Non so nemmeno se sia ancora così. Mi raccontano che è ormai un ingorgo unico, tutto è sovrastato da un traffico spaventoso di automobili. So che c’è anche chi dice che «Istanbul non è la Turchia». Ma alla stessa stregua si potrebbe dire che «New York non sono gli Stati Uniti».

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la lettura

Per poche ore, tra l’esodo degli ottocento detenuti che le abitavano e l’arrivo dei muratori che dovevano restaurarle, le celle del quarto e quinto raggio del carcere milanese restarono deserte. Il regista Davide Ferrario ha fotografato quei muri coperti di ritagli e graffiti: ne sono nati un libro, “Foto da galera”, e una mostra

Dietro le sbarre

San Vittore, tracce di vita reclusa S PINO CORRIAS

MILANO

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cogliera del quarto e quinto raggio, carcere di San Vittore. Come una risacca che dondola, dopo il naufragio. Dettagli di molte vite e di molte sigarette. Celle vuote come una dimenticanza, ma ancora sature di aglio, sugo e inchiostro. Crocefissi che sgocciolano pentimento. Donne a gambe spalancate, lampeggiando vita. Seni. Muscoli. Una Ferrari. Una spiaggia. Padre Pio. Petali di carta. La Madonna, una moschea, una mosca. Un segreto da svelare. Il carcere è quasi sempre un racconto gridato, porte che sbattono, serrature, ferro che scatta come una tagliola, vene gonfie, l’aria che diventa un urlo, o il fumo delle rivolte. Stavolta no. Le cento e

passa fotografie di Davide Ferrario sono puro silenzio, luce in polvere, sospensione. Vengono dopo l’esodo degli ottocento carcerati e prima degli imbianchini che ripulendo avrebbero cancellato, per sempre, queste sequenze da un mondo remoto. Vengono in coda alla ressa dell’ultima notte. Tutti in fila, all’alba, verso altre sbarre, addio, portandosi via le lettere di mamma e la pasta dello spaccio, le caffettiere, i libri, le stecche di sigarette, i detersivi e il colpo d’occhio dello spazio intorno, che ha intrappolato la vita. Tutta intera la vita di dentro, cioè il sonno, la veglia, e il suo perimetro. Ora il perimetro non coincide più con la cella standard, quattro metri per due, letti a castello, sette detenuti (talvolta) che fanno a turno per stare in piedi, ma è violato da questo vuoto congelato dalle foto e reso incongruo da quel resta: piccoli colori che interferiscono con il grigio; un occhio blu, circondato dal rimmel, che fa fiorire una macchia di vernice. Immagini talmente sorprendenti da contenere un tramonto e un addio, una donna in bikini e un kalashnikov, Madre Teresa di Calcutta e Alessandra Mussolini, Karol Wojtyla e una pin up. Come una piccolissima finestra spalancata sul disordine vitale della vita (di fuori). Di colpo viene voglia di estrarre proprio la vita da queste tracce. Farsi raccontare da loro la storia degli uomini che le hanno ritagliate, incollate, appese, usando i muri di San Vittore per forzare i muri di San Vittore. Riuscendo a non renderle tristi o quasi mai tristi, ma cariche di malinconia e di destino, incorporate alla vita quotidiana, incorporate alla condanna, incorporate alla prigione. Eppure belle come una via d’uscita. E struggenti come certe lavagne di Basquiat, quando era ancora giovanissimo e furente, da sconciare Monna Lisa e l’Uomo nero, pasticciare bambini e bombe, firmarsi Same Old Shit, tutto-la-stessa-merda, prima di farsi fregare e di finire dentro alla prigione di una siringa. O narrative come i decollages di Mimmo Rotella che strappa dai muri quello che il tempo accumula, ricicla gli occhi e i sorrisi delle dive, i muscoli degli eroi, ci parla del nostro viaggio imprigionato, sfasando il bacio di Marilyn in una eterna lontananza. Artisti involontari di un’arte quotidiana: sopravvivere. Dentro a storie di carcere già lette in molti taccuini e testimonianze, tipo «Mi chiamo Vladimir, prigioniero del tempo». Oppure: «Mi

sento un pesce boccheggiante petrolio». Oppure: «Precipito ogni giorno in questo spazio di crudeltà». Oppure: «Rapinavo banche, ora faccio i conti degli spesini». Oppure: «Ho ucciso, se lo meritava». Tossici con nere visioni. Cuochi dal cuore spezzato. Africani scappati dalle immense siccità di Agadez. Guerrieri scesi dai pendii balcanici. Borseggiatori. Truffatori di pensionati. Usurai. Trafficanti di uomini e di cose. In uno dei tanti libri di galera, Andare ai resti di Emilio Quadrelli, un ex detenuto racconta: «Insomma se tu togli il ruolo delle grandi organizzazioni criminali (…) le attività illegali sono una specie di secondo lavoro che si affianca a quello legale. Il broker che traffica in cocaina, la commessa che fa anche i massaggi o li organizza, il barista che ha il suo giro di pastiglie, l’orafo che presta i soldi, la parrucchiera che gestisce un giro di marchette: questo è il mondo vero dell’illegalità». Questi i de-

stini che galleggiano. Le grosse scogliere di San Vittore ne ingoiano millequattrocento ogni anno. Poi ci sono le guardie, i volontari, gli infermieri. Poi i parenti che aspettano, nell’aria turbolenta di Milano, i trenta minuti del colloquio. Portano cibo, vestiti, ma anche quelle foto, quei disegni, quei ritagli d’aria che finiranno sui muri delle celle, fessure di libertà. Il carcere ha sei raggi a stella. Soffitti alti. Umidità. Arredi scrostati. L’eco continuo di cento cancelli. Una storia di muri edificati nel primissimo Ottocento, secolo che perfezionò, insieme alle prigioni, l’architettura delle fabbriche, delle banche e dei più piccoli chiavistelli del tempo, gli orologi. San Vittore ne ha assorbito le tempeste, comprese due guerre e la miseria, la fame nera, le migrazioni interne cariche anche di vite spezzate, i conflitti sociali, fino al fuoco Anni Settanta delle ri-

Davide Ferrario racconta la sua esperienza nel penitenziario

“Il limite mi ha cambiato” PAOLO D’AGOSTINI

«È

cominciato tutto per caso. Sono entrato a San Vittore per la prima volta cinque anni fa, mi hanno chiamato per tenere un corso di montaggio ai detenuti della sezione penale...». Davide Ferrario è appena rientrato da Londra dove è andato ad accompagnare l’uscita del suo film Dopo mezzanotte, al telefono si sente che ha un attimo di esitazione prima di usare un’espressione che può sembrare fuori luogo: «...E mi sono trovato bene. Ne è nata la scintilla di una relazione umana. Sono rimasto colpito dalla quotidianità del carcere, diversa da come l’immaginavo. Detto in due parole: in pochi posti, nella vita moderna, sei a confronto con te stesso. Nella malattia, nel dolore, in galera: situazioni estreme. Da una parte, fuori, il delirio delle illimitate possibilità; dall’altra il senso del limite che la galera ti sbatte in faccia». Da allora lei svolge regolare attività di volontariato. «Volontario, sì, il cosiddetto articolo 17. Sottoposto alla valutazione del magistrato di sorveglianza che conferma di anno in anno se ti comporti bene. Dopo quell’esperienza come docente ho chiesto di poter continuare a frequentare il carcere, e la direzione mi ha sempre molto appoggiato». Ha fatto parte del suo percorso, da quel primo contatto fino al libro fotografico Foto da galera, anche un film realizzato in carcere con i detenuti. «Fine amore mai, s’intitolava. Sì, con il gruppo del corso, quindici-venti persone con le quali ci si incontrava una volta a settimana. Ma dev’essere chiaro un punto. Io non vado in carcere per fare i miei film. Il contrario. Sono andato, sono stato invitato in quanto faccio film. Non mi sento investito di alcuna velleità missionaria, vado perché chiamato come regista, come esperto. E quello che ho potuto mettere a disposizione, in un luogo dove manca ogni progettualità, è solo qualcosa che tiene in pista con la testa. Con il mio gruppo ci siamo chiesti su quale

argomento avremmo potuto esercitarci, ed è venuta subito fuori la sessualità. Loro avevano visto il mio film Guardami(storia di una pornostar). La cosa sorprendente è che quell’esperienza ha colto quanto di questo tema si prestava all’ironia. Ci sono due modi, in carcere, di reagire. La disperazione assoluta: ti suicidi, ti cancelli. Oppure ti guardi da un punto di vista comico. L’ho scoperto lì, non pensavo che fosse così». Il paradosso, infatti, è che la legge consente a due detenuti di sposarsi ma non di consumare il matrimonio. «Sì, prevede che si possa creare una famiglia ma non fare figli. Io sono capitato al matrimonio tra un ergastolano e una donna condannata a 24 anni. Non ho imbarazzo a dire che è il matrimonio più bello che abbia visto in vita mia. Quella che nella vita normale rischia di essere una messinscena perfino triste lì aveva la forza dirompente di riaffermare la vita al di là della gabbia». E veniamo ai muri delle celle abbandonate per ristrutturazione che lei ha fotografato. «Ecco, come non vado in galera per fare i miei film così non ci vado neanche per fare il fotografo. Anche qui, il caso. Loro stessi, i detenuti prima di essere trasferiti, mi hanno sollecitato. E mi sono reso conto che questi muri era come se chiamassero la necessità di essere documentati prima di sparire. La scorsa settimana ho mostrato il libro a San Vittore. Il commento più bello è stato: abbiamo visto ‘sta roba per anni e mai ci siamo accorti che c’era. Era quello che speravo: la fotografia isola un significato che sul muro non c’era. Io esco arricchito da questa esperienza senza dimenticare che c’è una ragione per cui io sono fuori e loro dentro, evitando ogni compatimento ma anche senza dimenticare quanto la galera sia inutile e sia una spesa sociale che non produce nulla. Una discarica sociale: ma il pattume ci torna addosso. Vorrei che per un attimo chi sfoglierà questo libro sognasse i sogni e gli incubi che si fanno tra quelle mura».

volte, le tegole sbriciolate, con Sante Notarnicola a torso nudo sui tetti e i drappelli antisommossa nei reparti. I materassi incendiati dai brigatisti. I pestaggi. Gli omicidi. Le evasioni di Renato Vallanzasca. Le insonnie degli arrestati di Tangentopoli al VI raggio. Dai tempi cupi di allora, sprazzi di luce, pacificazione e dialogo, moltiplicazione dei diritti, buone direzioni, come ieri Luigi Pagano, come oggi Gloria Manzelli. Il portone è in ferro. Apertura elettrica. Da lì ogni giorno entrano una trentina di nuovi arrestati, polvere volata qui in una sola notte, ladri d’auto e spacciatori, marchettari, ubriachi con cattivo carattere, clandestini, pistoleri delle gang, stupratori e strafatti. Passano dall’ufficio matricole e dalle docce. Entrano nel mondo dove tutti i muri sono verdi, verdini, marroni e la luce è sbiancata dai neon. Entrano uomini, diventano detenuti e numeri.

Sei su dieci vengono da un posto qualunque che non è l’Italia, ma ha almeno tre dozzine di nomi, sull’atlante, alla voce Africa, Balcani, Medio Oriente, Cina, Indonesia, Sud America. Sei su dieci rimarranno qui senza processo, in attesa di processo, spediti via senza processo. Sei su dieci ingoieranno psicofarmaci per dormire, per pensare, per arginare il panico. Sei su dieci piangeranno tra la prima e la settima notte. Uno ogni dieci notti si farà del male con il ferro o con il vetro, ingoierà schegge di plastica, si taglierà una vena, cercando di moltiplicare la propria sofferenza e di buttarla finalmente fuori. Uno ogni dieci notti proverà a uccidersi con un pezzo di lenzuolo al collo, con un sacchetto di plastica in testa, con il gas butano delle bombolette nei polmoni. Dieci su dieci, cento su cento, andranno in rewind sulla scena cruciale dell’arresto, del sangue versato, della fuga non riuscita, risalendo le coincidenze del destino che li hanno intrappolati, provando a spostare la vita di un millimetro, quell’appuntamento di un minuto, per inceppare finalmente l’ingranaggio che li ha trascinati qui. Ma non c’è mai modo di anestetizzare il passato, se non tornando a abitare il presente, misurandolo dentro al nuovo spazio, tre passi, un tavolino, il sonno. Se non tornando a immaginare il futuro proprio sulla superficie più ostile, più indifferente, i muri. Eccolo il segreto da svelare. Ecco cosa hanno di tanto speciale queste immagini che vanno dall’opacità alla luccicanza, da un cuore inciso come una promessa alla carta geografica di casa appesa come un appuntamento: parlano tutte del futuro. Letteralmente: lo inquadrano. E lo declinano, grazie al rito di un’icona, nell’amore che verrà, nella vita ancora da rincorrere, nel sesso che brucia e brucerà, nei molti viaggi da intraprendere, compreso l’ultimissimo, magari per devozione o scaramanzia, lungo i sentieri del Corano, evocato in un versetto, o tra i colori sbiaditi di un’Ultima cena, ma con Giuda tagliato via. Perché se il passato non si può più disfare, se il presente è solo il risarcimento della pena, quello che resta da maneggiare è il prossimo inizio. Che sarà pure una illusione per molti, il prossimo fallimento di un sogno, magari altre sofferenze e un ritorno agli scogli del naufragio. Ma intanto è un colore.

IMMAGINI DA NON PERDERE Le immagini nelle pagine sono tratte dal librocatalogo di Davide Ferrario, “Foto da galera” pubblicato da Mazzotta Editore (112 pagine, 25 euro), e sono in mostra, dal 15 dicembre al 26 febbraio, in piazza Gramsci a Cinisello Balsamo (Milano) La rassegna è stata organizzata dal Museo di fotografia contemporanea

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La palla è rotonda, e a volte sgonfia[...]. Basta un tiro alto, e il pallone finisce oltre il muro di cinta. L’autore del tiro allarga le braccia desolato. Gli altri restano mogi come bambini in un cortile, con la palla sequestrata

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49

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È singolare come possa essere pubblica l’esistenza di uno chiuso in gabbia[...]. Si sa anche - basta guardare l’orologio - dov’è adesso il recluso. Nella sua cella, all’aria, nella sua cella, all’aria, nella sua cella. Diciotto ore nella cella, sei all’aria o nel corridoio

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Forse vi fate un’idea sbagliata della galera: di persone che stiano alla catena contando gli anni, e i minuti, che le separano da un ritorno alla vita. Succede anche il contrario: che molti contino il tempo che li separa dal passato

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I detenuti sanno farla breve... Sanno che trovare un orecchio disposto ad ascoltare è difficile, e quando capita bisogna sbrigarsi: tirare fuori dal taschino la storia della propria vita in edizione condensata. Cinque, dieci minuti: dopo, l’orecchio si annoierebbe

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ADRIANO SOFRI, da “Altri Hotel” (Mondadori Editore)

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Incanta i bambini e spaventa gli adulti. Perché è libera, fantasiosa,

antiautoritaria, perché è dentro ogni ragazzino che ascolta la storia. Il libro che l’ha inventata, scritto da Astrid Lindgren per la figlioletta ammalata, è stato pubblicato nel 1945. Nell’anniversario siamo andati a Stoccolma per raccontare il culto che ancora oggi la circonda

Pippi

calzelunghe «D CONCITA DE GREGORIO

STOCCOLMA

o you know Pippi Longstoking?», dicono le copertine gialle esposte in libreria, le locandine al Teatro dell’Opera, le scritte sul fianco delle navi al porto. Ecco, la conoscete? Che peccato se vi manca: cosa vi siete persi. Sareste persone diverse se foste cresciuti con lei: donne e uomini diversi, verrebbe da dire migliori. Sul serio: non è una storia per bambini, questa. È una storia per adulti che si affannano a trovare il modo di costruire un mondo più giusto, più libero, per tutti uguale: uomini e donne, grandi e piccoli, indigeni e ospiti. È una storia per tutti quelli che credono che si possa fare di meglio. Bisogna tornare piccoli per diventare grandi. Ricominciare dalle favole, davvero. È proprio inutile rompersi la testa a studiare le carte per capire il segreto del “modello svedese”. Non serve a niente finanziare commissioni di esperti dell’Unione europea che stiano mesi a produrre diagrammi su quanto sono bravi in questo posto a vivere meglio di noi, anzi meglio di tutti, niente povertà niente conflitti: tanto le tabelle non spiegano. Bisogna prendere un fine settimana libero, invece, e venire a Vimmerby. Trecento chilometri di boschi da Stoccolma, case storte di legno. Migliaia di bambini al parco di Pippi, uno spettacolo. Bimbe con la parrucca di capelli rossi e anche senza, tanto ce li hanno di natura, mezzi nudi col freddo che fa e con le gote rosse, le scarpe troppo grandi, i vestiti sghembi, ragazzini che si issano aiutandosi uno con l’altro a salire in groppa a un cavallo di cartapesta alto due metri, che salgono incertissime scale a pioli e restano lassù, a cavalcioni sul tetto. Pensi ai nostri parchi giochi nei giardini: allo scivolo c’è sempre un adulto che regge suo figlio, stai attento. Non ti sporcare, non ti fare male, lascia passare l’altro bambino. Pensi a quante madri italiane lascerebbero un figlio a cavallo sul tetto di una casa senza rincorrerlo gridandogli scendi subito. La questione è questa. Mentre noi avevamo Pinocchio loro avevano Pippi. Noi abbiamo imparato a tre anni che se dici le bugie ti cresce il naso, se non vai a scuola ti vengono le orecchie di un asino, se ti comporti male ti succedono cose terribili ma è per colpa tua. Colpa, sì: allora ti devi pentire. Devi espiare, essere buono e torni bambino. Buono, composto, pentito uguale bambino. Loro: Pippi Calzelunghe. Che vive da sola, «non ha né mamma né papà, e va bene così perché non c’è nessuno che le dice che deve andare a letto proprio quando sta cominciando a divertirsi». Che mangia sdraiata sul tavolo col piatto sulla sedia e nessuno le spiega che deve stare composta. Che dorme alla rovescia coi piedi sul cuscino «perché preferisce». Che non ha genitori né maestri, nessun adulto non uno straccio di educatore, non un preside, uno psicologo di appoggio. Pippi non va a scuola, vive da sola a Villa Villacolle che sta in piedi per miracolo, a vederla da fuori diresti che è una casa abbandonata. Invece no: dentro ci sta lei che ha nove anni, ci abita con un cavallo e con una scimmia, il signor Nelson: proprio dentro casa, il cavallo e la scimmia. Si cucina da sola, si veste da sola con una calza verde e una gialla, con le scarpe troppo grandi tanto nessuno le dice cosa è «troppo». Pippi che è libera,

In Italia abbiamo Pinocchio. Sappiamo

che se dici le bugie ti cresce il naso, se non vai a scuola ti vengono le orecchie d’asino, se ti comporti male ti succedono cose terribili, ma è colpa tua e poi devi espiare

I magnifici sessant’anni della monella anarchica

IL TELEFILM La foto in alto a sinistra è tratta dal serial tv, diretto da Olle Hellbom e interpretato da Inger Nilsson I disegni delle pagine sono tratti dal libro “Känner du Pippi Langstrump?” edito da Rabén & Sjögren

autosufficiente, indipendente, forte, completamente autonoma, generosa, saggia della saggezza formidabile e assurda che hanno i bambini prima che qualcuno gli spieghi che sbagliano, che così non si fa, la regola è un’altra. Pippi che è ricca perché suo padre marinaio (pirata? Forse) le ha lasciato un forziere di dobloni, è forte da sconfiggere i tori i serpenti i ladri la polizia e i fantasmi in soffitta: i fantasmi li convince, ci parla. Pippi che è bellissima anche con le lentiggini e il naso a patata, le trecce all’insù, mica il caschetto di capelli biondi con la riga. Pippi, che è felice. Poi uno dice: perché in Svezia le donne sono il cinquanta per cento in Parlamento, stanno a casa diciotto mesi quando fanno un figlio. Perché lavorano più degli uomini, non conoscono la disoccupazione e mandano avanti l’economia. Perché le trovi fuori la sera a gruppi di sei anche se è buio pesto e sono alla guida delle aziende, perché la polizia se trova un cliente con una prostituta manda in galera il cliente. Le buone leggi, certo. Il welfare perfetto. Non sarà mica per Pippi. Non solo, di certo: però aiuta. Intanto loro da piccoli hanno avuto quel modello lì, ci sono cresciuti. I danesi la Piccola Fiammiferaia e la fatalità del destino cupo da sopportare com’è, le vesti nere di Andersen. I francesi Asterix il gallico imbattibile e protervo. Noi Pinocchio. Loro Pippi Calzelunghe. Ora Pippi ha sessant’anni. C’è da non crederci, ma è così. Il libro è uscito nel 1945, mentre qui finiva la guerra e le donne stavano a casa a cercare il pane fra le macerie. Le celebrazioni, in Svezia, fanno segnare una leggerissima impennata del mito perpetuo, a cui non servono ricorrenze per rinnovarsi. Un nuovo balletto della Royal Opera, Pippi Langstrump, due settimane in cartellone fra settembre e ottobre, tutto esaurito da mesi. Una speciale edizione del premio annuale a lei dedicato. La ristampa delle edizioni in arabo e in serbocroato, e nelle altre quasi sessanta lingue in cui è tradotto. Per il resto: ogni mattina alle dieci in punto la fila dei passeggini di fronte allo Junibacken aspetta l’apertura della «casa dei giochi» come ogni giorno dell’anno, tutto l’anno. Lo Junibacken è la casa-teatro-parco giochi dei bimbi di Stoccolma. Per chi sa perdersi nelle favole è uno dei posti più belli che ci siano. Lo ha voluto Astrid Lindgren, la scrittrice che ha inventato la favola di Pippi, ma siccome le sembrava esagerato che fosse dedicato so-

SCANDINAVIA IN TV

L’ISOLA DEI GABBIANI Tratto da un romanzo di Astrid Lindgren, l’autrice di Pippi Calzelunghe, il telefilm “Vacanze nell’isola dei gabbiani” raccontava le avventure della famiglia svedese dei Melkersson

KARLSSON SUL TETTO È il telefilm che narra le avventure di un bambino che vive sul tetto di una famiglia scandinava e che riesce a volare grazie a un motore a elica sistemato sulla schiena

EMIL Nata anch’essa da un testo di Astrid Lindgren, la serie ha come protagonista il piccolo Emil da Lonneberga, vivacissimo bimbo svedese con la tendenza a mettersi nei guai

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I SUCCESSI IL LIBRO

IL TELEFILM

IL CARTOON

I FILM

IL RITORNO

Il romanzo della scrittrice svedese Astrid Lindgren viene pubblicato per la prima volta nel 1945. Sarà tradotto in 54 lingue

La famosa serie televisiva, interpretata da Inger Nilsson, fu trasmessa in Italia a partire dal 6 settembre 1970

Pippi diventa un cartone animato nel 1998. I 26 episodi della serie sono seguiti da un lungometraggio che esce nel 1999

La ragazzina svedese finisce diverse volte al cinema. L’ultima volta nel 1988 con “Le nuove avventure di Pippi Calzelunghe”

Gli episodi della storica serie televisiva sono stati restaurati e trasmessi su Disney Channel a partire dal giugno 2004

lo a lei ha voluto che ci fossero dentro tutte le storie, anche tutte le altre. La vecchia signora è morta a 95 anni nel 2002. Nel giardino del parco c’è la sua statua: una vecchietta seduta che sorride. Quando scrisse Pippi era una giovane madre. La figlia Katrin, ammalata di polmonite, voleva che le raccontasse una storia. La polmonite è una faccenda seria a certe latitudini, Cartesio ne morì proprio qui a Stoccolma, quando la regina Cristina lo chiamò a corte a dargli lezioni di filosofia. Così per settimane Astrid raccontò la storia di Pippi a Katrin malata. Quando decise di trascriverla e mandarla a un editore, Bonniers, il più importante di Svezia, naturalmente la rifiutò. Lei non si perse d’animo e qualche anno dopo mandò il racconto ai giurati di un premio: arrivò seconda, della vincitrice nessuno ricorda il nome. Allo Junibacken, casa col tetto spiovente appoggiata sulle rive dell’isola che guarda il palazzo reale, i bambini tolgono la cuffia i paraorecchie i guanti e salgono sul trenino che li porta dentro le fiabe: la voce che racconta è quella di Astrid Lindgren. C’è Emil il terribile, il ragazzino protagonista di un’altra popolare serie della scrittrice: una specie di Pippi maschio, un bimbetto che per divertirsi issa la sorella sul pennone di una bandiera. C’è la figlia del brigante, il drago e il topo gigante, i bambini rim-

piccioliti che entrano in una tazza. Poi c’è Villa Villacolle: ricostruita a grandezza naturale, tutta sghemba, di legno, con la cucina e il bagno minuscolo, il cavallo, la scimmia. Ci sono Tommy e Annika, i ragazzini per bene. Annika, che ha il caschetto di capelli biondi con la divisa da una parte, è il prototipo della bambina beneducata dell’epoca: nella storia sua madre non vuole che frequenti Pippi. Pippi è una pessima compagnia, il suo contrario esatto, la disperazione dei benpensanti del paese, l’anarchia fatta bambina. Ancora oggi in Svezia per dire non essere noiosa si dice: «Non fare Annika». Pippi si chiama Pippilotta Viktoradria Rullgardina Krysmynta Efraimsdotter Långstrump, in italiano Pippinella Tapparella Pesanella Succiamenta. Di sicuro il nome se lo è dato da sola. È bellissima ma non della bellezza convenzionale: ama le sue lentiggini, al tempo si nascondevano sotto la cipria. Vuole diventare un pirata e raggiungere un giorno suo padre, il capitano, scomparso in mare: di certo è approdato in un isola di cannibali ed è diventato il re, gira con la corona in testa e, quando lo troverà, lei sarà principessa. Sua madre è un angelo che la guarda col cannocchiale da un buco nelle nuvole, «sono una bambina fortunatissima, chi altri ha per madre un angelo e per padre il re dei cannibali?». È forte da portare in braccio

In Svezia hanno Pippi Langstrump, che non ha né mamma né papà a dirle cosa deve fare, che non va a scuola, che vive con un cavallo e una scimmia, che è forte, autonoma, saggia della saggezza assurda dei bambini

il suo cavallo ma non è una superwoman, perché è buffa. Fa ridere, incanta. Al principio degli anni Settanta arrivò anche in Italia il serial tv della regista Olle Hellbom (donna, ovvio). Il ritornello della sigla diceva: «Pippi Pippi Pippi, che nome, fa un po’ ridere, ma voi riderete di quello che farò». La ragazzina di quei film, che ebbe un successo planetario, si chiama Inger Nilsson e ha oggi 46 anni: non ha avuto fortuna nel cinema, fa ancora l’attrice di teatro in provincia, ha avuto serie difficoltà economiche: «A volte vorrei che la gente si dimenticasse di me come Pippi e invece tutti credono che io sia lei, vogliono da me cose eccezionali e spiritose. L’unica che avrebbe potuto chiamarmi Pippi era Astrid, ma non l’ha fatto mai: sapeva che non lo ero». Non lo era, Pippi non è un personaggio tv. Non sarebbe mai stata una Lara Croft, non può trasformarsi in un videogioco né in un cartone animato. Pippi bisogna immaginarsela: è un disegno sulle pagine di un libro, sono parole che corrono, Pippi è dentro ogni bambino che ascolta la storia, dentro ogni bambina. Pippi sei tu. Poi hanno scritto centinaia di saggi: il modello svedese della ribellione, il femminismo ante litteram. La prima pietra del pensiero di genere, la pacifista, l’avventuriera, l’antiautoritaria. Certe organizzazioni di genitori e certi educatori l’hanno condannata. «Un

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modello mediocre di subcultura», disse il professor Landquist, all’epoca celebre didatta. I paesi conservatori e le dittature hanno censurato la novella: anarchica, rivoluzionaria, comunista. In effetti Pippi Calzelunghe, che fa da sé e non ha bisogno di nessuno, incanta i bambini e spaventa gli adulti. Ancora oggi, sessant’anni dopo, li spaventa un po’. Non gli svedesi, certo, i cui figli salgono sui tetti. Più a sud, dalle nostre parti. Perché cammina sul filo del circo e va da sola a pulire il camino. Dorme con una scimmia (la scimmia nel verso giusto, coi piedi al posto dei piedi: la scimmia sì che sta composta), per lavarsi i capelli infila la testa in un secchio di acqua gelata, per pulire i pavimenti lega due spazzole ai piedi e ci pattina sopra, spacca la legna con l’ascia cinque ceppi alla volta, invita gli amici a casa a fare il gioco del «si cammina senza toccare il pavimento»: sui tavoli, sulle credenze, attaccati ai lampadari. «Sono una trovacose», dice di sé. Cosa? «Una trovacose. Il mondo è pieno di cose che aspettano di essere trovate. Io faccio questo». Senza paura, con la fortuna degli audaci, la generosità dei puri, l’allegria degli innocenti, la malinconia dei saggi. Trova cose e le regala, così alla fine non è mai sola: è sempre piena di quello che ha trovato e regalato. Dei suoi ricordi, dei suoi progetti: tutte cose che non finiscono mai. Bello, no?

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

i sapori

Natale in tavola

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Di madre lingua francese, irrinunciabile in ogni brindisi, quest’anno è molto apprezzato (più 14 per cento d’import) e piace soprattutto in versione magnum Una bottiglia super da condividere con tanti amici, meglio se a pranzo

CHAMPAGNE Pioggia di bollicine sulle serate di festa LICIA GRANELLO

BRUT NATURE Laurent Perrier Diciture diverse — Pas dosé, Dosage zéro, Brut sauvage — per gli Champagne a cui non viene aggiunto il liqueur d’expédition dopo la sboccatura. L’assenza di zucchero aggiunto richiede uve molto selezionate Il gusto è secco, finissimo

BRUT Perrier Jouet La tipologia più diffusa vanta un minimo residuo zuccherino (fino a 15 grammi/litro, contro i 3 dei Brut Nature), che permette di gustarli sia come aperitivi sia come apripasto, dagli stuzzichini ai primi piatti, fino a carni bianche e pesci

DEMI SEC Veuve Clicquot La concorrenza con il nostrano Moscato d’Asti, compagno ideale di panettone e pasticceria secca, ostacola la diffusione in Italia della versione più morbida (da 33 a 50 grammi/litro di zucchero) dello Champagne, molto apprezzato in Francia

CUVÉE Feuillatte L’assemblaggio delle uve “elette” è dosato in maniera diversa a seconda delle segretissime ricette — cuvée — messe a punto dagli enologi delle singole maisons e perpetuate anno dopo anno. La Cuvée Espéciale è figlia delle migliori annate

U

na bollicina per amica. Alcolica, di madrelingua francese, possibilmente versata da bottiglia in formato super. Da gustare in tutti i brindisi da qui a Capodanno, senza trascurare qualche cena particolarmente preziosa o la perversione gourmand della fetta di mortadella (o di un eccellente prosciutto crudo stagionato) accompagnata da una flute tentatrice. Malgrado il dicembre irrigidito dal freddo e dalle tredicesime magre, lo Champagne resiste impavido in testa alle classifiche golose dei sogni di Natale, vantando addirittura due piccoli primati stagionali: l’importazione, aumentata del 14 per cento, e la preferenza per le versioni magnum. Se a qualcuno, nel mondo, piace grande, agli italiani di più. Infatti, solo gli inglesi, ovvero i più incalliti tracannatori di Champagne al di là della terra-madre Francia, ci superano nella speciale classifica dei consumatori di magnum, dove il rapporto tra volume del vino e della bottiglia risulta ottimale per la sua perfetta evoluzione. Non che il formato tradizionale, con i suoi 75 centilitri di bollicine seducenti, ci dispiaccia, anzi. Abbiamo imparato a berlo “a prescindere”, svincolandolo dalla sua collocazione più tradizionale e terribilmente sbagliata, al termine del pranzo. Momento in cui l’unico Champagne consentito, a meno di chicche straordinarie, è il misconosciuto Demi Sec, delizioso fratello maggiore del nostro Moscato d’Asti (che pure con panettone e biscottini fa la sua bella figura). Una versione “ammorbidita” rispetto ai comuni Brut, da servire con creme, ciambellone e friandise, lasciando Banyuls e Pinot de Charente a contendersi la palma di miglior partner alcolico francese del cioccolato. Da quando Dom Perignon, cantiniere nell’abbazia di Hautvillers, cominciò a fare esperimenti sulla fermentazione in bottiglia (anno di grazia 1679) per trasformare in qualità il guaio del vino a cui le temperature polari del nord della Francia impedivano di completare la fermentazione, l’irresistibile ascesa dello Champagne non ha conosciuto ostacoli. Oggi, se ne producono più di 300 milioni di bottiglie l’anno, rigorosamente all’interno di un largo fazzoletto di campagna a un’ora o poco più di macchina a est di Parigi, dove ogni vigna è uno scrigno e ogni récoltant, che produca in proprio o venda alle varie maisons, un viticoltore da trattare coi guanti bianchi. Riconosciuta la superiorità delle bollicine francesi (anche se chi ha gustato i franciacortini “Anna Maria Clementi” e “Cabochon”, o la trentina “Riserva del Fondatore” sa che in certi casi la distanza è pressoché azzerata), resta la difficoltà di destreggiarsi tra etichette, prezzi, denominazioni. Un debito di conoscenze che l’ingresso nella grande distribuzione, dove le informazioni sono ancora scarse, non ha certo colmato. Insomma, ci è più facile comprarlo – per prezzo e reperibilità – ma i dubbi rimangono: Brut o Millesimato, Rosé o Blanc de Blancs? Non preoccupatevi: dove cade la scelta, funzionerà comunque, grazie alla privilegiata condizione di vino super partes (o quasi), pronto a lasciarsi godere in situazioni (e su piatti) molto diversi tra loro. A voler cavalcare l’onda modaiola, oggi il più cercato insieme al magnum è il Rosé, forte della sua resistenza anche a piatti più impegnativi. Se invece siete di palato delicato, regalatevi un Crémant, che in Italia corrisponde al Satèn: minor pressione, gusto più cremoso e satinato (come da traduzione). Lo stesso che la famiglia Mumm donava agli ospiti con il biglietto da visita a mo’ di etichetta, rimasto intatto fino ad oggi. Di colpo, il vostro Natale diventerà charmant come un cotechino tiepido. E gustati insieme, maiale & champagne, saranno il regalo più goloso della giornata.

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itinerari L’italo-francese Florence Guyot è una giovane, appassionata esperta di Champagne, di cui importa diversi marchi insieme al padre Bernard (nella foto). Vive facendo la spola tra le maisons francesi e i migliori locali italiani

Epernay

Reims

Bere Champagne qui «è come ascoltare Mozart a Salisburgo», dicono i locali, simboleggiando il guanto di sfida con la cara nemica Reims. Intorno alla città, 20mila ettari di vigne e oltre cento chilometri di cantine secolari scavate nella roccia gessosa

Bella e quieta, nei suoi dintorni ospita alcune tra le più celebri maison, aperte a visite e degustazioni Nell’enoteca di fronte alla Cattedrale, capolavoro di arte gotica protetto dall’Unesco, ci si può far personalizzare le etichette delle bottiglie comprate

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

CLOS RAYMI 3 rue Joseph de Venoge Tel. 0033-3-26510058 Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa

HÔTEL CONTINENTAL (con cucina) 93 place Drouet d'Erlon Tel. 0033-3-26403935 Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

LES CÉPAGES 16 rue de la Fauvette Tel. 0033-3-26551693 Chiuso mercoledì, menù da 20 euro

FOCH 37 boulevard Foch Tel. 0033-3-26474822 Chiuso sabato, domenica sera, lunedì, menù da 56 euro

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

LA CAVE À CHAMPAGNE (con cucina) 16 Rue Gambetta Tel. 0033-3-26555070

LES DELICES CHAMPENOISES 2 rue Rockefeller Tel. 0033-3-26473525

MILLESIMATO Dom Perignon

Tanti stili sotto una sola etichetta

Hit parade delle cantine ENZO VIZZARI

E

307 milioni Le bottiglie di Champagne prodotte ogni anno

8,2 milioni Le bottiglie importate in Italia

1 milione Le bottiglie che saranno bevute durante le feste

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Le imprese dello Champagne

ntrereste in un’enoteca dicendo «vorrei acquistare una bottiglia di vino», e basta? No, evidentemente, tanti essendo i vini presenti sul mercato, bianchi o rossi, dolci, freschi e leggeri, d’annata, beverini o strutturati. Sono molti, invece, coloro che chiedono genericamente uno «spumante», uno «Champagne», delle «bollicine» come ormai si dice, non rendendosi conto che in un grande Champagne si possono trovare più affinità con un Barolo che con un frizzantino fabbricato in autoclave. Limitandosi allo Champagne, la molteplicità degli stili, degli uvaggi (cioè del mix fra le tre varietà di uve principali che danno origine ai vini), dei modi di vinificazione e dei tempi di affinamento ne rende incomparabilmente ampia la gamma e ne fa un vino per tutti i gusti e per tutte le circostanze, che se ben conosciuto non si può non amare. Ma per conoscerlo bisogna berne parecchio. Solo così si comprende che non c’è “lo” Champagne ma tanti Champagne, che in comune hanno praticamente solo il nome e l’origine, e che ogni palato può avere il “suo” Champagne. Alla base della piramide, i “brut non millesimé”, cioè senza annata in etichetta perché ricavati dall’assemblaggio di vini di annate diverse, in genere i più semplici di ogni produttore, ma con differenze sensibili anche di prezzo dall’uno all’altro: vale per tutti l’esempio del Krug Grande Cuvée, che pur non millesimato, costa più dei grandi millesimati Dom Pérignon e Belle Epoque Perrier Jouët; etichette che si distinguono in questa categoria, Charles Heidsieck mise en cave, Roederer Brut Premier, Selosse Extra brut. “Millesimé” sono gli Champagne prodotti solo con le uve raccolte in annate particolarmente favorevoli e devono essere venduti dopo tre anni dalla messa in bottiglia, anche se i migliori — per esempio Billecart Salmon, Bollinger Grande Année, Pol Roger, Gosset — fanno almeno cinque anni in bottiglia. Categoria a sé i “blanc de blancs”, ovvero i vini ottenuti soltanto da chardonnay. Possono essere millesimati o non millesimati e si distinguono per la leggerezza, la finezza, la complessità e l’eleganza, che crescono col passare degli anni. Su tutti Salon e Krug Clos du Mesnil, eccellenti Taittinger Comtes de Champagne e Bruno Paillard Blanc de Blancs. I “blanc de noirs” sono meno conosciuti e sono ricavati soltanto da uve di pinot nero e pinot meunier, non competono in finezza con i “blanc de blancs” ma nelle loro migliori espressioni sono grandi vini, adatti ad accompagnare piatti importanti, anche di carne, certo da non offrire all’aperitivo. Un’etichetta non ha rivali, il Bollinger Vieilles Vignes Françaises, ma è ottimo il Jacquesson Blanc de Noirs d’Ay. Sorvolando sui rosé, sui dolci e sui gioielli dei “dégorgement tardif” (per intenderci ancora Bollinger RD, Jacquesson DT, Dom Pérignon Oenothèque), categoria che ciascuna meriterebbe un capitolo a sé, resta la fascia più nobile, quella dove lo Champagne si dimostra irraggiungibile, le “cuvées de prestige” e quintessenza dello stile di ogni maison, elaborato sempre con le migliori uve dei “grand cru”, con le vigne più vecchie a rendimento ridottissimo, vinificate con procedure ricercate e peculiari di ogni marca. Non ci sono regole né sugli uvaggi, né sui tempi di vinificazione o di stoccaggio, ciascuno è libero di cercare la “qualità massima” come meglio crede. Fatica improba stilare una classifica, ma certo chi assaggia un datato Krug Collection, un Salon, un Laurent Perrier Grand Siècle, un Pol Roger Sir Winston Churchill, un Dom Pérignon Oenothèque, un Grande Dame Veuve Clicquot, un Cristal Roederer, un Jacquesson Signature, non li dimentica più.

Il millesimo è l’anno di produzione e millesimati sono gli Champagne fatti con uve di una sola, eccellente vendemmia (e quindi solo negli anni enologicamente benedetti). Prima della messa in commercio, devono trascorrere almeno tre anni

BLANC DE BLANCS Ruinart Bianco dei Bianchi, perché realizzato da sole uve Chardonnay, è delicato, fine, elegante. Freschezza e acidità ne fanno la bottiglia giusta per l’aperitivo, ma anche per accompagnare ostriche, crostacei oppure sformati di verdure

BLANC DE NOIRS

Pommery Una produzione ridotta per lo Champagne più “maschile”, ricco di corpo e di sentori di frutti rossi, composto da sole uve a bacca nera, ovvero Pinot Nero e Pinot Meunier (spesso solo dalla prima). Perfetto per carni rosse e formaggi stagionati

ROSÉ Jacquart Rosato e suadente, è un vero Champagne a tutto pasto, soprattutto con i piatti più moderni e innovativi. Si ottiene vinificando in rosso il Pinot nero e poi assemblandolo alle altre uve, o lasciando brevemente le bucce a contatto del mosto in fermentazione

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le tendenze Regali hi-tech

Non solo suoni e voci da ascoltare ma anche immagini e filmati da guardare: l’ultima generazione di lettori portatili, mette nelle nostre tasche l’intero universo dell’intrattenimento. Ecco gli oggetti di culto che, grazie a un mix sapiente di tecnologia e design, invaderanno nelle prossime settimane le case degli italiani

PADRONI DEL TELECOMANDO Schermo Lcd da 8 pollici, possibilità di vedere film in dvd, di ascoltare musica e di visualizzare foto e persino un telecomando per gestire tutto a distanza. È il lettore Philips Pet 810, in commercio a circa 308 euro

CINQUE IN UNO Il Vibe 500 della Packard Bell è un lettore Mp3 e video, un visualizzatore di foto, un registratore vocale e un disco fisso portatile da 20 Gb. In appena 16 millimetri di spessore e 150 grammi di peso. Tra gli optional c’è anche l’antenna per ascoltare la radio in Fm. Lo si trova in commercio a 279 euro

video & music Il fascino dello show in palma di mano ERNESTO ASSANTE

I Repubblica Nazionale 54 18/12/2005

PER UN’AUTO DA FILM Il Vhd 9401 è il nuovissimo car system della Panasonic. Il monitor ad alta risoluzione, orientabile e regolabile, può essere da 7 o da 9 pollici. Costa fra gli 800 e i 900 euro

PICCOLO MA GRANDE Video o foto, audio o file, il Thomson Lyra 2862 è una vera e propria mediateca portatile. E può essere usato per videoregistrare, sul disco fisso da 20 Gb, direttamente dalla tv o da una telecamera. Il prezzo si aggira intorno ai 450 euro

file Mp3? Roba vecchia, pronta a finire nel dimenticatoio dei “dead media”. L’oggetto digitale più cool del momento è un solo numero più avanti, Mp4, anzi, per essere precisi Mpeg-4, un formato che promette di rivoluzionare il mondo delle immagini così come l’Mp3 ha rivoluzionato il mondo della musica. L’Mp4 permette, infatti, di ridurre le dimensioni dei video senza che perdano in qualità, consentendo la trasmissione di videoclip, film, programmi tv o riprese girate nelle feste comandate attraverso Internet, oppure il loro trasferimento su cd e dvd o, meglio ancora, l’inserimento nella memoria di un lettore portatile di ultima generazione, una di quelle macchinette che sono in grado di mostrare immagini oltre che far ascoltare suoni. I video player sono l’oggetto del desiderio di questo Natale. A trasformare quella che sembrava fino a poco fa una roba da maniaci e smanettoni in una vera e propria moda è stata come al solito la Apple che ha messo in commercio il nuovo iPod che, a differenza dei precedenti, può anche memorizzare e riprodurre immagini in movimento. In pochissimo tempo centinaia di migliaia di persone hanno iniziato a scaricare videoclip e programmi tv dalla Rete. I numeri parlano chiaro: dal sito di iTunes sono stati prelevati in meno di due mesi oltre tre milioni di video: in maggioranza videoclip musicali, ma anche programmi televisivi di successo, come Desperate Housewives e Lost (frutto di un accordo con la Disney). Ancora niente cinema sul fronte Apple (anche se si possono scaricare alcuni “corti” della Pixar), ma per gli appassionati del microschermo ci sono molte altre possibilità, prima fra tutte quella di trasformare in formato compresso i dvd che si hanno in casa, rendendoli “tascabili”. Se la Apple ha fatto diventare di moda il video portatile, sono

in realtà moltissime le aziende che negli ultimi anni si sono mosse nel settore, sfornando una lunga serie di lettori, grandi, medi, piccoli e piccolissimi, che consentono la visione di video e film, oltre ad essere dei lettori Mp3, a poter funzionare come hard disk esterni per i computer, a poter raccogliere e memorizzare fotografie, e ad avere, in molti casi, anche la radio. Sono dei “personal mediaplayer”, pronti a essere sistemati sotto al televisore in salotto, così come nel taschino della giacca. La maggior parte di queste macchinette offre infatti la possibilità di collegamenti con il televisore, per vedere film, video e programmi in qualità migliore. Il “target” però non è quello di chi vuole vedere “bene” le immagini, bensì quello di chi vuole mettere in tasca il cinema, la tv e la videomusica. Nella battaglia in corso per “l’ordigno fine di mondo”, l’oggetto che tutti vorranno avere in tasca, i lettori audio-video di ultima generazione fanno ampiamente concorrenza ai telefoni cellulari umts, che hanno le funzioni video aggiunte a quelle telefoniche ma hanno memorie meno capienti e schermi più piccini. I telefoni hanno a tutt’oggi un mercato più ampio, ma i “media player” sono certamente in grandissima ascesa. Ogni azienda impegnata sul fronte dell’intrattenimento digitale ha infatti sfornato il suo videolettore tascabile. E chi non vuole passare il tempo a scaricare film dalla rete può optare per qualcosa di più ingombrante e scomodo, ma con schermi più ampi e una qualità d’immagine decisamente migliore di quella dei lettori Mp4. I prezzi dei lettori dvd portatili, che fino a qualche tempo erano talmente alti da rendere i “portable dvd players” inavvicinabili per il grande pubblico, hanno subito un drastico taglio e oggi è possibile trovare anche lettori con un prezzo che si avvicina ai cento euro, molto meno, dunque, del prezzo medio di un “media player” Mp4.

IL MITO CAMBIA PELLE L’ultimo nato di casa Apple si chiama iPod video. La versione da 30 Gb (che contiene 7.500 brani musicali, o 12.500 foto o 75 ore di video) costa 329 euro, quella da 60 Gb, con capacità doppia, si acquista a 449 euro

VISIONE ZEN Si chiama appunto Zen Vision, il nuovo gioiello della Creative. Ha un hard disk da 30 Gb (15mila canzoni, 120 ore di video). Con il suo microfono si possono anche registrare appunti vocali. Il prezzo: 549 euro

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SVAGO TOTALE Il lettore dvd portatile della Sony MV700-HR, con schermo da 7 pollici, è compatibile con tutti i formati video e audio. Ma soprattutto è dotato di una staffa per il montaggio sul poggiatesta del sedile dell’auto. Costa 499 euro

LA SCATOLA MAGICA Musicbox pesa appena 50 grammi. Grazie a una convenzione con le case discografiche è l’unico in Italia a permettere di scaricare legalmente i videoclip sul disco da 1 Gb. Costa 149 euro

L’attrazione per i gadget e il rischio di isolarsi dalla realtà

POTENZA IN MINIATURA Lo spessore del lettore multimediale Samsung Yepp Yh-999 è di appena due centimetri. Ma l’hard disk da 20 Gb consente di portarsi appresso migliaia di brani in Mp3 ma anche 80 ore di video o 100mila foto, visualizzabili sul display da 3,5 pollici. Sui 310 euro

Io, l’iPod e i rumori del mondo LINUS

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A

VIDEOREGISTRATORE NEW WAVE L’Archos Av420 è un vero e proprio videoregistratore portatile. Nella memoria da 20 Gb si possono salvare fino 80 ore di trasmissioni provenienti dal televisore o da qualsiasi altra sorgente video. Costa sui 440 euro

ll’ultima maratona di New munque un cervello da far funzioYork c’erano quarantamila nare. Ed è quello che dico ancora partecipanti. Almeno cinadesso a chi mi conosce, quando quemila correvano con le cuffiette andiamo sull’argomento: bisogna dell’iPod. Io no. Ma questo non vuol porsi un limite, non prendere come dire che lo trovi disdicevole: sempliun obbligo tutto quanto. Le possibicemente ero con amici, e preferisco lità del telefonino sono fantastiche, correre insieme agli amici e, mentre ma è fantastico soprattutto avere la si corre, chiacchierare e scherzare libertà di poterlo spegnere. Sentirci se il fiato ci regge. Quando corro da la musica può servire, ma guardarci solo, però, infilo le cuffiette anch’io. un film è assurdo. È il tempo in cui milioni di persoL’unica salvezza è la razionalità: ne in tutto il mondo, giovani sopratmi sono alzato in piedi e ho applaututto, tendono sempre più a isolarsi dito quando ho letto che la Mazda dagli altri ascoltando ognuno la sua invitava i propri dipendenti ad anmusica preferita. Non lo trovo gradare al lavoro a piedi. Questo ha un vissimo, a patto che questa sia una senso, molto forte, e non solo simseconda scelta. Ovbolico: serve anche vero, per prima coa fuggire da quello sa bisogna cercare che le multinaziodi fare altro, coinnali dell’elettronivolgere gli altri, fare ca vogliono. Ovvecose insieme, ro trasformarci in chiacchierare, diconsumatori senza scutere e magari razionalità, pronti ascoltare musica a correre appresso insieme: quando a ogni diavoleria inquesto non è possinovativa senza bile, allora ha un chiederci se ci serve senso tirare fuori oppure no. La lenl’oggettino stipato tezza, in questi casi, di canzoni e sentirpremia: e lentasele per conto promente si ragiona prio. Per quanto mi molto di più. riguarda, se camL’iPod per necesIL PERSONAGGIO mino per strada sità, insomma. E da Nella foto qui sopra, preferisco sentire i utilizzare solo in Linus, direttore artistico rumori del mondo: quel caso. Un mondi Radio Deejay quando sono in do che si riempie macchina cerco di sempre di più di ascoltare la radio. persone che vagano per strada isoMa capisco i miei simili affascinalate dal mondo e immerse nelle loro ti dalla tecnologia. Pochi giorni fa cuffiette o nel loro parlottare al tealla radio è arrivata l’e mail di un lefonino sembra un film di Cronenascoltatore che sosteneva di essere berg. Alcune discoteche hanno inin volo in quel momento sul Tibet, e trodotto il ballo collettivo silenzioche ci stava ascoltando via Internet. so, ognuno con le proprie cuffiette: Gli abbiamo risposto che non gli lo fanno per il problema del rumore credevamo, e allora lui ci ha subito all’esterno, ma vi assicuro che visto spedito alcune foto scattate dall’aeda fuori sembra uno spettacolo di reo, con la cima delle montagne. folli. Abbiamo scoperto che la Lufthansa Morale: nessuna nostalgia per il ti offre un servizio simile su alcuni passato, nessuna visione da incubo voli. Ovvio che poi uno rimane folper il futuro. Ma l’uso della testa, da gorato da queste possibilità. parte di tutti. Detto questo, l’iPod e Per la musica da ascoltare nelle gli aggeggi simili, sono diabolici: per cuffiette, per il proliferare di tutti gli un giovane c’è anche un fascino oggetti elettronici da tasca che ti traestetico superiore, per uno meno sformano in una specie di cyborg, a giovane, c’è la possibilità di archime sembra che si stiano avverando viare in una library tutta la più grangli scenari che da ragazzo leggevo de musica della propria vita. Cioè, è nei libri di fantascienza dell’epoca. bello. Ma se ci sono amici con cui E anche allora pensavo: magari ficorrere insieme, è più bello chiacnirà così, ma le persone avranno cochierare, ridere e scherzare.

MEDIA CENTER DA PASSEGGIO Musica, video e foto a volontà, grazie a un disco fisso da 40 Gb. Ma l’iRiver Pmp-140, che è dotato di un’uscita video incorporata, può essere usato anche per vedere i film su un comune televisore. Costa circa 570 euro

A SPASSO CON I DVD Il lettore portatile di Lg Dp-8821 permette di vedere dvd dovunque ci si trovi. È compatibile con i formati di compressione video divx ma anche con i più comuni standard audio. Il prezzo si aggira intorno ai 290 euro

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l’incontro

Ha vinto un Nobel per la medicina, ha frugato tra i misteri del dna, ha reso migliore il futuro di tutti noi arricchendo di speranze la lotta al cancro. Adesso, a quasi 92 anni, è pronto per un doloroso addio. “Sto preparando il trasloco, lascio l’Italia per sempre: non mi dividerò più tra l’America e qui, d’ora in poi la mia unica casa sarà la California”. E da Lugano, con le valigie pronte, ripercorre le tappe di una vita ricca di avventura e di passione

Grandi vecchi

Renato Dulbecco

Repubblica Nazionale 56 18/12/2005

S

re, per una delusione, per un sogno, per una carriera. Ma può succedere che un giorno sia la vita a chiedercelo. Dulbecco adesso si è accomodato sul divano, la schiena rimane diritta, gli occhi sono ancora limpidi e allegri, ma i pantaloni non riescono a nascondere la magrezza delle gambe. Dice: «L’età conta, eccome se conta. Divento vecchio, quando faccio due piani di scale mi sento più stanco di un anno fa. Il viaggio in aereo dagli Stati Uniti a Lugano, dove mi è sempre piaciuto vivere tre, quattro mesi l’anno, è divenuto pesante, mi ci vuole una settimana per riprendere le forze. Ho detto basta anche per questo. La fine della vita verrà, non ci posso fare niente. L’idea della morte non mi preoccupa. A me interessa soltanto la vita e, finché ce l’ho, la adopero. So che non avremo mai l’immortalità e dico: per fortuna. L’unica immortalità che si meriterebbe di possedere è quella giovanile. Ma siccome ci è negata questa gioia non vedo perché dovremmo vivere per l’eternità da vecchi, quando il fisico e il cervello non funzionano più. Meglio l’addio». Qui, nel silenzio di un non luogo, di una non città, di un non paese, in una grande stanza dove regna l’immobilità delle situazioni sospese, la vita gli sfila di-

La fine verrà, ma l’idea della morte non mi preoccupa

A me interessa la vita finché ce l’ho e la uso. So che non avremo mai l’immortalità e dico: “Che fortuna”

FOTO GRAZIE NERI

LUGANO i può annunciare un addio anche così, con una compostezza che sarebbe più adatta a un commiato quotidiano. Come se si dicesse alla famiglia riunita in cucina per colazione, infilandosi la manica del cappotto in equilibrio sul filo della porta, «ciao a tutti, ci vediamo stasera». Parole che nemmeno più ci accorgiamo di pronunciare perché le ripetiamo ogni giorno, da tanto tempo, sempre uguali. Forse, per recidere l’emozione di un saluto senza ritorno, bisognerebbe essere il John Wayne del Grinta. Oppure uno scienziato purissimo e, solo in apparenza glaciale, come Renato Dulbecco. Uno che ha vinto il Nobel per la medicina, che ha migliorato la nostra vita e il futuro dei nostri figli, che ci ha aggiunto una speranza nella lotta alla malattia che più fa paura, il cancro, e ha acceso una luce nella penombra della nostra conoscenza, frugando tra i misteri del dna e sezionando il genoma, cioè l’insieme dei geni di un essere qualunque, sia esso un virus o un uomo. Nella sua bella e luminosa casa di Lugano Dulbecco sembra fragile e incerto, chiuso dentro la giacca secca di taglio americano, la cravatta stretta e di nodo piccolo in cima al suo azzurro senza personalità, ma dietro le lenti tonde degli occhiali ha uno sguardo curioso e buono, lo sguardo di un investigatore matematico puntato dritto su di me. Un Harry Potter di quasi 92 anni che mi dice: «La prego, non mi faccia parlare di filosofia, non l’ho mai amata. La filosofia è soltanto immaginazione, in essa non c’è nulla di obiettivo». Sarà un ossimoro, eppure Lugano, con il suo lago così triste d’inverno, è un luogo perfetto per questi addii asciutti. «Stiamo preparando il trasloco. Lascio l’Italia e l’Europa. Per sempre. Non mi dividerò più tra l’America e qui, d’ora in poi la mia unica casa diventerà la California. Mi spiace, ma ho deciso». L’appartamento del residence Bristol

di via Clemente Maraini ha infatti l’aria di un posto che sta per essere riconsegnato. Questione di ore. Non un velo di polvere sui tavoli di cristallo e sul cubo della tv, non un oggetto in posa stonata, non un mobile distratto dalle sue geometrie. Da dietro la parete sottile di un soppalco filtra appena il rumore ovattato di una persona che compie ordinari piccoli gesti di una vicina partenza. È Maureen, la moglie scozzese di Dulbecco. Ha 24 anni meno di lui e muscoli più allenati: «Facciamo lunghe passeggiate assieme. Lei è molto comprensiva, quando le dico torniamo indietro che non ce la faccio più finge di essere stanca e mi dice “stavo per proportelo io”. Un tesoro». Maureen e Renato tra loro parlano inglese. Stanno insieme da 42 anni, hanno una figlia, Fiona, che fa la cardiologa in un ospedale di San Francisco. Lui era — ed è — più timido di una tartaruga, eppure ha lo humour non so quanto inconsapevole di chi ha ormai consumato tutti gli imbarazzi possibili: «Ho amato sempre in modo limitato, in occasioni speciali. Come si dice? Ogni lasciata è persa...? Bene, non è mai stato il mio caso. È stata Maureen a conquistare me, io non mi accorgevo di nulla. Ci siamo frequentati per anni prima di capire che c’era qualcosa tra noi, ma oggi posso dire che è andata molto meglio di quanto avrei potuto sperare». Renato Dulbecco è uno dei più straordinari scienziati italiani, ha lavorato con Rita Levi Montalcini e con Umberto Veronesi, ha combattuto per l’Italia nella seconda guerra mondiale, è stato partigiano nelle montagne di Sommariva Perno e membro del Cln di Torino, è un uomo che il mondo non finisce più di ringraziare, ma al quale l’Italia non ha saputo volere bene fino in fondo. Nel dicembre del 1975, proprio mentre a Stoccolma ritirava il Nobel per la medicina, Roma gli revocava la cittadinanza. Perché lui voleva fare l’americano. Da allora è stato semplicemente un americano che ha lavorato anche con l’Italia. Niente di più. Adesso non dovrà più dividersi, resterà al Salk Institute di La Jolla. Il suo cielo. «Vede — mi dice — senza l’America non sarei mai diventato ciò che sono. Oggi non mi domando nemmeno più se sono italiano o americano. Avverto però le differenze. Ho votato Bush, Kerry non mi convinceva. Certo, dopo i dubbi sull’intervento in Iraq, gli errori e le bugie della sua amministrazione, mi sono pentito. Ma gli Stati Uniti restano un paese autenticamente democratico, con una democrazia che nasce dal basso perché fondata sul diritto di uguaglianza che gli abitanti, siano bianchi, neri o gialli, si trasmettono l’uno con l’altro. Per me, invece, non sono paesi democratici né la Cina né la Francia. L’Italia è diventato un posto complicato del quale non capisco più nulla e di cui non so valutare il grado di democrazia, posso dire di essere perlomeno sospettoso sull’aria che tira da voi». Di solito si parte o si resta per un amo-

nanzi. La prima immagine è quella di Catanzaro, la città in cui è nato nel ‘14: «Mio padre era ligure, di Imperia, ingegnere del genio civile, un esperto di cemento armato, fu chiamato in Calabria dopo il terremoto». Genova e Torino: «Ancora dietro a papà, che si trovò impiegato in una fabbrica di proiettili. A Torino presi la laurea in medicina nel ‘36, discutendo con Giuseppe Levi una tesi di anatomia patologica. Ricordo Torino come una città simpatica». La guerra: «Fui richiamato come ufficiale medico, il mio reggimento stava a Sanremo. Ci spedirono in Russia, fronte del Don, io ero a capo del servizio sanitario. Tra le mie braccia posso dire che ho visto morire decine di ragazzi, sono tornati a casa solo il venti per cento di noi. Arrivavano in condizioni disperate, spesso fatti a pezzi, sangue ovunque, pance squarciate, ferite orribili. Qualcuno mormorava tra le lacrime, “non rivedrò più i miei figli”, e io gli dicevo “ti opereremo subito, ce la farai”, ma sapevo che non c’era proprio niente da fare. Una mattina sono caduto sul ghiaccio, mi sono rotto una spalla. E mi sono salvato». Il nazismo: «Credo fosse l’inverno del ‘41, ero su un treno che attraversava la Polonia, appena fuori Varsavia il convoglio si fermò nei pressi di un groviglio di binari. Noi soldati scendemmo, vidi un gruppo di persone vestite di nero con una macchia gialla sulla schiena che stavano lavorando sulla ferrovia. Non sapevo nulla, chiesi a un soldato tedesco, mi rispose ridendo: sono ebrei, quando hanno finito qui kaputt. Quel giorno cambiò la mia vita, decisi che non avrei più avuto nulla a che fare con il regime fascista. Una volta rientrato in Italia sono diventato il medico dei partigiani che combattevano sulle montagne di Cuneo». L’impegno politico e la ricerca: «A Torino entrai nel partito dei lavoratori cristiani portato da Giacomo Mottura, diventai membro del Cln, ma compresi subito che la politica non era il mio mestiere. A me interessava la ricerca sui geni. La intendevo e l’ho sempre intesa come l’opportunità di giocare attorno a un grande mistero, una cosa affascinante e divertente. Nel ‘47 lasciai l’Italia per l’università di Bloomigton, nell’Indiana. Mi chiamò Salvatore Luria. Cominciai a studiare nei fagi, i virus batteriofagi, i meccanismi cellulari che riparano il Dna quando è danneggiato da radiazioni». Un giorno la moglie di un amico e collega si ammalò di tumore al seno. Morì. Era il 1960. Da allora Dulbecco si è dedicato quasi esclusivamente alla battaglia contro il cancro. Ancora sui geni, sulle staminali, là dove il male si manifesta per colpire a tradimento. Un percorso compiuto in silenzio che lo portò prima al Nobel — con David Baltimore e Howard Temin — e nell’86 a impegnare la comunità scientifica mondiale nel progetto Genoma con un intervento alla conferenza di Cold Spring Harbor che suscitò le perplessità della maggioranza di medici e scienziati. «Alcuni pensarono fossi impazzito. Oggi tutti mi chiedono: scon-

figgeremo il cancro? La mia risposta è: dipende. La verità risiede nelle cellule staminali, ma su di esse sappiamo ancora troppo poco. Quando avremo la conoscenza saremo vicini alla vittoria, ma la strada della conoscenza è lunghissima, in alcuni campi infinita». Il gioco di Renato Dulbecco è destinato a continuare, come vuole lui, senza aloni romantici, senza filosofia: «Io sono uno scienziato di base. C’è un problema, io cerco una soluzione, e se la trovo non mi preoccupo della sua applicazione. È un compito che spetterà ad altri. Quando sono in un laboratorio penso soltanto che sto lavorando per la scienza, non per l’uomo. Se poi qualcuno mi fa notare che il mio possibile contributo è rivolto anche al bene dell’umanità, ne sono ben felice». Dulbecco legge soltanto libri scientifici, non va mai al cinema perché se la storia è bella ne viene letteralmente rapito e la cosa gli mette l’ansia. Suona il pianoforte, soprattutto Bach — «raffinato e poliedrico» —, pochissimo Mozart — «troppo monotono». Il suo mito è Arturo Benedetti Michelangeli. Come Samuel Beckett crede di essere poco portato per la felicità. Piange a tutte le feste e a tutte le opere di Puccini: «Soprattutto alla Tosca, lacrime inarrestabili e tanta vergogna di fronte agli sguardi stupefatti dei vicini». Da ragazzo era tifoso del Genoa, oggi passa ore davanti al televisore per il tennis di Agassi e Federer, ma soprattutto per quello delle donne: «Bellissime e eleganti. Sembrano volare sulla terra rossa». Si alza. È un po’ lento ma anche lui elegante. Si avvicina alla finestra e guarda il lago che pare cucinare la nebbia. Dice: «Sa che cosa desidero fare più di tutto? Leggere e studiare, stare con mia moglie e con mia figlia. Non ho più conti in sospeso con nessuno». Neanche con dio. «Non sono credente. Da bambino sono stato educato nell’ambito della Chiesa cattolica, ma quando sono cresciuto mi sono separato da essa come da qualunque altra religione». La scienza non ha dio. Lui mi corregge: «La scienza ha delle regole. Ma sono le regole della natura e dell’uomo, non della Chiesa».

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DARIO CRESTO-DINA