IL ROSSO & IL NERO - Artelab

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francese di inizio Ottocento offerto da Stendhal ne “Il rosso e il nero” è indimenticabile. ... Stendhal, pseudonimo di Henry Beyle, nasce a Grenoble nel 1783 da ...
IL ROSSO & IL NERO di Paolo Manazza il rosso “Bisogna che la Francia abbia due partiti –disse il marchese La Mole- ma non soltanto di nome. Due partiti ben chiari, ben distinti. Sappiamo chi si deve schiacciare. Da una parte i giornalisti, gli elettori, in una parola: l’opinione, la giovinezza e tutti quanti l’ammirano. Mentre essa si stordisce al rumore delle sue vane parole, noi abbiamo il vantaggio certo di consumare il bilancio”. Lo spaccato della società francese di inizio Ottocento offerto da Stendhal ne “Il rosso e il nero” è indimenticabile. Straordinario. Non solo per lo sguardo rapace che il principe indiscusso del romanzo getta sui vizi e le virtù della sua epoca. Stendhal, come tutti i veri artisti, va oltre. Cristallizza i tratti comuni di un mondo appena nato e destinato a durare al di là dell‟esistenza stessa dell‟autore. “Tra cinquant’anni non vi saranno più in Europa che presidenti di repubbliche. Non un re. E con queste due lettere -R e E- se ne vanno anche i preti e i nobili. Non vedo più se non dei candidati che fanno la corte a delle maggioranze infangate”. L‟intellettuale disilluso e sagace, alla veneranda età di 46 anni, costruisce un racconto in presa diretta, a lui contemporaneo. La storia di Julien Sorel comincia nel 1815 e la prima edizione del libro è del 1831. Il romanzo passò quasi del tutto inosservato. Cinquant‟anni dopo prese le forme di un capolavoro. Oggi è tra i paradigmi assoluti della narrativa di tutti i tempi. In una lettera a Balzac del 1830 l‟autore de “Il rosso e il nero” scrisse: “Penso che non sarà letto avanti il 1880”. Dando prova di quanto il suo sguardo fosse profetico e la sua lucida analisi troppo avanti per la sua epoca. L’ANIMA DI STENDHAL Stendhal, pseudonimo di Henry Beyle, nasce a Grenoble nel 1783 da famiglia borghese. Perde la madre all‟età di sette anni e cresce in un rapporto conflittuale con il padre, magistrato di provincia, la collerica zia e lo spiccato provincialismo dell‟ambiente che lo circonda. A sedici anni va a Parigi, aiutato dal nonno materno lo stimato medico Gagnon. Nel 1800 corre in Italia al seguito dell‟armata napoleonica. Anche allora, come nei nostri anni Settanta, i giovani si fanno irretire dai sogni idealistici e romantici. Ufficiale sino al 1814, Henry fa parte dell‟amministrazione imperiale e viaggia in Italia, Germania, Austria e Russia. Alla caduta di Napoleone sceglie di fermarsi a Milano, che lo aveva folgorato sin dal primo incontro (città “de la beauté parfaite”). E qui è inevitabile il rammarico per il confronto tra la Milano d‟allora e quella odierna. Frequenta assiduamente la Scala, che è il tempio della musica, ma anche il luogo d'incontro dell'intellighentia milanese. I palchi del celebre teatro si erano trasformati in salotti culturali. Conduce una vita da dandy e intellettuale. Nel 1821 cade in depressione per la delusione amorosa causata da Matilde Viscontini-Dembowski, come molti di noi in gioventù per aver incontrato ragazze intelligenti e affascinanti, ben diverse dai tipetti telegenici d‟oggi. Avendo sollevato i sospetti della polizia austriaca, nel giugno del 1822 è costretto a lasciare Milano per tornare Parigi. Sperperata l'eredità paterna, Stendhal deve provvedere a vivere esercitando il mestiere di scrittore. Frequenta i più celebri salotti e conduce una vita sentimentale intensa e tormentata. Scrive alcuni libri e cura la cronaca musicale e pittorica su “Le Journal de Paris”. A quarantatre anni diventa romanziere. Alla fine del 1830 esce il suo capolavoro “Le Rouge et le Noir”. Prima di morire, nel 1842, scriverà ancora diversi romanzi tra cui il più celebre è “La Certosa di Parma” del 1838.

L’IDEA DELLA PACIFICAZIONE E GLI ANNI SETTANTA Ho voluto dare un assaggio dell‟attualità incredibile de “Il rosso e il nero” e tracciare una breve sintesi della vita di Stendhal perché tutti possano capire per quali vie ci sia venuto in mente di organizzare una mostra d‟arte contemporanea come omaggio a Stendhal e a Milano. Ma soprattutto come piattaforma critica per proporre una rilettura trasversale dalla Milano anni Settanta sino a quella del 2008. L‟idea di questa mostra di pittura è arrivata, sia a me che ad Alessandro Visca, attraverso un lungo e metodico confronto di filosofia politica. E quasi come il materializzarsi di un‟idea di riappacificazione. Da alcuni anni capitava di trovarci a parlare su quanto il nostro “sentire” -un tempo agli antipodi- fosse oggi così simile e prossimo. Lui, frequentatore di circoli di estrema destra nel corso degli anni Settanta ed io che

ho trascorso l‟adolescenza nella sinistra extraparlamentare, occupando i primi centri sociali milanesi dal Leoncavallo a Santa Marta sino a Corso Lodi 90 nel 1975. Dopo i primi accenni di reciproco stupore ci capitava di perderci non solo sulla comunanza di interessi e valori, ma anche sullo spessore delle nostre contrapposte e giovanili esperienze. Gli anni Settanta sono stati per noi, ma credo anche per la maggior parte dei nostri compagni e camerati, un‟immensa palestra di studi, sviluppo del pensiero, creatività e formazione. Chi identifica tout court quegli anni con la violenza è, oltre che ignorante, in cattiva fede. Certo, gli entusiasmi giovanili -come le esplosioni idealistiche nel personaggio stendhaliano- sono il cuore del nostro bagaglio culturale. Come Napoleone per Julien Sorel, anche per me e Alessandro il “rosso e il nero” sono stati il motore di alcuni errori. Ma soprattutto di un tempo vissuto nella ricerca politica, culturale ed esistenziale. Lo spiega il mio amico quando paragona gli interventi dei giovani d‟oggi nelle trasmissioni spazzatura a quelli nelle assemblee dei nostri tempi. Che fosse di destra o di sinistra, se allora qualcuno si alzava a parlare doveva calibrare bene le sue parole e il ragionamento. Uscite come quelle televisive odierne non erano permesse e la scemenza esibita veniva sommersa da fischi e sberleffi. Insomma ci si incontrava e scontrava ma non per conquistare il mondo. Per trasformarlo. E a pensarci bene questa differenza non è certo un dettaglio ma un‟enormità. Forse è per questo che negli anni successivi a quel decennio abbiamo lentamente e reciprocamente imparato a distinguere il lato umano dell‟impegno da quello del colore politico di appartenenza. La mia personale vicenda di illuminazione su questo aspetto è per intero debitrice alla studio della filosofia. Erano gli anni in cui divoravamo tutto ciò che di teorico aveva a che fare con il marxismo: dal compagno Friedrich Engels sino Rosa Luxembourg per arrivare al grande e tragico Louis Althussier, passando per le magiche intuizioni di Max Horkheimer, Theodor Adorno e il precursore Walter Benjamin. E ancora, dopo, divoravamo gli scritti e le lezioni antropologiche di Claude Lévi-Strauss, la formidabile psichiatria esplorativa di Jacques Lacan (che allora circolava nelle copie dei suoi seminari universitari) e la fondamentale riscoperta dell‟episteme di Michel Foucault nell‟indagine sull‟origine e la gestione del potere. Poi, nei corsi universitari da Mario dal Pra sino a Carlo Sini, cominciammo a incontrare la vera radice del pensiero: da Platone a Martin Heidegger. Ma se devo essere sincero, a costo di sminuire l‟enfasi, quello che veramente riuscì a liberare il mio sguardo fu l‟incontro con l‟empirismo inglese. Fu straordinario leggere le pagine del “Trattato sulla natura umana” di Davide Hume o quelle introduttive del “Leviatano” di Thomas Hobbes per comprendere di colpo che la natura umana si muove, prende una direzione, delibera e si interroga a prescindere dalle ideologie. Ciò che la governa è molto più semplice e rozzo, ma essenzialmente vero. E‟ stata questa la mia “vera rivoluzione”. Leggere e rileggere il pedissequo elenco che Hobbes compila nel VI capitolo del “Leviatano”, riguardo l‟analisi di ciò “muove” l‟uomo: dallo sforzo, all‟appetito, all‟avversione, amore, odio, gioia, spiacevolezza, offesa, sensualità, pena e afflizione, piaceri della mente, speranza, disperazione, timore, coraggio, ira, confidenza, diffidenza, indignazione, benevolenza, bramosia, ambizione, valore, liberalità, miseria, affezione, lussuria, passione, gelosia, vendetta, curiosità, superstizione, panico, ammirazione, vana gloria, prostrazione, vergona, imprudenza, pietà, crudeltà, emulazione, invidia, deliberazione e volontà. Ero un adolescente che finalmente riusciva a vedere il mondo reale. “L‟intera somma dei desideri, delle avversioni, delle speranze e dei timori, che si protraggono fino a quando la cosa non viene fatta, oppure si pensa sia impossibile, è quel che chiamiamo deliberazione”. E “un continuo successo nell‟ottenere quelle cose che volta a volta si desiderano è ciò che gli uomini chiamano felicità, voglio dire la felicità di questa vita. Infatti, finchè viviamo qui, non c‟è cosa migliore come la perpetua tranquillità della mente, poiché la vita in sé non è che movimento e non può essere mai senza desiderio, né senza timore, non più di quanto possa essere senza il senso”. Mi ero liberato dagli occhiali dell‟ideologia, anche se ancora non potevo saperlo. LA SINISTRA E LA CORRUZIONE Furono gli anni Ottanta -vissuti sempre a Milano- quelli di letture intense fuori dalle logiche e dagli schemi precedenti. Mentre i socialisti gozzovigliavano e tutti bevevano noi studiavamo. Da Cartesio a Hegel, Spinoza, l‟amatissimo Kant, Husserl sino alla fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty e decine di pensatori, molti dei quali ancora sconosciuti. Arrivammo così alla scoperta dell‟arte. Ci fece bene incontrare il mondo dell‟estetica. Mentre gli altri si riempivano le tasche noi scoprivamo tesori ineguagliabili sotto il profilo del valore. La storia di quegli anni fu quella dell‟incontro con la pittura. E con gli artisti. Come tutte le vere passioni all‟inizio sono timide, ma poi crescono circolarmente come il movimento finale di una grande sinfonia. Fu in quegli anni che decisi di studiare l‟economia dell‟arte e di scrivere su tale argomento. Inizialmente fu la matrice dialettica e marxiana a indirizzarmi. Oscar Wilde aveva scritto: “Sempre: dove c‟è un‟opera d‟arte ci sarà un pubblico. E dove c‟è un pubblico ci sarà un mercato”. Come avevo letto in Benjamin, c‟è un‟inedita relazione -in un mondo reificato dalle merci- con l‟unica merce irriproducibile. In grado di scombinare la distanza tra il valore d‟uso e quello di scambio. In fondo nell‟epoca dei “vitelli d‟oro”, in cui tutti (di destra o sinistra) puntavano ai soldi, era più facile incollare qualcuno a leggere un articolo che parlasse di miliardi piuttosto che di magiche pennellate. Se non che nel bel mezzo del racconto intervenivano episodi con l‟idea di scompigliare le carte. Per cercare di aprire gli sguardi su nuovi orizzonti del senso. Un po‟ come ci ha insegnato l‟epistemologia di Gaston

Bachelard che deputa alle rotture la capacità di produrre nuove conoscenze. Ma gli anni Ottanta a Milano, e anche quelli Novanta, sono stati -per me ma credo anche per Visca- gli anni in cui abbiamo compreso sul campo il dis-valore dell‟ideologia. In questo periodo della mia vita m‟è capitato di incontrare persone eccellenti di destra, come Alessandro che considero un intellettuale raffinatissimo, e personaggi equivoci e maldestri appartenenti alla cosiddetta sinistra critica. Logico pensare si tratti di una pura banalità accaduta a tutti. Ma per mio conto non credo lo sia. Vorrei compiere una breve analisi di questi incontri, per chiarire meglio il senso di quanto avessero ragione gli antichi empiristi inglesi. Di solito i trentenni e quarantenni d‟oggi d‟estrema sinistra sono impegnati nel sociale con sacrifici quotidiani. La loro personalità si distingue per due ragioni. La prima è che sono convinti di possedere l‟assoluta verità riguardo la direzione che il mondo e la società devono prendere. La seconda è che, tolto l‟impegno a ore nel sociale, la loro vita privata è all‟insegna dell‟esatto contrario di ciò che predicano. M‟è capitato di incontrare una ragazza intelligentissima, arroccata su posizioni estreme (tra i verdi e rifondazione) e convinta che il mondo debba essere spazzato con forza dagli egoismi, dalla corruzione, dagli stupidi e dalla destra. Se non che, nei trascorsi della vita quotidiana, è riuscita a farmi sorridere per l‟enormità di suoi comportamenti di insana immoralità e insensatezza. Sin qui basterebbe scorrere il campionario hobbessiano delle passioni umane per chiudere il cerchio. Ma la vera gravità di questi, diffusi, comportamenti tra il popolo della sinistra attuale sta nell‟auto-giustificazionismo. Tutti criticano a dismisura e giudicano il mondo. Pochi o nessuno lo fa con se stesso. L‟eredità culturale degli anni Settanta si è trasformata in un mostro. Mentre allora il tentativo di trasformare la società coinvolgeva anche il privato oggi, nel proprio vissuto, la porta di fuga dal senso di realtà e di auto-critica arriva puntualmente dalla cultura. Che nella sua degenerazione coincide spesso con l‟amico o l‟analista corrotti. Seduttivamente preparati a giustificare gesti assurdi. In nome e per conto dei fantasmi inconsci che dobbiamo combattere, tra i quali il fatto che “tutti ci giudicano mentre noi subiamo”. E’ inconcepibile che la pseudo-cultura si adoperi per cancellare ai rivoluzionari le loro proprie rivoluzioni. Che almeno questi falsi compagni- smettano di giudicare il mondo. Se non desiderano essere giudicati! C‟è un brano d‟un celebre scritto di Immanuel Kant che vale la pena rileggere. Se non altro per stanare questi figli minori della sinistra -sciolta nel cielo delle proprie passioni- e riabilitare le luci dell‟analisi e della vera cultura come mezzo per comprendere e agire sul mondo e su se stessi: “Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto! Questo è il motto dell‟Illuminismo. La pigrizia e la viltà sono le cause perché un così grande numero di uomini, dopo che la natura li ha da un pezzo dichiarati liberi da direzione straniera, restano tuttavia volentieri per tutta la vita minorenni; e perché ad altri riesce così facile il dichiararsene i tutori. E‟ così comodo essere minorenne. Se io ho un libro che ha dell‟intelletto per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che giudica del regime per me e così via, io non ho più alcuno sforzo da fare. Se pago, non ho più bisogno di pensare: c‟è chi se ne prende la briga per me. E se la maggior parte dell‟umanità (tra cui tutto il bel sesso) tenga la liberazione non solo per incomoda, ma anche pericolosa, è cura dei sopraddetti tutori, i quali si sono benignamente assunti la sovrintendenza”. E più avanti: “Una rivoluzione potrà produrre la fine di un dispotismo personale e d‟una oppressione cupida e dispotica; ma nuovi pregiudizi serviranno, come agli antichi, a dirigere ciecamente la moltitudine che non pensa”. Ecco questa è ora la mia nuova corrente politica. Io cerco di pensarmi e pensare. Decidete voi se questo sia uno sforzo e un tentativo di destra o di sinistra. L’INCONTRO CON L’ARTE E LA PITTURA Ora finalmente cambiamo pagina! Lo dovevo a molti questa rilettura critica di ciò che è stato. Degli incontri straordinari e di quelli da dimenticare. Oggi vogliamo uscire allo scoperto. Per una Milano alla Stendhal e un‟Italia alla riscossa. La nostra parola d‟ordine è una soltanto: pittura! Di questo vogliamo occuparci. Per la sola ragione che ci riempie, ci rilassa, ci rende felici. E dunque moltiplica intorno a noi pensieri e sorrisi. Chi lo desidera può affiancarci. Gli altri devono capire che è finita un‟epoca. Senza rimpianti o rancori. Vadano per la loro strada. Essa non è più la nostra! Dopo che la storia romanzata di Julien Sorel ha fornito lo spunto per analizzare gli anni Settanta con le gioie e i tormenti di due colori così diversi, ora è stupefacente rileggere il “rosso” e il “nero” con occhi puliti e raggianti. Essi altro non sono che tonalità cromatiche. E‟ incredibile! Solo chi ama la pittura o la esercita senz‟altro scopo che se stessa può capire questo particolare entusiasmo che ci anima. Sì è vero dietro il mondo dell‟arte si agita ormai un sottobosco di persone interessate più all‟economia che alle tavolozze. Ma ciò non farà che rinforzare la nostra nuova gioventù. Dave Hickey, docente all‟Università del Nevada a Las Vegas, è uno dei critici d‟arte più famosi negli Stati Uniti. In una conferenza tenuta nel corso dell‟edizione 2007 della fiera londinese “Frieze” ha detto: “Ci sono persone là fuori che sono più interessate all‟arte che al denaro. L‟unica cosa sbagliata è che ci sono molti artisti a cui interessa più il denaro che l‟arte. Questo è un problema. Ma consideriamo i benefici. Non c‟è mai stata un‟occasione migliore per attrarre l‟attenzione su se stessi comportandosi onestamente, correttamente e meticolosamente. Se volete essere un‟icona di virtù, questo è il momento giusto perché sicuramente vi farete notare. Se vi comportate bene, se vi comportate correttamente, se create dell‟arte che sarà importante anche tra 200 anni, tutto ciò che avrete da perdere è solo del denaro”. E polemicamente ha aggiunto: “Cosa farete quando avrete fatto molti soldi? Vi comprerete una barca? Acquisterete un appartamento a Parigi? Gesù

finitela! A meno che non abbiate una grave dipendenza dalle droghe non vedo nessuna ragione per aver bisogno di tanti soldi”. Per poi concludere con quest‟immagine apocalittica che noi sottoscriviamo per intero: “Questo potrebbe veramente cambiare le cose. E il mondo dell'arte che oggi conosciamo scomparirà. Immaginandomi come questo momento sia esaltante ora, non mi immagino come sarà esaltante, un giorno. Il collasso. E' veramente qualcosa da non vedere l'ora che avvenga. Boom! Migliaia di Icaro che si schiantano al suolo. Naturalmente le stanze dove vendete la vostra anima saranno chiuse”. E‟ così. Sarà così. Arriverà presto il tempo per chiudere le case che tollerano la prostituzione dei propri ideali. Dipingere non ha altro scopo che dipingere. E il rosso o il nero funzionano solo se si inseriscono in un contesto pittorico esteticamente funzionale. Un giorno ho chiamato un contadino di fronte a un lavoro che stavo terminando. Era un dipinto molto grande, coloratissimo e astratto. Gli ho chiesto se gli piaceva. Lui, dopo qualche attimo, ha esclamato convinto: “Sì”. “Ahh sì!? -ho risposto- E perché mai??”. Mi ha guardato per nulla intimorito e ha aggiunto: “Perché non mi disturba”. Il pittore non ha nient‟altro che i colori della sua tavolozza e i volumi con cui li stende sulla tela. Chi cerca altro in un quadro è un imbecille. Se qualcuno vuole raccontare una storia può scrivere un libro. Ci provi. Ma non dipinga. Un primo criterio di analisi e di giudizio per i quadri deve essere questo: limitarsi a sentire ciò che è dipinto. Ecco perché credo ci siano delle forti assonanza tra questa piccola e sconosciuta esperienza italiana, che inizia, è ciò che è accaduto più di cinquantanni or sono a New York. L’ILLUMINAZIONE DI DE KOONING “Nell‟autunno del 1952 non solo Sidney Janis ma anche gli amici più cari di de Kooning sapevano che le “Women” erano dipinti estremamente rischiosi. Era evidente che il pubblico non li avrebbe apprezzati, anche se la cosa non aveva grossa importanza”. Scrivono così a pagina 412 Mark Stevens e Annalyn Swan nella biografia di “de Kooning, l‟uomo, l‟artista”, pubblicata nel 2006 da Johan & Levi Editore. Un libro da divorare. “Dal pubblico ci si poteva aspettare un errore di giudizio sull‟arte di avanguardia. Più preoccupante, invece, era la reazione di critici, pittori e altri addetti ai lavori. Clement Greenberg, appassionato sostenitore delle opere in bianco e nero di de Kooning, ribadiva l‟idea che il suo ritorno al figurativismo fosse un grosso errore. Ma l‟ultima parola sulla nuova svolta figurativa dell‟artista spettava davvero a Greenberg e ai suoi seguaci? In quello stesso periodo i due critici che più ammiravano de Kooning, Hess e Rosenberg, scrissero entrambi uno straordinario peana in suo onore (…) The American Action Painters di Harold Rosenberg –il suo primo saggio autorevole come critico d‟arte- fu pubblicato nel dicembre del 1952 (…) L‟action painter non era oppresso dal peso del passato e non apparteneva a nessuna scuola, intesa nel senso tradizionale: „Ciò che i pittori d‟azione pensano in comune è rappresentato solo da quello che fanno separatamente‟. Questi artisti individualisti non erano mossi dalla volontà di reagire in senso estetico all‟arte precedente, come Greenberg avrebbe potuto sostenere, e neppure dal desiderio d‟ispirazione marxista di cambiare la società. Per citare le parole di Rosenberg, „Le Grandi Opere del Passato e la Bella Vita del Futuro non valevano nulla‟. E ancora: „Con poche importanti eccezioni, la maggior parte degli artisti di questa avanguardia è giunta alle opere attuali passando per una scissione interiore. Non sono giovani pittori ma piuttosto pittori rinati. L‟uomo de Kooning avrà più di quarant‟anni. L‟artista circa sette. La diagonale di una grave crisi lo separa dal suo passato personale e artistico. Molti pittori erano marxisti (sindacati del WPA, associazioni di artisti). Avevano cercato di dipingere la Società. Altri avevano tentato di dipingere l‟Arte (Cubismo, Postimpressionismo), il che è quasi la stessa cosa. Il grande momento è venuto quando hanno deciso di dipingere… semplicemente Dipingere. Il gesto sulla tela è stato un gesto di liberazione dai Valori politici, estetici, morali‟. La nuova pittura, lungi dall‟essere una rappresentazione convenzionale del mondo, incarnava un evento o un‟azione che esprimevano „la stessa sostanza metafisica dell‟esistenza dell‟artista. La nuova pittura -dice Rosenberg- ha annullato ogni differenza tra vita e arte‟: Essa era „indistinguibile dalla biografia dell‟artista (…) Ciò che conta è sempre la rivelazione contenuta nell‟atto. Si deve dare per scontato che nell‟effetto finale l‟immagine -contenga o meno qualcosa di figurato- sarà una tensione‟. I nuovi pittori rifuggendo dalla „prostrazione intellettuale e morale‟ del dopoguerra, non ambivano a migliorare il mondo. Al contrario, essi speravano di creare un mondo”. Ecco perché noi pensiamo di trovarci in sintonia con la vita e il pensiero di de Kooning. Non esiste la figurazione. Non esiste l‟astratto. Esiste solo la pittura. “De Kooning riteneva che il termine „astratto‟ appartenesse alle persone che disquisivano di arte, che erano più interessate alla filosofia, alla politica e alla storia dell‟arte che non alla pittura. E‟ il parlare, scriveva, che „ha messo l‟Arte nella pittura. L‟unica cosa positiva dell‟arte è che è una parola‟. Da un lato c‟era la misteriosa, inafferrabile qualità di qualsiasi grande opera, quale che fosse il suo contenuto, una qualità allusa da termini vaghi come „lirico‟ o „sublime‟. Era ciò che de Kooning definiva il „nulla‟ di un quadro, „la parte che non era raffigurata ma che era lì per via degli elementi che vi erano dipinti‟. L‟artista apprezzava questa qualità ovunque si trovasse”. Per l‟artista olandese il vero problema “non era tanto cosa si poteva dipingere ma piuttosto cosa non si poteva dipingere”. La sua opinione di allora è straordinariamente vicina alla nostra di oggi: “La visione secondo cui la natura è caotica e l‟artista vi mette ordine mi sembra completamente assurda”, scriveva. “Tutto quello che possiamo sperare è di mettere ordine in noi stessi. Quando un uomo ara il suo campo al momento giusto, fa semplicemente questo (…). Per quanto possiamo comprendere l‟universo, ammesso

che possa essere compreso, le nostre azioni devono contenere un desiderio di ordine; dal punto di vista dell‟universo, però, devono apparire davvero bizzarre”. PER LA PITTURA CONTEMPORANEA ITALIANA Per tutto ciò abbiamo organizzato questa singolare esposizione. Ossia, sostanzialmente, per nulla se non dipingere. Chi lo ha compreso subito sono stati i due galleristi Emanuela e Silvano Lodi, squisiti intellettuali. Non a caso curatori esperti di splendide esposizioni d‟arte antica. Tra tutte le gallerie italiane, d‟arte moderna e contemporanea, loro hanno immediatamente colto il senso di questa strana e innovativa esperienza. Concedendo gli spazi, producendo il catalogo e promuovendo a loro spese questa mostra. Forse non è un caso che, in Italia, questa nuova sensibilità e attenzione arrivi da una Galleria rinomata in tutto il mondo per la pittura italiana del Seicento, che da sempre espone. C‟è tra noi un legame sottile con l‟Italia antica patria dell‟arte e di grandi mecenati. Un Paese del passato che ancora oggi tutti ricordano e amano. Oggi vogliamo dare un piccolo contributo verso la direzione di una via nuova dell‟arte. Avremmo voluto coinvolgere tutti. Dai critici scomparsi come l‟amato Maurizio Sciaccaluga e il suo amico Alessandro Riva (messo fuori gioco da problemi personali), sino al grande Vittorio Sgarbi -spesso (purtroppo) più concentrato sulla sua immagine che su quella d‟arte- e Achille Bonito Oliva -raffinato esteta autoreferenziale- o ancora Marco Meneguzzo, Rachele Ferrario fino alle nuove leve come Ivan Quaroni, Matteo Brega o Chiara Canali. Anche gli artisti presenti seguono più una direzione di consonanza amichevole che di scelta. Avrebbero potuto essercene anche altri (tra i quali citiamo, soltanto, Marco Cingolani e Vanni Cuoghi). Certo siamo orgogliosi per la presenza di personalità conosciute dell‟arte italiana, come Renata Boero o Giovanni Frangi, Luca Pignatelli, Davide Nido, Federico Guida, Leonida De Filippi, Jonathan Guaitamacchi, Enzo Esposito, Roberto Coda Zabetta, Barbara Nahmad, Alessandro Spadari e Dani Vescovi. A questi si sono aggiunti nomi di artisti in crescita di notorietà per le loro ricerche estetiche, come Alessandro Busci, Rosalinda Celentano, Raffaele Cioffi, Francesca Crocetti, Luciana Gallo, Alberto Martini e Michelangelo jr. O nomi come Alessandro Verdi rimasto, anche per la sua storia personale, a margine del circuito ufficiale, ma grandissimo pittore. Infine l‟amico Mimmo Di Marzio che, come me, oltre a scrivere d‟arte è stato folgorato in questi anni dall‟esercizio della pittura. E che ho convinto, non senza fatica, a mescolarsi con noi. Tutti quanti abbiamo cercato di presentare dei lavori con varie e personalissime interpretazioni dei colori rosso e nero e delle mescolanze o assonanze con gli altri valori timbrici della tavolozza. Nel segno, come dicevamo, della sola pittura. Lontani dalle classificazioni che negli ultimi anni hanno marchiato a sangue l‟arte contemporanea italiana. Nessuna figurazione. Nessun astrattismo. Solo pittura. E la scommessa di cimentarsi con i rossi e neri. Che, dal lontano trascorso ideologico degli anni Settanta, sono finalmente tornati ad essere quello che sono sempre stati. Due colori. Incredibile ma vero.