istituzioni di diritto romano

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4 di 19. Tratteremo, quindi, in questo secondo modulo, di: 1) mores maiorum; 2) leges regiae; 3) XII. Tavole. Nel terzo modulo, parleremo di: 4) senatus consulta;  ...
INSEGNAMENTO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO LEZIONE II

“LE FONTI DI DIRITTO ROMANO (A)” PROF. FRANCESCO M. LUCREZI

Istituzioni di Diritto Romano

Lezione II

Indice 1

Le fonti del diritto romano-------------------------------------------------------------------------------- 3 1.1

2

Fonti di produzione e di cognizione --------------------------------------------------------------- 3

Origini dello ius -------------------------------------------------------------------------------------------- 5 2.1 2.2

Ius e fas------------------------------------------------------------------------------------------------ 5 Lo Ius civile Romanorum--------------------------------------------------------------------------- 5

3

Mores maiorum -------------------------------------------------------------------------------------------- 7

4

Leges regiae ------------------------------------------------------------------------------------------------ 8 4.1 4.2 4.3

5

Il ruolo del rex---------------------------------------------------------------------------------------- 8 La legge di Numa Pompilo sul parricidium ------------------------------------------------------ 9 La legge di Tullio Ostilio sulla perduellio ------------------------------------------------------ 10

Le XII Tavole -------------------------------------------------------------------------------------------- 12 5.1 5.2 5.3 5.4

La nascita della res publica ----------------------------------------------------------------------- 12 L’emanazione della Lex duòdecim Tabularum ------------------------------------------------ 14 I contenuti delle XII Tavole ---------------------------------------------------------------------- 15 Il successivo ampliamento dei contenuti-------------------------------------------------------- 18

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Le fonti del diritto romano

1.1 Fonti di produzione e di cognizione Col termine ‘fonti’ del diritto si suole indicare tutte le realtà, di qualsiasi natura, a cui va collegata la nascita e la conoscenza di un qualche fenomeno giuridico. Essendo destinato a regolamentare i rapporti umani, il diritto, ovviamente, non chiede soltanto di essere creato, prodotto, ma anche di essere conosciuto, divulgato. Si distinguono, perciò, due tipi diversi di fonti, rispettivamente chiamate ‘di produzione’ e ‘di cognizione’. Per ‘fonti di produzione’ si intendono tutti quei fenomeni che determinano la genesi di una qualche regola o norma giuridica. Possono essere fonti di produzione la legge imposta da un sovrano o votata da un Parlamento, così come un contratto privato, un testamento ecc. Sono considerate ‘fonti di cognizione’, invece, quelle attraverso cui si viene a conoscenza, in qualsiasi modo, di una realtà giuridica: possono assolvere a questa funzione, per esempio, un racconto orale, un articolo di giornale, un notiziario televisivo, un documento ecc. Va detto che non sempre tale differenza risulta chiaramente discernibile, e che spesso una medesima fonte può contemporaneamente risultare tanto di produzione quanto di cognizione: il testo scritto di un negozio di locazione, per esempio, può essere considerata fonte di produzione, dal momento che produce gli effetti giuridici voluti, o fonte di cognizione, in considerazione del fatto che permette di conoscere l’esistenza e i contenuti del negozio. Nel passare in rassegna le principali fonti del diritto romano, faremo riferimento essenzialmente alle cd. fonti di produzione, cercando, volta per volta, di notare le caratteristiche e il ruolo svolto da quelle che possono essere considerate fonti di cognizione. Chiariamo che quello delle fonti del diritto non è un numerus clausus o un elenco definito. La classificazione da noi seguita cerca di tenere conto, da una parte, da quelle che appaiono le logiche proprie dei giuristi romani e, dall’altra, della concezione di ‘fonti del diritto’ affinata nel corso dell’età moderna e contemporanea.

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Tratteremo, quindi, in questo secondo modulo, di: 1) mores maiorum; 2) leges regiae; 3) XII Tavole. Nel terzo modulo, parleremo di: 4) senatus consulta; 5) leges publicae. Nel quarto modulo, di: 5) responsa prudentium; 6) editto del pretore. Nel quinto, di: 7) constitutiones prìncipum; 8) letteratura giuridica tardoantica; 9) leggi romano-barbariche. Nel sesto modulo, infine, saranno oggetto di esposizione: 10) codificazioni; 11) Corpus iuris civilis.

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2 Origini dello ius 2.1 Ius e fas Grande discordia percorre le discipline antichistiche sia riguardo all’etimologia della parola ius (semanticamente apparentata, ma non coincidente col moderno concetto di ‘diritto’), sia alla sua primitiva accezione e applicazione (da taluni circoscritta unicamente alle primitive costumanze familiari [mores maiorum], da altri intesa in senso più esteso), sia al controverso rapporto tra ius e fas (ossia tra la sfera dell’obbligo civile e dell’imperativo sacro, e quindi tra atto trasgressivo di una regola meramente umana [contra ius, iniuria, iniustum…] e gesto sacrilego e irreligioso [nefas, nefastum…]).

2.2 Lo Ius civile Romanorum Certamente, la tradizione romana andò consolidando, nei secoli, vari significati di ius, fra cui, particolarmente risalente, quello di un comune ‘dover essere’, patrimonio e vincolo della comunità cittadina (ius proprium civitatis) e qualificato, quindi, ius civile Romanorum, in quanto parametro di condotta proprio dei cives Romani (o anche, secondo le Istituzioni di Giustiniano [1.2.2], ius Quiritium [dacché “Romani… a Quirino Quirites appellantur”, “i Romani sono chiamati Quiriti da Quirino [Romolo]”: locuzione, quest’ultima - ricorrente varie volte nelle fonti, p. es. per indicare la proprietà sulle cose [dominium ex iure Quiritium] o la sua rivendicazione nelle antiche formule processuali delle legis actiones [“aio hanc rem meam esse ex iure Quiritium”: “affermo che questa cosa è mia secondo il diritto dei Quiriti”] ecc. –, volta in realtà, secondo alcuni, a indicare il più risalente nucleo fondante dello ius civile o, secondo altri, qualificante una prima arcaica forma di ordinamento giuridico romano, distinto dallo ius civile). La ricostruzione dei contenuti di tale antico ius civile, essendo affidata unicamente all’interpretazione di fonti posteriori, talvolta di molti secoli, resta certamente controversa. Tutto lascia pensare, però, che tale espressione non andasse a indicare, nell’età arcaica – come neanche in Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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quelle successive -, le regole preposte al funzionamento delle istituzioni pubbliche (re, sacerdozi, curie, Senato ecc.), considerate afferenti al diverso mondo della statualità e dell’architettura costituzionale, bensì unicamente l’insieme dei diritti e dei doveri dei singoli cives, non nei confronti della collettività e delle pubbliche autorità, ma nei rapporti privati degli uni verso gli altri.

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3 Mores maiorum Le ipotesi ricostruttive relative alla fase pre-civica della storia degli abitanti dell’antico Lazio tendono a collegare le prime forme di diritto a quelli che sarebbero stati poi definiti mores maiorum, le “usanze degli antenati”, ovverosia quei comportamenti e costumi, osservati nell’ambito dei primitivi agglomerati pre-cittadini (familiae, gentes, tribus) e trasmessi di generazione in generazione, i quali traevano direttamente dalla propria vetustà, e dalla prolungata reiterazione nell’ambito della comunità, la propria autorevolezza. Non è possibile, naturalmente, definire quando un determinato comportamento, costantemente rispettato nel corso dei secoli, sia stato considerato e rispettato come obbligatorio in quanto ‘giuridico’, né è facile distinguere quali costumi avìti siano stati fatti rientrare nell’ambito dei mores maiorum. Certamente molte usanze, quantunque oggetto di lunga e diffusa osservanza (per esempio, nel campo dell’alimentazione, dell’abbigliamento, dei costumi domestici ecc.), non sono mai state considerate mores maiorum, in quanto la loro perpetuazione è stata considerata funzionale principalmente alla sopravvivenza e al benessere del singolo individuo o di un ristretto gruppo familiare, e non già ai più estesi interessi della collettività. Ad assurgere a livello di mores maiorum, presumibilmente, sono stati dunque esclusivamente quei comportamenti, coinvolgenti una pluralità di gruppi familiari - o di gentes o tribus (per esempio, matrimonio, rapporti interpersonali, riti funebri, contenimento della violenza ecc.), la cui osservanza è stata ritenuta utile, nel tempo, a interessi collettivi superiori e preminenti, trascendenti il mero interesse del singolo (individuo o gruppo). L’antichità dei mores forniva ad essi, oltre a un carattere di coattività, anche un alone di sacralità, come sacra era considerata la memoria dei maiores, gli antenati da cui i mores stessi discendevano. Furono proprio i mores maiorum, probabilmente, a dare fondamento a quello che sarebbe poi diventato il più antico nucleo del diritto cittadino, il cd. ius civile Romanorum. Il quale, al pari dei mores maiorum, avrebbe anch’esso avuto una spiccata connotazione religiosa. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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4 Leges regiae 4.1 Il ruolo del rex La prima fase storica della città-stato, com’è, noto, ebbe la forma istituzionale di un regnum, ossia di una comunità di patres familias ruotante intorno alla sacra figura di un rex, garante dell’unità della civitas, della correttezza dei rapporti interfamiliari e interlocutore degli dèi. La competenza del rex nella definizione e nella persecuzione degli atti considerati offensivi rispetto agli dèi e alla comunità trovò, secondo la tradizione, un importante momento di formalizzazione nell’emanazione delle leges regiae, i comandi – pronunciati dal re e vincolanti per l’intera comunità – che sarebbero poi confluiti in una raccolta scritta, detta, dal suo curatore, ius Papirianum. Pur essendo alquanto ardua un’esatta ricostruzione di tali arcaiche norme (per le quali, in molti casi, probabilmente gli annalisti retrodatarono successive statuizioni, per ammantare regole posteriori dell’autorevolezza scaturente dalla vetustà e dall’origine regale), e restando, in particolare, non chiaro il ruolo esercitato nella loro emanazione dal rex (ritenuto, da alcuni studiosi, circoscritto a una funzione meramente ‘dichiarativa’, con un re ‘portavoce’ ufficiale della comunità dei patres, da altri reputato invece effettiva potestà iussiva e impositiva), la loro esistenza è sicuramente storica, e certamente diverse di esse ebbero carattere penale, in quanto irroganti sanzioni a carico dei trasgressori, violatori della pax deorum. E’ da presumersi che, in genere, i re non avrebbero ‘creato’ le leggi, ma, coadiuvati dai pontefici, avrebbero dato solenne formulazione a forme di divieti già riconosciute dalla coscienza collettiva nelle età precedenti, giustificando nuove modalità di repressione, pubbliche e obbligatorie, applicate in forza della lex. Tra le varie leggi menzionate dalla tradizione, meritano particolare attenzione due norme, molto discusse dalla dottrina, attribuite a Numa Pompilio e a Tullio Ostilio, a cui si collega la formalizzazione di due crimina di grande rilevanza nella storia, non solo arcaica, di Roma, quali il parricidium e la perduellio.

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4.2 La legge di Numa Pompilo sul parricidium Secondo la testimonianza del grammatico Festo (s.v. Parrici[di], L. 247), a Numa, come già ricordato, risalirebbe la prima sanzione del cd. parricidium (da non confondere con l’uccisione del ‘proprio’ padre, su cui torneremo innanzi), che sarebbe stata formulata attraverso un’enigmatica espressione (ancora avvolta da spesse nebbie di oscurità, nonostante le numerose ricerche, continuamente alimentate proprio da tale enigmaticità): Si quis hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas esto. I dubbi, da parte della dottrina, riguardano soprattutto il tipo di sanzione indicato dalla formula “paricidas esto” (sia considerato paricidas? sia ‘paricidatus’, ossia venga parimenti ucciso? intervenga un paricidas, incaricato di ‘pareggiare’ la sua colpa, uccidendolo? sia consegnato ai parici [i futuri quaestores parricidii], che applicheranno la “legge del pareggio”?…), e lo status della persona la cui uccisione viene punita, indicato dalle parole hominem liberum: esse sembrerebbero apparentemente indicare l’uomo libero (in contrapposizione allo schiavo), ma c’è chi ha pensato che si riferissero all’uomo indemnatus (ossia non colpito da sacertas - essendo, come vedremo, l’homo sacer - ossia privato della protezione degli dèi - liberamente sopprimibile da chiunque - o da regolare condanna popolare - ritenendo che Festo abbia erroneamente retrodatato il principo decemvirale che impediva di giustiziare il cittadino senza un pronunciamento del populus), o al pater familias (in contrapposizione ai soggetti in potestate); oppure, ancora, al plebeo (in opposizione al patrizio) o al soggetto estraneo alla gens (in opposizione al gentilis). Scartando tali due ultime ipotesi, che ci sembrano storicamente inverosimili (perché mai punire solo l’uccisione del plebeo o dell’estraneo alla gens?), restano le altre tre teorie interpretative (uccisione dell’uomo libero, dell’uomo indemnatus o del pater familias). E’ stato giustamente notato che intendere homo liber nel senso di uomo libero dalla schiavitù urterebbe contro un ostacolo difficilmente sormontabile, ovverosia la ridottissima presenza, se non la totale inesistenza del fenomeno della schiavità nella Roma di Numa Pompilio. Quanto all’ipotesi che liber vada inteso come indemnatus, nel senso di non sacer, essa non ci pare suffragata da riscontri testuali (alquanto abbondanti, invece, di riferimenti alla sacertas), né ci pare probabile che Festo e le sue fonti, intendendo indemnatus come “non condannato dal populus”, abbiano collocato nell’età del regnum arcaico le competenze repubblicane dei comizi popolari, Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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incorrendo in un così evidente errore di prospettiva storica. Ma, soprattutto, non ci pare storicamente verosimile che, in età così risalente, sia stato repressa come crimine pubblico la soppressione di un qualsiasi individuo, anche sottoposto alla potestas del pater, senza che ciò fosse invece considerato una mera forma di danno agli interessi del pater familias (e senza contare che tale accezione dell’espressione homo liber porterebbe a ravvisare una responsabilità dello stesso pater nel caso di sua uccisione di un proprio sottoposto indemnatus): bisognerà attendere ancora a lungo, infatti – addirittura, forse, fino alla sillana lex Cornelia de sicariis et venéficis, dell’81 a.C.prima di vedere chiaramente affermata la fattispecie ‘astratta’ dell’omicidio. Ci sembra, pertanto, pur con la dovuta cautela, di poter indicare come più probabile l’interpretazione delle parole di Festo nel senso di “libero dalla potestas”, per cui il parricidium punito da Numa Pompilio sarebbe stato esclusivamente l’uccisione del pater familias, “il solo – come osservò Ugo Coli - che non fosse in potestate di altri fuor che del re”. ”. Quanto alla sanzione, come abbiamo già notato, le fonti non parlano di sacertas, ma la formula “paricidas esto”, se intesa come “sia parimenti ucciso, per mano di chiunque”, sembrerebbero appunto richiamare un’antica forma di sacertà. Non è chiaro se il re, coadiuvato e poi sostituito dai quaestores parricidii, si sia andato affiancando, nella punizione del parricida, ai parenti, e innazitutto ai figli, dell’ucciso, o abbia a sé rivendicato in modo esclusivo, fin dall’inizio, tale compito sanzionatorio. Traspare comunque con evidenza, dal tono imperativo della statuizione (esto), l’intenzione di impedire una composizione meramente pecuniaria del delitto, rendendone obbligatoria l’espiazione pubblica. Nel caso di uccisione involontaria di un uomo (probabilmente, tanto sui iuris quanto in potestate), invece, lo stesso Numa avrebbe invece permesso (con una norma poi ripresa dalle XII Tavole) al responsabile di sottrarsi alla vendetta attraverso la consegna, agli agnati della vittima, di un ariete sacrificale (Serv., In buc. 4.43; In georg. 3.387; Fest., s.v. Subigere arietem [L. 476]; XII Tab. 8.24a [Cic., Top. 17.64]).

4.3 La legge di Tullio Ostilio sulla perduellio Quanto alla perduellio, tale termine stette a indicare, fin da età remota, il comportamento di colui che avesse tradito la patria, sfidando la civitas e i suoi dèi protettori. Secondo il racconto di Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Tito Livio (1.26), fu accusato e condannato (ma poi salvato dalla provocatio al popolo) per tale crimine l’Orazio colpevole di avere ucciso la sorella, che aveva pianto il fidanzato Curiazio, morto nella sfida tra romani e albani. Il re, Tullio Ostilio, avrebbe invocato l’applicazione di una lex regia di terribile tenore (“horrendi carminis”: Liv. 1.26.6), in forza della quale il reo di perduellio, se giudicato colpevole dai duumviri e poi – in caso di provocatio, ossia di convocazione dei comizi centuriati - dal popolo, sarebbe stato appeso, col capo velato, ad un albero ‘infelice’ (arbor infelix: nel senso di ‘sterile’, senza frutto [Plin., N.H. 16.208], oppure di ‘maledetto’, ‘malaugurato’, i cui frutti erano consacrati alle divinità infernali [Macr., Sat. 2.16.2]), per essere lì flagellato fino alla morte. Nonostante l’episodio abbia un evidente sapore leggendario (e un evidente anacronismo, in particolare, sia il riferimento alla provocatio, istituto – che sarà illustrato in seguito - non ancora conosciuta nell’età regia), è da ritenersi storica l’antica persecuzione di una serie di atti non specificamente catalogati, ma genericamente considerati nocivi degli interessi della città-stato e delle sue istituzioni. Un carattere vago e indeterminato che traspare anche nel citato episodio dell’Orazio, che viene accusato per un gesto che non pare integrare un caso di tradimento o di attentato alla civitas (infatti Festo, L. 380, parla di parricidium), ma che fu fatto rientrare in tale categoria criminale, evidentemente, per sottolineare il rifiuto di una persecuzione criminale ‘pubblica’ esercitata ‘privatamente’ (l’Orazia uccisa, avendo pianto un nemico, si era effettivamente macchiata di tradimento, ma non era stata condannata, e il fratello, facendo di propria iniziativa giustizia sommaria, si era andato a sostituire all’autorità del re). Anche se spesso, in dottrina, la lex horrendi carminis appare attribuita a Tullio Ostilio, proprio in base al racconto di Tito Livio, è invece probabile che la norma – o, comunque, la repressione della perduellio - sia precedente, e risalga agli albori del regnum: lo stesso Livio non afferma che Tullio avrebbe emanato la legge, ma solo che l’avrebbe applicata (“lex horrendi carminis erat…”), lasciando quindi intendere che essa fosse già vigente. Il crimine restò a lungo a sanzionare gli atti che, di volta in volta, fossero ritenuti biasimevoli e pericolosi per l’integrità della civitas (a tale titolo, per esempio, furono giudicate le responsabilità dei magistrati nell’esercizio del loro imperium, quali negligenza, inottemperanza a doveri, violazione dell’intercessio tribunizia, non osservanza degli auspicia, viltà nel comando militare, intelligenza col nemico ecc.), attraversando diverse fasi storiche e costituzionali: col Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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passaggio dalla monarchia alla repubblica, in particolare, la perduellio, sorta soprattutto a salvaguardia dell’autorità del rex, andò invece a indicare l’adfectatio regni, ossia tutti quei comportamenti pubblici dietro cui potesse celarsi un occulto disegno di restaurazione monarchica, e che dovessero pertanto essere stroncati in ragione del primo fondamento ideologico della res publica, ossia “l’odio del regno”.

5 Le XII Tavole 5.1 La nascita della res publica Con la cacciata dei Tarquini e l’instaurazione della libera res publica (509 a.C.), com’è noto, l’assetto istituzionale della civitas conobbe una profonda rottura, a seguito della quale l’imperium, il supremo comando politico, fino ad allora esercitato in modo monocratico e vitalizio dai reges, andò diviso e parcellizzato tra alcuni ‘magistrati’, incaricati dal populus di reggere il potere, rei publicae causa, per un periodo cercoscritto di tempo (generalmente, un anno). Nonostante molti aspetti del passaggio tra regnum e respublica restino oscuri, e siano oggetto di interpretazioni assai diverse da parte dei vari studiosi (p. es., riguardo – come abbiamo notato – alla sostituzione del rex da parte di una coppia di consules [o praetores] o di un magister populi, all’origine e al significato della doppia magistratura, alla maturazione delle funzioni elettive dei comitia centuriata, al ruolo svolto dalla plebe, alla definitiva scomparsa o a forme di sopravvivenza residuale della carica regia [da alcuni intraviste, come abbiamo ricordato, nella persistenza, in età repubblicana, della figura sacerdotale del rex sacrorum o sacrificulus] ecc.), non c’è dubbio che, nella memoria storica dei Romani, la nascita della repubblica fu scolpita come una nuova ‘genesi’ della città stato, come una sorta di palingenesi e di catarsi morale, da cui sarebbe sorta una rinnovata comunità di uomini liberi. Come è stato giustamente detto dal Lange, il giuramento che Giunio Bruto avrebbe pronunciato, innanzi al cadavere di Lucrezia – suicidatasi per il disonore ricevuto da Sesto Tarquinio, figlio del re, che la aveva violentata -, col quale si impegnava a mai più permettere che alcuno potesse Romae regnare (Liv. 1.59.1), fu ricordato e custodito, attraverso molte generazioni, Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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come una sorta di ‘Grundgesetz’ (grundghesètz), di ‘legge fondamentale’ dello stato: Roma sarebbe stata sempre legata all’idea di libertas, e la parola regnum sarebbe stata intesa – e bandita – come antitesi di libertas, come sinonimo di tirannia.

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5.2 L’emanazione della Lex duòdecim Tabularum Le fonti riferiscono che i primi decenni della libera res publica sarebbero stati segnati da una aspra contrapposizione fra due distinte comunità, entrambi facenti parte della civitas, ma con diversità di diritti e prerogative, quella dei cd. patricii (che si consideravano i diretti eredi degli originari fondatori della città, detti Quiriti [il primo re, Romolo, fu divinizzato col nome di Quirino]) e quella – numericamente più estesa, ma politicamente e giuridicamente subalterna – dei cd. plebeii. Questi ultimi contribuivano alla crescita e alla difesa della città-stato (anche se è controverso il loro grado di integrazione nell’exercitus centuriatus), ma non avevano accesso alle magistrature, né al collegio pontificale, e, negli scambi economici e commerciali con gli esponenti del patriziato, così come in caso di eventuali sanzioni di atti criminali, non godevano di alcuna garanzia di una equa risoluzione delle controversie, al di là dell’opinabile e incerta interpretatio iuris operata dai Pontefici, tutti esclusivamente patrizi, e della cui obiettività e imparzialità era pertanto più che lecito dubitare. Una delle principali rivendicazioni della plebe, pertanto, fu quella di un diritto scritto e comune, sottratto all’opinabilità della interpretatio Pontìficum, che potesse rappresentare un limite e un argine al potere patrizio e una salvaguardia dei legittimi interessi della plebe. Secondo la tradizione, la richiesta plebea trovò un parziale accoglimento nel 451 a.C., quando furono sospese le magistrature consolari e fu nominato un collegio straordinario di dieci magistrati, soltanto patrizi (detti decèmviri le gibus sribundis consolari potetstate), incaricati della scrittura di un codice di leggi scritte. Il decemvirato, guidato da Appio Claudio – dopo avere effettuatoi una missione in Grecia, per studiare la legislazione di Solone - avrebbe redatto un corpo di dieci ‘tavole’, ma, non avendo ancora esaurito il proprio compito, sarebbe stato rinnovato anche per l’anno successivo, con l’inserimento di due magistrati plebei al posto di due patrizi. Nonostante tale novità nella composizione del collegio, però, Appio Claudio avrebbe spinto il decemvirato verso una deriva autoritaria e antiplebea, pubblicando due nuove tavole (dette iniquaue), dal contenuto palesemente ostile alla plebe, che avrebbero ribadito, in particolare, due principi particolarmente contestati, quali l’assoggettamento fisico del debitore, in caso di insolvenza, al creditore, e il divieto di connubium, ossia di matrimonio misto fra patrizi e plebei. Una rivolta Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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popolare avrebbe quindi destituito il decemvirato, ma i consoli Valerio e Orazio, nel 449, avrebbero comunque pubblicato il codice di leggi, comprensivo anche delle ultime due tavole ‘inique’.

5.3 I contenuti delle XII Tavole Nonostante gli evidenti elementi leggendari di tale racconto, l’emanazione della legge delle XII Tavole è comunque un dato storico, anche se il loro contenuto (che, secondo Tito Livio, avrebbe addirittura rappresentato il fons omnis publici privatìque iuris, la fonte di tutto il diritto, pubblico e privato) dovette sicuramente essere molto più limitato di quanto le fonti successive abbiano poi voluto far credere. Certamente esse dovettero puntualizzare le regole dell’antico processo privato (detto delle legis actiones), i diritti del creditore e la posizione del debitore, i principi regolatori della successione ereditaria, i principali comportamenti considerati offensivi della civitas (crimina) e le relative sanzioni. Non essendoci pervenuto il dettato originale delle XII Tavole, non è dato sapere con precisione quali forme di illecito fossero da esse sanzionate. Dalla ricostruzione del testo effettuata sulla base di fonti posteriori, si ricava che l’antico codice avrebbe ribadito la statuizione di Numa Pompilio relativa all’espiazione dell’omicidio involontario attraverso consegna di un montone sacrificale (il cd. ‘capro espiatorio’, presente anche nella tradizione ebraica) ai parenti della vittima, e avrebbe legalizzato l’autotutela – in mancanza di un accordo satisfattivo (pactum) tra le parti - per i casi più gravi di iniuria personale (cd. membrum ruptum), stabilendo come limite alla vendetta quello della corrispondenza della reazione all’offesa ricevuta (secondo il metro della cd. ‘legge del taglione’ [talio], anch’esso sancito nel Pentateuco [analogie che, però, non autorizzano a pensare a rapporti di derivazione diretta, alquanto improbabili, mentre è certo che la normativa romana e quella mosaica siano state fatte oggetto, in seguito, di forme di apparentamento culturale e filologico]). Per i casi di lesioni meno gravi, invece, le XII Tavole avrebbero imposto una composizione pecuniaria, in un ammontare codificato: 300 assi per la frattura di un osso (os fractum) arrecata a un uomo libero, 150 assi per la stessa offesa portata a un servus, 25 per le lesioni fisiche di minore entità (iniuria semplice).

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Per il furtum fu ammessa l’uccisione del fur solo nelle ipotesi, aggravate, che questi avesse agito di notte, o avesse cercato di difendersi a mano armata: nei quali casi gravava sull’offeso, una volta esercitata la vendetta, l’onere di far accorrere i vicini con un’invocazione (endoplorare, implorare), in modo da renderli testimoni dell’accaduto. Nelle altre eventualità di flagranza di reato, il ladro andava fustigato e, se libero, consegnato fisicamente al derubato (addictus), in stato di assoggettamento personale, oppure, se schiavo, precipitato dalla rupe Tarpea. Alla flagranza fu assimilato il caso in cui l’oggetto fosse stato trovato nell’abitazione del ladro a seguito di una solenne perquisizione effettuata, secondo un antico cerimoniale dalla valenza magica, dal derubato, che doveva introdursi nella casa munito di un piatto e vestito di un solo perizoma (quaestio lance et licio). Nei casi, invece, di furto non flagrante (furtum nec manifestum), la sanzione era puramente economica, fissata nel doppio del valore dell’oggetto defraudato. Anche per il debitore insolvente, le XII Tavole stabilirono che questi venisse addictus fisicamente al suo creditore, il quale poteva rivalersi sulla sua persona sfruttandone la forza lavoro o vendendolo trans Tiberim e, nel caso di mancato risarcimento, anche mettendolo a morte (anche se, come abbiamo già notato, tale ultima eventualità, più che rappresentare una forma di effettiva ‘soddisfazione vendicativa’, doveva svolgere per lo più una funzione di tipo deterrente, atta a sottolineare l’obbligatorietà dell’adempimento; e appare comunque un’abnorme esagerazione la notizia di Gellio [N.A. 20.1.49] riguardo alla possibilità, che sarebbe stata prevista dal testo decemvirale [3.6], di “partes secare”, ossia di sezionare il corpo del debitore inadempiente nei confronti di più creditori). Tra gli altri illeciti che sarebbero stati sanzionati dalla lex duodecim Tabularum, le fonti successive menzionano: l’occentatio (pronuncia di formule magiche atte a provocare la morte di un uomo attraverso sortilegio, punita con la pena capitale); la maledizione del raccolto altrui o il tentativo di attrarlo nel proprio terreno mediante incantesimi (puniti anch’essi, probabilmente, con la morte); la sottrazione furtiva di messi (sanzionata con la morte, mediante flagellazione, del responsabile, appiccato a un albero dedicato a Cerere, dea delle messi [suspensio Cereri]); la violazione dell’obbligo di castità (incestum) da parte della Vestale (condannata ad essere sotterrata viva per ordine del Pontifex Maximus, il quale avrebbe così esercitato, probabilmente, un potere di tipo familiare, quale detentore della potestas sulla Vestale, piuttosto che una funzione repressiva pubblica, come organo istituzionale della civitas); la frode commessa dal patrono ai danni del cliente (repressa con la consecratio del colpevole a una divinità infernale); la proditio (incitamento Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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del nemico contro la patria o consegna agli hostes di un cittadino, punita con la morte); la falsa testimonianza (sanzionata attraverso un’espiazione dalla valenza sacrale, quale la deiezione del responsabile dalla rupe Tarpea). Le fonti non fanno menzione, invece, di riferimenti decemvirali ai crimina di parricidium e perduellio (al di là delle disposizioni sull’omicidio involontario e sulla proditio, figura affine alla perduellio); ma, nonostante tale silenzio, è da ritenersi verosimile che la sanzione di tali gravi forme di illecito, già stabilita dalle leges regiae, sia stata ribadita dal codice, per formalizzarne il vigore nel quadro della nuova legalità repubblicana. Quanto alle forme attraverso cui la repressione andava attuata, occorre distinguere: quando le XII Tavole esplicitamente autorizzavano la vendetta privata (membrum ruptum, furto manifesto o aggravato), essa andava realizzata mediante autotutela (laddove, ovviamente, la parte offesa disponesse della forza necessaria, in assenza della quale si sarebbe potuto invocare l’aiuto della coercitio magistratuale); quando prevedevano un risarcimento pecuniario (furto semplice, os fractum, iniuria semplice), questo, se non offerto spontaneamente, avrebbe potuto essere reso coattivo attraverso il processo privato per legis actiones, da attivare su iniziativa della parte interessata. Quando la pena aveva, invece, evidente carattere pubblico, essa andava applicata dal magistrato nell’ambito del proprio imperium (che così trovava una evidente limitazione alla propria discrezionalità, diventando obbligatorio nel suo esercizio e nelle modalità di attuazione); ma, almeno in teoria, avrebbe sempre dovuto passare – per la punizione dei cittadini romani liberi - per il vaglio dei comitia, in quanto le stesse XII Tavole, oltre ad avere riaffermato (stando alla testimonianza di Cicerone, De rep. 2.54) la garanzia della provocatio ad populum, avrebbero solennemente sancito che solo l’assemblea centuriata avrebbe potuto disporre la condanna a morte di un cittadino, attraverso iudicium populi (Cic., De leg. 3.11: de capite civis nisi per maximum comitiatum ne ferunto). A volte, infine (come nel caso della frode del patrono ai danni del cliente: XII T. 8.21 [Serv., in Aen. 6.609]: Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto), la punizione risultava consistere nella sola consecratio, ossia nell’abbandono del responsabile, dichiarato sacer, e così privato della protezione degli dèi, alla reazione vendicativa di un qualsiasi membro della comunità. Anche in tale caso, probabilmente, la sanzione avrebbe dovuto essere irrogata dai comizi, a seguito di un regolare processo, non essendo più considerata una automatica conseguenza della violazione perpetrata (cfr. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Fest., De verb. sign., s.v. Sacer mons, L. 424: homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium).

5.4 Il successivo ampliamento dei contenuti Come si vede, il sistema di precetti previsto dalle XII Tavole riflette gli interessi prevalenti in una società essenzialmente agricola, fondata da rapporti diretti tra i patres familias, basati sulla mutua conoscenza e sul riconoscimento dei reciproci interessi, nella quale si dà grande rilievo alla tutela della proprietà privata, alla titolarità del raccolto, all’adempimento dei debiti, al rispetto e all’onorabilità della parola data, e nella quale l’obbligatorietà giuridica – pur essendo ancora fortemente impastata di convinzioni magiche, superstiziose e religiose – cerca comunque un proprio parametro autonomo di razionalità e funzionalità, secondo criteri di certezza e completezza normativa. Quando la società romana si sarebbe trasformata, a partire dal III secolo a.C., in senso mercantile e commerciale, è evidente che i principi sanzionati nel codice decemvirale dovettero risultare decisamente sorpassati e obsoleti, soprattutto in quei settori (come gli scambi commerciali) che richiedevano di essere regolamentati secondo criteri di velocità ed elasticità, senza rigidi formalismi. La tradizione, però, attribuì, nel tempo, una sempre crescente autorevolezza e prestigio al codice decemvirale (basti ricordare che, ancora nel VI secolo d.C., sarà in omaggio ad esse che Giustiniano ordinerà la compilazione del Codex in dodici libri), i cui contenuti furono considerati, teoricamente, immodificabili, cosicché i necessari aggiornamenti furono via via introdotti in modo occulto e surrettizio, collegando artatamente – nel generale consenso – alla lex duòdecim Tabularum delle regole la cui effettiva origine storica risulta invece anche notevolmente posteriore. Le XII Tavole, così, diventarono una sorta di ‘scrigno sacro’ dello ius civile -, e i suoi contenuti vennero ripetutamente ‘gonfiati’ dalla successiva tradizione, tutte le volte che si ritenne Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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necessario sfruttare, a nuovi fini, l’alta autorità della fonte decemvirale: una libera ricostruzione a cui la leggenda della distruzione dell’edizione originale della legge, durante l’incendio di Roma per mano dei Galli, nel 390 a.C., appare direttamente funzionale.

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