La ballata dell'Appennino - La Repubblica

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19 giu 2011 ... Parola di Francesco Guccini, che dalla storica via. Paolo Fabbri ... quila per misantropi e solitari, mentre nei sei romanzi che Guccini ha scritto ...
Domenica La

DOMENICA 19 GIUGNO 2011/Numero 331

di

Repubblica

l’attualità

1951-2011, l’umanità in fuga ADRIANO SOFRI

cultura

Safran Foer, un americano a Praga JONATHAN SAFRAN FOER

Guccini La ballata dell’Appennino “Le mie montagne di vecchio e di bambino”

FOTO ALBERTO CONTI/CONTRASTO

Nella sua casa di Pàvana il cantautore racconta il ritorno alle radici

WU MING 2

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MICHELE SERRA PÀVANA (Pistoia)

montanari sono come i marinai: girano il mondo, ma poi, quando viene il momento, tornano a casa». Parola di Francesco Guccini, che dalla storica via Paolo Fabbri 43, nel quartiere Cirenaica di Bologna, ormai da una decina d’anni si è trasferito a Pàvana, sull’Appennino pistoiese, vicino al mulino di famiglia di tanti libri e canzoni. Ci ho messo del tempo per trovare l’avita dimora, perché il numero civico che mi hanno indicato sta di fianco al vecchio portone, invisibile dalla strada, mentre sul cancello d’ingresso ce n’è un altro, tutto diverso. Che sia un’antica trappola per scoraggiare i forestieri? Giù in città c’è chi sarebbe pronto a scommetterci, perché la montagna, vista da sotto, pare sempre un rifugio da eremiti, un nido d’aquila per misantropi e solitari, mentre nei sei romanzi che Guccini ha scritto con Loriano Macchiavelli, l’Appennino è sempre un luogo di incontri, una società complessa e nera quanto quella di pianura. Anche Macchiavelli ha vissuto l’infanzia da queste parti, poi è sceso in città e solo molti anni dopo è tornato a vivere in quota. (segue nelle pagine successive)

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li Appennini sono un rastrello interminabile di basse vallate, una via l’altra dalla Liguria a Scilla. La differenza fondamentale con le Alpi è il turismo quasi assente: qualche seconda casa, un po’ di trekking, gente a cavallo, osterie dalla cucina robusta, rare piste da sci poco assistite dalla neve non sono bastati a bilanciare l’esodo di massa del dopoguerra. Di ogni paese (Pàvana inclusa) si leggono cifre impressionanti, con le migliaia di abitanti che sono diventate centinaia. Qui c’era la scuola, qui l’ambulatorio, qui una segheria, ora le ortiche e la vitalba si mangiano pietre e mattoni. L’abbandono è il segno dominante degli Appennini, disgrazia e fortuna. La sensazione del tempo immobile esalta oppure opprime, a seconda di quello che si cerca. Il colpo d’occhio è spesso ombroso fino alla cupezza: difficile imbattersi nei paesaggi luminosi dei colli toscani, o della Langa. Si può camminare giornate intere senza incontrare un’anima, sapendo che a parte le robinie (immigrate da un paio di secoli) e la lince (scomparsa), vegetazione e fauna sono quasi le stesse di sempre. (segue nelle pagine successive)

spettacoli

Officina Ronconi, “Sotto il testo niente” ANNA BANDETTINI

le tendenze

Josephine Baker e il tempo delle piume LAURA ASNAGHI e LAURA LAURENZI

i sapori

La madre di tutte le ricette LICIA GRANELLO e FRANCESCO MERLO

l’incontro

Enzo Maiorca, “Ora sto a testa in su” ENRICO BELLAVIA

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la copertina Francesco Guccini Fatica, silenzio. Ma anche storie di Resistenza e migrazioni tante volte cantate, oppure scritte nei romanzi insieme a Loriano Macchiavelli Nella casa d’infanzia il cantautore racconta a un cronista d’eccezione delle sue vette, forse non le più alte ma tra le più umane

WU MING 2 (segue dalla copertina) Bologna», racconta, «quando discuto con gli amici, va sempre a finire che mi dicono “T’î pròpi un muntanèr!”, dove per montanaro si intende conservatore, testardo. Ma io ormai non mi offendo più». Ci accomodiamo nella grande cucina con camino di casa Guccini, intorno a un lungo tavolo di legno, con una brocca d’acqua di fonte a riempire i bicchieri e la gatta Menica che ci zompa sulle ginocchia. Lo spunto iniziale della chiacchierata sono i luoghi comuni sulla vita in montagna, l’idea che avvicinarsi ai crinali significhi allontanarsi dalla società, ritirarsi in un guscio fatto di boschi e solitudine. Anche di Tiziano Terzani si sente spesso dire che «si ritirò all’Orsigna», a mezza giornata di cammino dalla Pàvana di Guccini, ma quando lo incontrai da quelle parti, non mi sembrò affatto un uomo ritirato. Si faceva chiamare Anam, cioè senza nome in sanscrito, ed erava-

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natori di carbone, e hanno fatto figli che noi chiamavamo Edi o Eri, ma poi scoprivi che i veri nomi erano Eddie e Henry. Gente che non aveva mai messo il naso fuori dal paese andava a imbarcarsi a Napoli, Genova, Le Havre». Guccini non lo dice, ma in questo profilo da emigrante è facile riconoscere lo zio Merigo di Cròniche Epafàniche, ovvero l’Amerigo della nota canzone, quello che «probabilmente uscì, chiudendo dietro a sé, la porta verde». E in effetti una porta verde c’è, affacciata sulla corte dove abbiamo parcheggiato, anche se «quella era la falegnameria di un cognato dei miei, bruciata dai fascisti. La porta di Amerigo stava giù al mulino, ma dire che era verde è come dir nulla, perché qua le porte erano tutte verdi e quelle che non lo sono più, è per via del tempo o dei restauri». «Appena arrivati in America», continua Guccini, «gli emigranti di Pàvana si compravano un revolver, tutti quanti, e spesso entravano nelle fila di un’associazione anarchica, la “Giordano Bruno”. Poi, quando il lavoro finiva, tornavano qua, e l’avventura oltreoceano la mettevano da parte, come un capitolo chiuso. Giusto il revolver, gli restava, e qualche soldo in tasca».

La casa sul confine della sera / oscura e silenziosa se ne sta, / respiri un’aria limpida e leggera / e senti voci forse di altra età

mo per questo quasi omonimi (Wu Ming significa senza nome in cinese mandarino). Il vestito e la barba bianca erano quelli di un eremita, ma poi ti sedevi con lui a bere e ti rendevi conto che il grande giornalista era tutt’altro che lontano dal mondo. Ricordo un partigiano che aveva combattuto nella valle del Senio e quando parlava di quei mesi in montagna mi diceva che sì, sembrava di essere un gruppo di monaci guerrieri, in uno strano romitaggio fatto di rifugi e imboscate, però lo sapevi bene che stavi combattendo una guerra mondiale e che dal tuo angolo di montagna, grazie alla conoscenza del territorio, avresti dato una mano a buttare il fascismo nella pattumiera della Storia. «Qui a Pàvana», racconta Guccini, «la Resistenza c’è stata pochissimo. Gli americani sono arrivati nell’ottobre del ’44 e giù al mulino avevano messo quattro carrarmati. La mattina scendevano, sparavano qualche colpo e poi tornavano su, come se fossero stati in ufficio. I bossoli erano belli grossi, d’ottone: un paio li hanno pure intagliati e adesso servono come vasi sull’altare della chiesa». Ma se in altri paesi d’Italia l’arrivo degli americani durante la Seconda guerra mondiale viene ancora ricordato come una specie di sbarco alieno, a Pàvana gli yankee erano già di casa: «Molti pavanesi sono finiti negli Stati Uniti a fare i mi-

Da Radici

Eppure, a guardare i numeri, molti di questi montanari giramondo hanno voltato le spalle per sempre ai loro luoghi d’origine: dal 1911 a oggi, il comune di Sambuca Pistoiese, dove si trova Pàvana, è passato da 7.400 abitanti a poco meno di 1.500. «Mia sorella», commenta Macchiavelli, «quando venimmo via da Pioppe di Salvaro per andare a Bologna, disse che lassù non voleva più metterci piede. Aveva un odio viscerale per quella vita scomoda. Poi, col salto di un paio di generazioni e il riscaldamento a gas che è arrivato dappertutto, molte famiglie si sono decise a tornare». Negli ultimi tempi, infatti, altri comuni appenninici registrano un saldo demografico positivo e una febbre edilizia più contagiosa che in pianura. Coppie giovani, immigrati, professori col posto in provincia, invertono la tendenza allo spopolamento dei monti. come già fecero gli Elfi, a Sambuca, ristrutturando antichi borghi abbandonati, in cerca di un’esperienza di vita comunitaria e autosufficiente. «Sono passati trent’anni», racconta Guccini, «eppure la gente diffida ancora. “Eh, ma chissà i bimbi di chi son figli. Eh, le droghe. Ma poi non muoiono mai? Forse li seppelliscono e non li denunciano, come i cinesi...” È che i montanari, per quanto abbiano viaggiato, restano sempre guardinghi nei confronti dei forestieri. Pensa che di là dal torrente Limentra,

“Siamo marinai approdati sui monti”

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L’EVENTO Montagna, letteratura e avventura: questi i temi portanti della quinta edizione di Lago Maggiore LetterAltura, dal 22 al 26 giugno a Verbania e nei weekend successivi nelle valli Antrona (1-3 luglio), Antigorio e Formazza (8-10 luglio), Vigezzo (16-17 luglio). Francesco Guccini interverrà sabato 25 giugno per parlare dei suoi Appennini, raccontati nel romanzo Malastagione (Mondadori), scritto con Loriano Macchiavelli Venerdì 24 Wu Ming 2 narrerà il suo viaggio a piedi da Bologna a Firenze lungo il percorso della Tav, tema del suo ultimo libro Il sentiero degli dei (Ediciclo) Tutto il programma su www.letteraltura.it

In alto, Francesco Guccini con i genitori da bambino Nelle altre fotografie e in copertina, il cantautore oggi nella sua casa di Pàvana

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Piccola città, vecchi cortili, / sogni e dei primaverili, rime e fedi giovanili, / bimbe ora vecchie Da Piccola città

nore”, per anziani in fuga dal caldo. I bolognesi hanno sempre preferito Cortina a Porretta Terme. «A interessarci di questi paesi siamo giusto un paio di sciagurati», osserva Guccini. «Abbiamo recuperato il dialetto, ma quello vivo non lo parla più nessuno. Questa è una zona di intrecci, di scambi e immigrazioni. Da bambino io non me ne accorgevo, ma molte pavanesi, in realtà, erano sarde, perché i nostri montanari andavano in Sardegna a fare i carbonai e poi tornavano a casa con queste donne, che si vestivano con sottanoni mai visti e per dire “chiudi la porta” dicevano “tanca sa janna”». «Quando sono andato a stare a Montombraro», aggiunge Macchiavelli, «c’era un’anziana che era la memoria del borgo. Ci raccontava storie che davano un senso ai luoghi. Non c’entra la nostalgia o il culto del tempo andato: solo se ricordi puoi difendere un territorio, perché sai cosa significa. Nel 1325, a Zappolino, dove inizia la salita per Montombraro, ci fu una grande battaglia tra modenesi e bolognesi. Gli storici dicono che fu la più cruenta e sanguinosa di tutto il Medioevo, e il luogo si chiama ancora Prato dei morti, ma adesso ci stanno co-

E Pàvana un ricordo lasciato tra i castagni dell’Appennino, / l’inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello Da Amerigo

FOTO PHOTOMOVIE

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IERI E OGGI

renza tra gli animali totemici dei due territori parla da sé: quello dell’Appennino è il cinghiale, una specie di porco con le zanne che grufola nel fango, mentre le Alpi hanno la nobilissima aquila, il leggiadro camoscio. Le Alpi toccano il cielo, sono iperuranie e spirituali. L’Appennino è più basso, terragno, spurio. Sarà anche per questo che sulle Alpi, in Val di Susa, il treno ad Alta Velocità non riesce ancora a sfondare le proteste e gli scudi umani, mentre sull’Appennino tosco emiliano lo scavo delle gallerie è andato avanti senza grandi opposizioni, finché non ci si è trovati di fronte a danni irreparabili. Strano, per una montagna la cui storia è legata a doppio filo con la Resistenza, che in quei boschi trovò l’arma in più per combattere il nemico. Del resto, solo una retorica da quattro soldi dipinge i valsusini come montanari ottusi, egoisti, che vogliono essere «padroni a casa loro». In realtà, la forza del movimento No Tav sta nella competenza diffusa e nell’aver saputo coinvolgere anche la gente di pianura. Nulla di simile è accaduto tra Bologna e Firenze, perché le due città voltano le spalle all’Appennino, lo considerano un ostacolo alla viabilità e semmai un luogo di villeggiatura “mi-

FOTO BRESCIA OGGI

una volta ci abitavano dei contadini, gente che coltivava la terra per sopravvivere, ma questo già li rendeva strani, agli occhi dei montanari, perché qui c’erano i castagni e di là le viti. Era gente più riservata, più raccolta: i contadini sì, che si attaccano alla terra. E infatti gli avevano pure affibbiato un soprannome dispregiativo, “gli spinaioli”, perché tra un campo e l’altro su quel versante crescevano gli spini, i rovi, mentre nei castagneti si tiene tutto pulito, per facilitare la raccolta». Faccio notare che allora c’è del vero, nell’icona popolare del montanaro scontroso, che non ama gli intrusi. «Dalle nostre parti», risponde Macchiavelli «quelli che arrivano dalla città li chiamano “becca aria”, perché hanno il culto dell’aria buona, però gli manca la cultura della montagna. Il motto dei becca aria è vengo, vedo, compro, faccio come mi pare. Si costruiscono ville che sembrano transatlantici. Luci dappertutto, fari, allarmi e novanta chilometri al giorno in auto, per fare i pendolari con Bologna». Chissà se i becca aria esistono anche sulle Alpi. Il fatto è che l’Appennino genera meno rispetto. Le Alpi, con le loro cime aguzze, incutono timore. La diffe-

La fuga discreta dei nati in città MICHELE SERRA (segue dalla copertina)

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ome ci si perde in Appennino non ci si perde da nessuna parte, senza alte vette a fare da bussola allo sguardo, e in una vastità di boschi e di calanchi poco antropizzata e solcata da strade vecchie e strette. Ma all’alba o al tramonto, al margine dei campi di erba medica o delle faggete, qui è consueto incontrare l’istrice, il tasso, il cinghiale, la volpe, il capriolo, il daino, il cervo, il ghiro, lo scoiattolo, la donnola, la faina, e se hai fortuna anche il lupo, che dagli Abruzzi ha compiuto in una ventina d’anni il suo viaggio di ritorno. Non so cosa sarebbe della fauna selvatica italiana senza gli Appennini. Semi-abbandonati dall’uomo, sono tornati la patria delle bestie. L’uomo per ultimo cerca di risalire i crinali dai quali i nonni fuggirono per povertà e per voglia del moderno. Gli esiti non sono sempre fausti. Per ogni castagneto recuperato alla produzione, per ogni casale di pietra ristrutturato a regola, ci sono dieci villette geometrili di quelle che ispirarono a Gadda le acri pagine sull’architettura brianzola. Il muro di sasso, che dell’estetica appenninica classica è l’elemento di base, comincia solo negli ultimi anni a tornare d’uso comune, dopo mezzo secolo di desuetudine perché le case di sasso ricordavano fame, freddo, buio, l’umidità che storce le ossa, il nerofumo. È frequentissimo vedere la vecchia casa di sasso abbandonata al suo destino, e a fianco la casa nuova, identica a quelle delle periferie di città, con gli infissi in alluminio, il portico bianco ad archi, e certi intonaci lustri che li vedi a chilometri di distanza. Mentre il sasso lo vedi solo quando gli sbuchi davanti, è mimetico, è esso stesso Appennino. I cittadini che risalgono per cercare un nuovo rifugio e a volte un nuovo destino devono fare attenzione a non offendere gli indigeni, ai quali le case nuove paiono linde e decorose quanto quelle vecchie parevano muffite e malsane. Si impara la delicatezza, si impara a tenere sotto controllo l’alterigia dell’inurbato che risale a dare lezioni e a far valere il reddito superiore. I più fortunati, come Guccini, hanno già nei ricordi d’infanzia, nel Dna montanaro, la chiave per farsi accettare come «uno di qui». I nati in città come me cercano di fare poco rumore e non farsi notare troppo, se non vogliono spaventare le bestie e indisporre i nativi, che sono a casa loro, perdinci, e ti accettano solo quanto ti vedono con la schiena piegata a pulire l’orto, o con il decespugliatore a tracolla, a battagliare con il rovo e la vitalba, e con la spalla che duole per la fatica.

FOTO ALBERTO CONTI/CONTRASTO

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

struendo tre villaggi: con la banca, con il supermercato, e hanno potuto farlo perché nessuno ne sa più nulla». Mi viene da pensare a Luciano Bianciardi, che negli anni Cinquanta si entusiasmava per la marcia vittoriosa della città contro la campagna e non sopportava le ubbie passatiste degli storici locali e degli archeologi eruditi, con i loro cocci e i loro buccheri. Mi chiedo se oggi, dopo la vittoria definitiva dell’urbanizzazione, non sarebbe disposto anche lui a rivalutare la memoria dei luoghi, non come tradizione da mettere sottovetro, o da evocare a scopo elettorale, ma come antologia di storie, ibrida e cosmopolita, resistente e cocciuta come certi montanari, che dopo aver girato il mondo ritornavano, con i loro figli ormai stranieri, ai castagni dell’Appennino. «Ma io sono tornato tardi», conclude Guccini mentre si avvicina l’ora di cena, «e tante cose che facevo d’estate, non le faccio più. Da ragazzino, appena arrivavo, subito mi mandavano a tagliare il grano, in canottiera, e mi prendevo certe scottate che poi bisognava metterci sopra l’albume d’uovo sbattuto con l’olio. Adesso, uno dice l’orto, l’orto, ma l’orto me lo devono fare gli altri, perché la terra è bassa e l’età è alta, oramai. Come le montagne». © 2011 Wu-Ming 2 / Agenzia Santachiara © RIPRODUZIONE RISERVATA

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l’attualità

Il 20 giugno di sessant’anni fa veniva istituito lo status di “rifugiato” per le vittime di guerre, persecuzioni, disastri Da allora cinquanta milioni di persone hanno trovato asilo Alla vigilia della Giornata mondiale, dai prigionieri

Esodi

dei campi nazisti ai “clandestini” di Lampedusa, le foto dell’archivio Acnur sono il ritratto di un’umanità in fuga

ADRIANO SOFRI

© UNHCR/S. WRIGHT

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uando toccò a lui compilare il documento di ingresso negli Stati Uniti, Albert Einstein rispose alla domanda: Razza, scrivendo: Umana. L’aneddoto famoso è ancora e ancora citato perché la terra non smette di essere attraversata da creature di razza umana cacciate dalle guerre, dai pregiudizi, dalla cattiveria e la stupidità dei loro simili e dalle catastrofi capricciose della natura. Diventa sempre più difficile, del resto, separare i disastri di mano umana da quelli naturali, e il numero crescente di profughi per effetto del cambiamento climatico è una misura da opporre a chi non vuole riconoscerlo. All’indomani della Prima Guerra, la Società delle Nazioni nominò il norvegese Fridtjøf Nansen, scienziato, esploratore e diplomatico, Alto commissario per l’assistenza ai milioni di profughi dalla Russia diventata sovietica e agli armeni scampati al genocidio turco. Nansen ideò, e fece riconoscere da un numero crescente di Stati, uno speciale passaporto che prese il suo nome, Passaporto Nansen, e ridiede un’identità a centinaia di migliaia di apolidi, compreso quel Vladimir Nabokov che lo ribattezzò con un’amara ironia «Passaporto Nonsense». All’indomani della Seconda Guerra altri milioni di profughi attraversavano l’Europa e il resto del mondo. Lo status dei rifugiati fu definito dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Da allora, esattamente sessant’anni fa, le Nazioni Unite hanno un’organizzazione che si occupa dei rifugiati e poi degli sfollati di guerre persecuzioni e disastri naturali, l’Unhcr (o Acnur, Alto commissariato per i rifugiati). Ai rifugiati è dedicata una giornata mondiale, il 20 giugno di ogni anno. L’Unhcr valuta di aver assistito, da allora, oltre cinquanta milioni di persone, e di assisterne oggi poco meno di trenta milioni. I nomi coi quali vengono designate, dai più nobili ai più oltraggiosi, segnano una specie di scala Mercalli della sofferenza: esuli, profughi, rifugiati, apolidi, asilanti, displaced persons — spostati, gente senza luogo — sfollati e infine, il neologismo più sbrigativo, clandestini. Passeggeri non autorizzati e non paganti a bordo di una nave riservata e infastidita. Il soccorso ai rifugiati si scontra ora con un amaro paradosso. Si lamentava che troppo spesso i migranti “economici” (formula scadente, perché è di un’altra vita che vanno in cerca) usurpassero il titolo di rifugiati. Ma oggi è l’avversione incattivita contro i migranti a coinvolgere sempre più chi ha diritto alla protezione internazionale. È di ieri — esca da vigilia di Pontida — l’annuncio che il tempo di detenzione nei Cie di persone che non hanno commesso alcun reato e sono arrivate irregolarmente nei nostri confini sarà prolungato dai sei mesi attuali, durata già feroce, a un anno e mezzo. È una corrente, quella dei profughi, che non si interrompe mai. Oggi è l’altra faccia della primavera araba — dalla Libia alla Tunisia e all’Egitto, dalla Siria alla Turchia e all’Iran, dallo Yemen ai paesi d’origine, decine di migliaia. Milioni, dall’Afghanistan in Pakistan e in Iran, o nel cuore dell’Africa. Campi provvisori che diventano eterni, per i Saharawi del Sahara occidentale, nella Giordania e nel Libano dei palestinesi, nel Bangladesh (dieci milioni di profughi bengali riversati in India nel solo 1971). Oppure storie individuali, dissidenti politici, discriminati per la loro scelta sessuale, perseguitati per la loro fede. Persone in fuga, private delle loro radici — lingua, casa, famiglia, amici — fino a dover con-

Ero straniero e mi avete accolto

© UNHCR

IL DOCUMENTO In alto, un algerino rifugiato in Tunisia a fine anni Cinquanta durante la guerra di indipendenza dalla Francia Nell’altra pagina al centro, bengalesi in India nel 1971 Qui a destra, la carta d’identità di Marc Chagall, «artista, pittore», rilasciata dalla prefettura di Parigi nel 1929 Nella pagina accanto, famiglie kosovare cercano asilo in Macedonia nel 1999; un gruppo di etiopi fuggiti in Sudan nel 1985

fessare a se stessi: Io non so chi sono io, Io non sono nessuno. Guardate i loro ritratti, e provate a leggere l’odissea senza gloria di cui sono la risacca. Nello sguardo di una bambina di Srebrenica, di una donna etiope fuggita in Sudan che solleva un telo per nostalgia di una casa, di Moise Chagall, da Vitebsk, «detto Marc Chagaloff, artista pittore» — profugo in Francia, in Spagna, in Portogallo, negli Stati Uniti... E poi nello sguardo di persone incrociate nelle nostre strade, che si riempiono di stranieri poveri o banditi, e non li vogliono. Il giorno del rifugiato si celebra a Roma, alla presenza di Giorgio Napolitano e dell’Alto commissario Antonio Guterres, mentre continua la lunga notte del Canale di Sicilia e del Mediterraneo intero. Fortress Europe calcola a sedicimila i morti nella traversata dal 1988 a oggi. Uno su dieci di quanti si imbarcano alla volta delle coste italiane è destinato a perdere la vita. La notte dei respingimenti, indifferenti al fatto che una parte ingente dei pellegrini del mare cerca asilo e ha diritto a riceverlo, e almeno deve poterlo chiedere prima d’essere cacciato in un fondo d’acqua o di sabbia. Si sono così respinti in Libia rifugiati del Darfur, etiopi, eritrei, somali. Molti di loro sono minori. È illegale, oltre che ignobile, respingere persone verso luoghi in cui la loro vita è messa a rischio. Sono illegali e infami i respingimenti all’ingrosso, che non passino per l’esame della condizione personale di ciascuno. Adesso, il ministero italiano dichiara che, venuta meno la collaborazione con Gheddafi, si può ricorrere alle nostre navi da guerra per chiudere il passo alle carrette del mare. Eppure l’anno scorso l’Italia ha accolto meno di settemila richieste di asilo, contro le quarantamila di Germania e Francia, le trentamila della Svezia, le ventimila del Belgio. Quanto alle cifre assolute, i rifugiati erano circa cinquantamila in Italia, seicentomila in Germania, trecentomila nel Regno Unito. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33

© UNHCR/C. SATTLBERGER

© UNHCR/Y. HARDY

© UNHCR/H. J. DAVIES

© UNHCR/D. HENRIOUD

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L’ARCHIVIO

© UNHCR/R. LEMOINE

© UNHCR/M.VANNAPPELGHEM

Dall’alto donne e bambini bosniaci con, sugli striscioni, i nomi di mariti e padri scomparsi durante la guerra civile; bambini cambogiani rifugiati in Thailandia a fine anni Settanta; un campo di profughi ruandesi in Tanzania nel 1994 Tutte le foto che illustrano queste pagine fanno parte dell’archivio Unhcr

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CULTURA*

A Praga: truffato da un tassista, compatito dalla sua ambasciata, umiliato da un cameriere, ignorato dalla polizia. E poi una triste camera d’albergo per un inutile ponte festivo, uno sterile corteggiamento, una sottile vendetta. Sono le avventure di un uomo senza qualità

raccontate da uno dei più affermati scrittori americani

Ogni cosa leggera è pesante D

JONATHAN SAFRAN FOER

ovrei accettare, a questo punto, che quando mi si dice che una cosa è quella, per definizione non può esserlo: che dove sono io, quella cosa non è. Ma fare mia questa lezione richiederebbe gradi di autoconsapevolezza e onestà che semplicemente non possiedo, e francamente non desidero possedere. Non voglio conoscere me stesso più del necessario. Per cui andai a Praga. Sapevo, dalla guida turistica, che i tassisti praghesi sono una schiatta particolare. Lo sapevo, e sapevo che il tassista mi stava fregando quando, senza infingimenti né scuse, premette sfacciatamente a ripetizione un tasto sul tassametro proprio al principio della nostra corsa. E però non protestai. Non sapevo come protestare. Sono il tipo di persona che, letteralmente, preferirebbe morire piuttosto che fare una scenata. E non uso letteralmente metaforicamente. Fossi stato seduto nel viaggio d’andata accanto a quel terrorista con l’esplosivo nella scarpa, mi sarei concentrato sulla lettura del catalogo SkyMall mentre lui accendeva il fiammifero e avrei provato molta rabbia nei suoi confronti, e pena per me stesso, e delusione ma non sorpresa per la fine tragica della mia vita sulla terra. Morire a quel modo sarebbe meraviglioso. Ma non sarebbe meraviglioso, perché non sarei vivo a godermi i vantaggi della compassione e dell’amore altrui. Solo i buoni muoiono giovani, ma solo i vivi hanno gli orgasmi. Quando raggiungemmo l’albergo, il tassista mi disse che erano 412 euro. «Mi pare un po’ tanto», dissi, sapendo, dalla guida, che dovevano essere sui 40. Indicò il tassametro come a lasciar intendere che l’avevo offeso. Gli umani possono mentire, diceva il suo dito, ma le macchine no. Forse in futuro potrai a ragione accusare una macchina di mentire, ma fino a quel giorno dovresti pagare ciò che la macchina ti dice di pagare. Mio malgrado, provai un senso di colpa. Quindi provai rabbia per il senso di colpa, perché chi era questo tassista di Praga per farmi provare emozioni di qualunque tipo? Odio i sentimenti negativi non generati da me stesso. L’odio, in sé, è già un’emozione di quel tipo. Pagai. Ebbe la faccia tosta di chiedere una mancia. Ebbi la faccia tosta di chiedere scusa e dargliela, sebbene avessi letto che non si usa dare né richiedere la mancia. Preferirei letteralmente morire, e uso letteralmente letteralmente. La mia stanza era grande quanto bastava per farci stare il letto. La stanza era della misura del letto. La porta si apriva all’esterno, perché non potevi aprirla all’interno a causa del letto, e quando l’aprivi, c’era subito il letto. In qualunque punto della stanza, ti trovavi sul letto. In fondo al corridoio c’era il bagno comune. Il water non aveva la tavoletta, ma non importava, tanto non c’era la carta igienica. Il mattino dopo fui svegliato alle cinque da una sveglia telefonica che non avevo richiesto. Era una voce registrata, e le voci registrate non possono mentire, per cui a quanto pareva avevo ordinato una sveglia, nonostante non ci fosse né un servizio di sveglia telefonica automatica né qualcuno a rispondere al telefono alla reception. Mi vestii, feci una doccia senza il saponcino o lo shampoo o l’acqua, bevvi del caffè tiepido dalla caffettiera dietro il bancone della reception deserto dell’albergo accanto, e scarpinai fino al consolato americano. «Come posso aiutarla?» mi chiese una ragazza dietro dieci centimetri di vetro antiproiettile. Stando in punta di piedi riuscivo a vedere una porzione sufficiente del suo seno da farmi venir voglia di provare a vedere una porzione ulteriore del suo seno. Le dissi: «Sono arrivato dall’America ieri notte, e nel viaggio dall’aeroporto il tassista si è approfittato di me». La cosa suonò più sessuale di quanto avrei voluto. Non volevo affatto che suonasse sessuale nel senso che il tassista aveva allungato le mani su di me. Questo a che mi sarebbe servito? Ma volevoche suonasse sessuale nel senso di farle capire che avrei voluto allungare le mani su di lei. Solo lei sapeva se

la frase era suonata sessuale in quel senso. Per assicurarmi che non ci fossimo fraintesi, chiarii: «Ha premuto più volte il pulsante del tassametro, aggiungendo in qualche modo delle tariffe extra, e quando abbiamo raggiunto l’hotel il prezzo della corsa era astronomico». «Quanto?» chiese lei. «Circa trecento euro». «Trecento euro?» «Perciò voglio sporgere reclamo». «L’ha pagato 300 euro?» «Ero esausto, ed è la prima volta che vengo qui. E avevo bisogno di andare in albergo». «Ma era già arrivato all’albergo». «È vero, ma in un paese straniero e con una quantità notevole di bagagli». «Come mai tanti bagagli?» «Non erano così tanti, in senso oggettivo, ma ho la sindrome del tunnel carpale, per cui le cose leggere mi risultano pesanti, e per come la percepivo io, la quantità dei miei bagagli era notevole. In definitiva, non volevo fare una scenata lì per lì». «Glielo ha detto che era troppo?»

piatto? Fingere di darti una scelta è più irritante che non dartela proprio. Mentre aspettavo il cibo ho acceso l’iPad, sono andato sul sito del consolato americano a Praga, ho cliccato su “Il nostro staff” e ho trovato la donna che mi aveva aiutato. Si chiamava Cecilia Warren. Un nome non carino. Per niente, in nessun senso, un nome che fosse o potesse mai essere anche solo remotamente carino, o generosamente fatto passare per carino. Potevo conservare l’attrazione per lei ora che conoscevo il suo nome radicalmente non carino? E non era, questo, il genere di via di fuga di cui avevo bisogno? Ecco che il montone annullava il sacrificio. Via, sciò, sono Cecilia. Qui non sei gradito. E tuttavia provavo il forte desiderio di superare la ripugnanza per il suo nome. Volevo volermi masturbare guardando me che ero lei che si masturbava nonostante il suo nome nauseante, e ciò mi fece sentire improvvisamente gonfio di benevolenza. E per lo meno mitigò il senso di ripugnanza. Ero una persona cattiva con un lato buono. Guardai la sua pagina di Facebook, ma non veniva aggiornata da un paio di mesi. Cercare il suo no-

Jonathan Safran Foer «Certo». «E lui?» «Cosa stiamo facendo, uno sceneggiato della Pbs? Intende aiutarmi o no?» «Ce li ha i dati dell’autista?» «So per certoche la matricola comincia con un CX o un XC». «Non credo di poterla aiutare». «Perché no?» «Mi sta chiedendo di agire da investigatore privato». «Le sto chiedendo di proteggere un vostro cittadino contribuente». «Può esporre reclamo al distretto di polizia. È possibile che la sappiano aiutare. Ma se fossi in lei, mi metterei alle spalle lo sfortunato incidente e mi godrei la vacanza». Ma lei non era me. Ma avrei tanto voluto lo fosse. Intendo proprio questo? Che mi piacerebbe essere lei e masturbarmi. Questo, intendo. Ma neanche esattamente questo. Vorrei essere lei che si masturba se potessi però anche essere me, nel senso del me che non è lei, in piedi in un angolo, a masturbarmi guardando il me che è lei che si masturba. Chiaro, è solo uno stupido sogno. Andai in un ristorante consigliato dalla guida per riorganizzarmi. Che senso ha un menù con un solo

me su Google non rivelò niente di fondamentale, sebbene ci fossero varie altre Cecilie Warren, fra cui un paio che avrei guardato molto volentieri nei panni di me stesso in un angolo e così via. Fui sopraffatto all’improvviso e a sorpresa dalla rabbia per il tassista che mi aveva inculato — inculato metaforicamente. Perciò scrissi un’email. Gentile signorina Warren, sono stato nel suo ufficio pochi minuti fa, nel tentativo di porre rimedio a un infelice caso di prevaricazione tassistica. Le scrivo ora poiché mi è occorso di pensare che non l’ho ringraziata a dovere per la sua assistenza. (Anzi, nemmeno sono certo di averla ringraziata!) Io e il mio esteso bagaglio — ah! — saremo a Praga per quattro giorni, e se lei ha tempo sarei lieto di portarla fuori a cena (o a bere, o qualunque cosa) per dimostrarle la mia gratitudine. Controllo l’email con molta frequenza. Saluti, Ruben Feinberg-Horowitz Rimpiansi la frase «Controllo l’email con molta frequenza» appena l’ebbi spedita. Rimpiango quasi sempre l’ultima frase di ogni mia comunicazione, perché è il risultato dell’inspiegabile bisogno di dire una frase in più invece che del disporre di conte-

nuto sufficiente per riempire una frase in più. Cercai di smussare la sensazione di imbarazzo spedendo una seconda email. Quando ho scritto che «controllo l’email con molta frequenza», intendevo semplicemente che ho portato in vacanza l’iPad. Penso che a Praga la copertura wi-fi sia perfino migliore che in America! No, certo che no, ma la copertura è sorprendentemente buona, considerato tutto. In ogni caso, non intendevo con ciò dare a intendere che ero in qualche maniera disperato. Saluti, Ruben Feinberg-Horowitz Controllai d’istinto la posta non appena premuto Invia sulla seconda email. Non avrebbe avuto ancora tempo di ricevere le mie email, figuriamoci leggerle, figuriamoci rispondere, ma c’era sempre la possibilità che mi stesse spedendo un’email simile a quella che le avevo spedito io, e che le nostre lettere si fossero incrociate. Il cameriere mi portò il conto e sgattaiolò via. Esaminai il conto e lo richiamai. «C’è qualcosa che non capisco, qui», dissi. «Sembra che mi siano stati messi in conto il sale, il pepe, il ketchup e la mostarda».

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I DISEGNI Due schizzi di Egon Schiele; Nudo maschile (1910) e Nudo femminile (1914)

«Esatto», disse lui. «Ma perché?» «In che senso, perché?» «Perché mi avete messo in conto i condimenti?» «Perché li ha usati». «Lei parla inglese?» «Stiamo parlando inglese». «Senta, non c’è scritto da nessuna parte, sul menu o altrove, che si devono pagare queste cose». «È necessario scriverlo da qualche parte, che quello che si mangia va pagato?» «Mi avete fatto trovare questi condimenti al tavolo», dissi, non abboccando al suo amo antisemita. «Non li ho ordinati». «Li ha usati». «Li ho usati perché erano in tavola». «Signore, questo è il suo conto». «Chiaramente, ma non vale a giustificare ciò che contiene. Se lei uccide qualcuno non dice alla polizia: “Agente, questo è il cadavere” e poi pretende di esser lasciato andare. Voglio dire: se sul menù ci fossero state due righe per spiegare che i clienti dovevano pagare i condimenti, non solleverei la que-

L’APPUNTAMENTO Anticipiamo in queste pagine il testo che Jonathan Safran Foer leggerà sabato 25 giugno a “Le conversazioni: scrittori a confronto” che si terrà a Capri nella piazza davanti all’Hotel Punta Tagara dal 24 giugno. La rassegna, ideata da Antonio Monda e Davide Azzolini, quest’anno è dedicata al tema dell’eros. In due weekend consecutivi (24, 25 e 26 giugno e 1, 2 e 3 luglio), saliranno sul palco Cathleen Schine, Nicole Krauss, Phillip Lopate, Donna Tartt e David Leavitt Il programma completo su www.leconversazioni.it

Si mise a piovere. Mi slogai la caviglia. E la malaria uccide un bambino ogni trenta secondi. E probabilmente non esiste l’aldilà

stione adesso, perfino se fosse stato scritto in caratteri incredibilmente piccoli e sbiaditi». Il suo volto cambiò espressione, in una maniera che faceva presagire violenza. Cercai di calmarmi con pensieri su quanto fosse povero questo stupido cameriere ceco, e su come i cinema di Praga fossero pieni di film già usciti in dvd negli Stati Uniti. Mi sentii meglio? Mi sentii meno male. Pagai il conto, e lasciai una mancia così infinitesima che era più offensivo che non lasciarne affatto. Andai a piedi al distretto di polizia, perché mi venisse un colpo ma non intendevo prendere il taxi. Mi slogai una caviglia su un penoso surrogato di marciapiede. Ogni cosa sapeva di lavanderia o pesce affumicato. Entrai zoppicante e venni condotto in una sala d’attesa da una donna col pomo di adamo. Passai cinque ore su una sedia con schienale non ergonomico. La tv ceca è una barzelletta involontaria. Non mi serviva sapere il ceco per capire quanto erano patetiche le loro trasmissioni. In America alcune non sarebbero sopravvissute neanche cinque minuti. Per fortuna avevo portato con me la guida. Non c’è niente di meglio che leggere di un posto in cui ti trovi. Quando sono a Washington passo spesso la serata a leggere storie della città, o pamphlet della Fondazione Architettura, o guide di quartiere per turisti. È narcisistico o ammirevolmente onesto ammettere che una delle ambizioni della mia vita è figurare in una guida futura di Washington? Dovrò probabilmente assassinare qualcuno di davvero importante perché ciò accada. Cosa che non farò. Magari solo sapere che c’è la possibilità mi basta. Alle 4,20, un uomo grasso coperto di peli pubici uscì a dirmi che il distretto stava per chiudere. «Ma sono solo le 4,20. Mi avete detto che rimaneva aperto fino alle 5,00». «Siamo aperti finché non chiudiamo. E chiudiamo fra cinque minuti». «Alle 4,25? Nemmeno aspettate le 4,30?» «Esattamente. Ma il suo posto in fila è stato conservato. Glielo posso assicurare». «Non voglio che mi si conservi il posto. Voglio parlare con qualcuno adesso. Ho già sprecato un giorno della mia vacanza».

«Mi spiace, signore, ma stiamo chiudendo. Torni giovedì, prego». «Giovedì? E domani?» «Domani è vacanza. È tutto chiuso». «Cosa si festeggia?» «C’è il ponte». «Ma per quale ricorrenza?» «Mi spiace». «Non posso avere cinque minuti del suo tempo? È tutto il giorno che aspetto». «La mia risposta è no». «Cinque minuti». «No». «Chi ha una vacanza che non festeggia nulla? Mi pare triste. In America abbiamo sovrabbondanza di cose da festeggiare, e detto con franchezza non abbiamo abbastanza giorni». «Stiamo chiudendo». «Posso dirle una cosa?» «No». «Beh, gliela dico comunque: ero sinceramente intenzionato ad apprezzare Praga». Tornai in albergo e controllai se Cecilia Warren aveva risposto. Non ancora. Riflettei se spedirle un’altra email, in caso le prime due non fossero arrivate, come a volte accade. Potevo aspettare un altro giorno, ma ero lì per solo due giorni ancora, e se poi finiva che ci intendevamo? Avrei rimpianto di non averle spedito un’ulteriore email in modo da avere il massimo possibile di tempo a disposizione. Come forma di compromesso con me stesso, rispedii la prima email, con il seguente preambolo: «Mi scuso per l’eventuale ridondanza, ma le mie email a volte non arrivano, non so perché. Ciao». Mi pentii immediatamente del «Ciao». E adesso? Mi venne di pensare che avevo conservato una discreta immagine mentale del tassista. Perché non ci avevo pensato prima? Presi l’iPad e andai in un caffè, dove nemmeno rivolsi lo sguardo ai condimenti. Il cameriere mi domandò se avevo deciso e gli dissi che non volevo il solo piatto presente sul menu, e non volevo nemmeno un bicchiere d’acqua. Vincere fu una sensazione magnifica. Feci delle ricerche di immagini e trovai una faccia che pareva ragionevolmente simile al mio ricordo di quella del tassista. Con Photoshop feci un finto manifesto per un ricercato. Chiamai il consolato. «Salve, cerco Cecilia Warren». «La signorina Warren non è di turno. Posso aiutarla in qualche modo?» «È in malattia?» «Come, scusi?» «Ripeto: “È in malattia?” Lei chi è?» «Chi è lei?» «Possiamo piantarla con i corsivi?» «Conosce Cecilia?» «Sì. La conosco». «È in vacanza». «A festeggiare nulla, immagino». «Signore, vuole lasciarmi un messaggio? O posso aiutarla in qualche altro modo?» «Ho bisogno di aiuto per tradurre una cosa». «Qui non offriamo servizi di traduzione. Ma posso indicarle un...» «Non cerco servizi. Mi serve un aiuto per tradurre una frase». «Come le ho detto...» «Senta, potevamo aver già finito, e invece lei mi ha sottoposto a questa trafila insensata. Non cerco servizi. Devo tradurre una frase. Ci vogliono trenta secondi». «Mi dica la frase». «“Questa persona, solo più magra e senza baffi, sta stuprando dei bambini di questa città”». «Prego?» «La frase è questa. “Questa persona, solo più magra e senza baffi, sta stuprando dei bambini di questa città”». Decisi di passare il resto del mio soggiorno a Praga tappezzando la città di volantini. Ma l’area business dell’albergo non aveva una stampante che stampasse. E non c’era un’area business. Mi dissero che c’era una copisteria a due sole fermate d’autobus. Me la feci a piedi, per non dover tollerare l’imbarazzo di capire, in tempo reale, come funzionas-

se il sistema di trasporti pubblici di una città straniera. Non mi sorprese che il negozio si trovasse ben più lontano di quanto fossi stato indotto a credere. E si mise a piovere. E la copisteria era chiusa per via della festività immotivata del giorno dopo. E mi slogai l’altra caviglia. E siamo ben oltre il punto in cui possiamo fermare il riscaldamento globale. E la malaria uccide un bambino ogni trenta secondi. E probabilmente non esiste l’aldilà. E comunque, quanto è ridicolo Cecilia, come nome? Cos’è, finto italiano? Non le stavo chiedendo una conversione, solo di mangiare insieme e semmai impegnarci in pratiche benignamente perverse. Si credeva meglio di me? Era meglio di me — altrimenti perché mai le avrei scritto? — ma ciò non la autorizzava a pensarlo, né tantomeno ad agire a quel modo. Sono meglio di molta, molta gente, ma non ne faccio un vanto. E sapete una cosa? Non avevo nemmeno usatola mostarda! Perché mi venne in mente solo allora? Il sale, sì. Il ketchup, colpevole. Ma la mostarda non l’avevo toccata. Nemmeno mi piace, la mostarda. Detesto la mostarda. La teoria di quel cretino di un ceco era che si deve pagare per ciò che si usa, stando a quella logica — stando alla sua logica — avevo pagato un quinto di troppo. Potevo tornare al ristorante e chiedere indietro il corrispettivo di quella frazione di condimento. Ma come potevo dimostrare di non aver usato la mostarda? Gli avrei fatto sentire il mio alito, ma erano passate già diverse ore. E non volevo dargli la soddisfazione. Quando tornai in albergo, ero esausto e quasi distrutto. Disegnai una pubblicità contro Praga per il New York Times, sapendo che non avrei mai potuto permettermi di pubblicarla, ma ottenendo una piccolissima vittoria a livello di idee. La misura di una vittoria è quasi sempre inversamente proporzionale alla sensazione di trionfo. Nel letto a dimensione stanza della stanza a dimensione letto, al bagliore intermittente dell’unica lampadina, decisi di controllare la posta un’ultima volta. Non potevo tollerare il pensiero che lei-conl’innominabile-nome si fosse magari fatta sentire, avesse sporto una mano digitale verso il mio cuore battuto ma battente, avesse scritto: «Scusa se mi ci è voluto tanto a risponderti. Giornata folle, te la racconto dopo. Non mi crederai, e invece sì. Mi crederai perché sei tu. Qui stiamo chiudendo bottega, e mi piacerebbe tanto accettare quella cena e quella fantasia masturbatoria narcisistica, se ancora ti va. Ho sentito che odi la mia città adottiva. Ho sentito che non ti piace il mio nome. È che hai pensato a voce molto alta. Credi che io ti consideri un seccatore, invece per me sei eccezionale. Ho sentito che facevi incubi sullo tsunami. Ho sentito che hai il tunnel carpale dell’anima: ogni cosa leggera ti pare pesante. Ho sentito che hai sentito tuo padre dire a tua madre: “È un peccato che ci siamo trovati, io e te”, ma è stato trent’anni fa. La memoria è lunga, Ruben, ma la vita è breve, ma l’esperienza è infinita. Sono così felice che sei venuto. Non c’è niente di meno magico dei giorni. Non capita mai niente. Ma sei capitato tu. Sei capitato a me. Avresti potuto fermarti alla tua richiesta, ma non l’hai fatto. Saresti potuto rimanere intrappolato sotto il ghiaccio della tua timidezza, ma non è stato così. Non è meraviglioso che per quanto della nostra vita terrena sia già dietro le nostre spalle, continuiamo a credere che l’incredibile non solo sia possibile ma inevitabile? Accadrà. Accadrà. Solo, non a noi. Ho vissuto la vita più noiosa nella storia dell’umanità. Sono stata seduta con le mani in mano e il cuore in un pugno. Non credo in nulla da anni, ma non ho mai smesso di credere nell’importanza di credere. Accadrà... Accadrà....E avevo ragione a essere tanto stupida. Avevo ragione ad alzarmi ogni mattina. Avevo ragione a temere che sarei morta senza mai esser vista per intero da nessuno, ma avevo torto a nascondermi dietro quella paura, ma ragione a svegliarmi ogni mattina con queste parole sulle labbra: Accadrà. Anche se non a me, accadrà. Avevo ragione perché sei arrivato tu. Tu sei arrivato da me. E tu sei perfetto, amore mio. Tu sei la cosa ideale». Traduzione di Francesco Pacifico © RIPRODUZIONE RISERVATA

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SPETTACOLI

Officina

Ronconi “Il palcoscenico è tutto il resto non conta”

ANNA BANDETTINI

L

e autocelebrazioni gli si addicono poco. «È tutto lì, in palcoscenico», ripete con pazienza da guru Luca Ronconi, mentre mostra, un po’ reticente e per la prima volta in pubblico, alcuni fogli di carta disegnati, strani schizzi, ghirigori. «Cose che hanno valore solo per me, come fossero delle rune — dice guardandoli — Sono schizzi di come immagino possa essere una scena. Per il resto lo spettacolo lo tengo a mente tutto. Mi faccio in testa le possibilità di un lessico scenico che poi in parte è mantenuto, in parte è a perdere... Quaderni di lavoro? Diari? Ma no, non ho niente da scrivere. Se scrivessi, crederei troppo a quello che faccio. E se

DAGLI SCHIZZI ALLA SCENA / 1 Nella foto grande, Mariangela Melato in Nora alla prova da Ibsen, che ha debuttato a marzo e riprenderà a settembre; a sinistra, appunti di Ronconi sul copione di Quel che faceva Maisie di Henry James e appunti per La vita è sogno di Calderón de la Barca

Il regista mostra per la prima volta gli appunti da cui prende forma il suo teatro

E racconta come ha cominciato, il prossimo debutto e perché ha aperto una scuola: “Vorrei insegnare ai giovani che andare controcorrente non vuol dire fare quello che vuoi”

ci credessi perderei la curiosità di andare avanti. Anche per i grandi spettacoli ho fatto così. Ne Gli ultimi giorni dell’umanità, per esempio, lo spettacolo da Karl Kraus che feci al Lingotto nel ’91: nell’opera tutto si conosceva attraverso i giornali, la stampa. Da lì mi venne l’idea di mettere in scena le grandi linotype, non da chissà quali elucubrazioni. Il buon risultato è se cose così ovvie restano ovvie o comunicano altro». Nessuno come Ronconi, il più carismatico regista del teatro italiano, una delle poche eccellenze italiane conosciute in tutto il mondo, dimostra quanto «la creazione artistica» sia una cosa terrena, un puzzle di innesti, più che di profonde meditazioni, dove trovano posto attori, scenografi, costumisti, persone che lavorano, provano, e poi fatica, sale da lavoro, dedizione, routine. «Quando provo uno spettacolo sono otto, dieci ore al giorno di lavoro. Poi la sera a casa c’è in testa una specie di moviola, rivedi quello che hai fatto e cerchi di capire gli errori, perché un attore trova una difficoltà, come fare a rimuoverli». Il punto di partenza, spiega, è sempre il testo. «Non solo testi teatrali, però. Quante volte ho messo in scena romanzi in quanto romanzi, senza farne trasposizioni; o saggi scientifici, epistolari. A volte può diventare teatro anche solo uno spazio come mi capitò con XX, che feci all’Odéon di Parigi nel ’71: era un’azione in venti stanze che diventava spettacolo. A me succede questo: che non solo quando leggo un testo teatrale ma qualunque cosa mi capiti a tiro, la colloco immediatamente in una possibile scena. L’idea di trasferire in un tempospazio quello che sta sulla pagina scritta l’ho sempre avuta, anche quando avevo vent’anni. Ogni cosa, non solo il testo teatrale, ogni pagina letteraria può avere nello spazio la sua forma ideale». Quali letture, fantasie, autori diventi-

no i suoi spettacoli autorevoli, difficili, mai banali non è facile dirlo. «Prendiamo le ultime regie, per esempio: la commedia di Bond che ho fatto al Piccolo Teatro, La compagnia degli uomini e Nora alla provache ho fatto con lo Stabile di Genova. Nel caso di Ibsen è chiaro che possono essere cose che mi lavorano nella memoria, testi che conosco da tempo e che negli anni cambiano fisionomia. Quello di Bond, invece, è un testo che conosco da quindici anni e mi è sonnecchiato in testa prima di venire fuori. Oppure uno spettacolo può nascere da spunti diversi: una volta può essere l’incontro con un attore o un’attrice, un’altra volta un avvenimento storico. Anche una scommessa che faccio con me stesso. A pochissime, tra le tante cose che ho fatto, posso dare il nome di progetto, intendendo qualcosa di prefigurato, meditato. Il mio modo di lavorare è sempre stato una sfida: fino a che punto un testo può essere trasferito in scena?». Racconta di quando nel ’69, per il leggendario Orlando Furioso, aveva tra le mani i fogli sparsi della traduzione di Edoardo Sanguineti pensando alla possibile rappresentazione. «Mi ero fatto la riflessione lapalissiana che le cose andavano rappresentate una dopo l’altra perché nel libro sono ovviamente cosi. Invece quella volta, nello studio, per sistemarli misi i fogli sul pavimento in ordine sinottico. Capii che era la successione giusta. Quella mappa sul pavimento divenne lo spettacolo». In questo momento sta lavorando a un nuovo allestimento. Sul palco del Piccolo Teatro di Milano di cui è il consulente artistico, sta seduto al tavolo, una bottiglietta d’acqua, un pacchetto di caramelle e il testo aperto su La modestiadi Rafael Spregelburd, «un autore che mi fece conoscere Franco Quadri due anni fa. Mi piacciono gli autori che per linguaggio e strutture drammaturgiche

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DAGLI SCHIZZI ALLA SCENA / 2 Dall’alto, La vita è sogno di Calderón de la Barca al Piccolo di Milano nel 1999; Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare nel 2008

portano qualcosa, non dico di nuovo perché alla novità non ci credo, ma qualcosa che spinge il teatro oltre le sue convenzioni, come Beckett, Genet: autori e non confezionatori». La modestia debutterà il 24 giugno al festival di Spoleto e poi al Mittelfest, con un quartetto di attori coi fiocchi: Maria Paiato, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Francesca Ciocchetti, praticamente tutti o quasi sue “scoperte”. «Non scelgo gli attori per aderenza fisica al personaggio, visto che ho fatto recitare a Mariangela Melato una donna che ha trecento anni in L’affare Makropoulos di Karel Capek e una bambina di nove in Quel che faceva Maisie di Henry James. Il lavoro con gli attori è ovviamente centrale. Inizialmente

fanno quello che credono e io stesso sono curioso di vedere cosa viene fuori. Il lavoro importante, talvolta anche lungo, è quello cosiddetto a tavolino sul testo: una ricognizione, una prefigurazione di quello che sarà. Leggere insieme il testo è un modo per assorbirlo. Ma quanto alle interpretazioni, aveva ragione Von Hoffmansthal quando diceva che la profondità va cercata nella superficie. Io parto dal presupposto che sotto i testi non c’è niente. Basta leggerli facendo le connessioni giuste, ampliando lo sguardo». Ci sono attori che farebbero il diavolo a quattro per partecipare a questo “studio” ed è anche per loro che Ronconi si è

inventato Santa Cristina. È il suo centro teatrale in Umbria, un luogo da sogno. In un riparato casale immerso nel verde, tra biblioteche e sale prove, gli attori lavorano, studiano e vivono assieme, dormono in stanzette da due, mangiano nella sala soggiorno, provano. Una cosa a metà tra scuola d’eccellenza e follia perché sta in piedi con i soldi del regista e poco altro. «Ho voluto creare Santa Cristina per dare ad attori giovani professionisti uno spazio

aperto dove fare esperienze non necessariamente finalizzate a rappresentazioni. È importante che i giovani sappiano che lo spettacolo “cotto e mangiato” è negativo soprattutto per loro. Studiano una cosa, la dicono male ed è già fatta. No. Recitare è un lavoro di scavo, di studio, ricerca. Mi fanno tenerezza — e lo

vedo anche tra gli allievi della scuola del Piccolo — i giovani che vorrebbero fare Macbethpensando: “Finora l’hanno fatto così, io lo faccio in un altro modo”. Mi sforzo di far capire loro che andare controcorrente vuol dire rompere un codice estetico, non fare quello che ci pare». Come questi pensieri raggiungano il pubblico è un’altra storia. «Il rapporto col pubblico è un incontro. Non lo incateno a credere in quello che faccio io. Mi piace che gli spettatori vedano in quello che faccio ciò che possono vedere. Che poi è il mio modo di stare al mondo: essere liberi. La libertà di chi fa teatro e la libertà di chi viene a vederlo, è la grande verità che sostiene il teatro. Da sempre». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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le tendenze

Fu la diva degli anni Venti. Appena sbarcata da Saint Louis nella Parigi capitale del mondo, con quella sua esplosiva sensualità fece innamorare Picasso, Hemingway, Le Corbusier, Simenon. Oggi la moda torna ad attingere al suo stile,

Ruggenti

e ai suoi pendenti su gambe nude, per disegnare una donna tanto autoironica quanto sicura di sé

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LAURA LAURENZI on c’è star, non c’è diva che evochi gioia di vivere e insieme esotismo come e più di Josephine Baker. E non meraviglia che gli stilisti e la moda si guardino indietro e pensino a lei come a un’icona di modernità e di liberazione, simbolo e testimonial dei cosiddetti “anni folli”. Gli anni del charleston, del divertimento, della leggerezza, dell’edonismo, della vitalità rumorosa con cui si divorava ogni giorno come se fosse l’ultimo. Anni — sì — folli e smemorati, ma con un lampo di disperazione nel loro tramonto: i roaring twenties, i ruggenti anni Venti che si chiuderanno con il terrificante crac del ’29. E dunque con la fine dei giochi. E fu subito tutto esaurito. Josephine, che in una nota canzone dell’epoca fa rima con charmante et divine, arriva a Parigi da Saint Louis che ha solo diciannove anni e nel breve volgere di una notte — basta che si mostri, basta che si muova e che balli — ha la capitale del mondo ai suoi piedi. Nessuna come lei incarna con tanta naturalezza e tanto furore l’esotismo alla moda e il mito del primitivismo così caro alle avanguardie. Pudore è una parola che lei non conosce o che nel suo vocabolario ha un significato diverso. «Una Venere di Modigliani coperta solamente di qualche piuma» la descrive una recensione della Revue Nègre con cui la Baker debutta al teatro degli Champs Elysées in un numero creato apposta per lei che si intitola La danza dei selvaggi, il 2 ottobre del 1925. Oggi la moda attinge al suo stile, alla sua energia, alla sua femminilità istintiva ma anche alla sua ironia. E dunque ai suoi monili, alle sue piume, ai suoi pendenti, ai suoi fili di perle, ai suoi ornamenti tribali e metallici, alle sue frange ma soprattutto all’esiguità delle sue vesti frastagliate per disegnare una donna sicura di sé e del suo fascino, le gambe molto nude, le braccia anche, la linea degli abiti scivolata e spesso a vita bassa, mai volgare: ed è proprio questa la sfida. A Saint Louis Josephine era la bambina più povera della città, nata in un ospedale per prostitute, e a Parigi diventa una regina. O meglio: è la principessa tam tam. «Con questo sembrerai vestitissima», le dice Jean Cocteau inventando per lei il celebre gonnellino di banane. Non ha bisogno di

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1. L’OROLOGIO Ispirazione anni Trenta per l’orologio Lady Hamilton Vintage: nel cinturino convivono elementi in pelle e in acciaio

2. L’ANELLO È in oro bianco con diamanti crema La creazione di Annamaria Cammilli, opera unica

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IL MANIFESTO Josephine Baker con la sua “gonna banana” in un manifesto di Paul Colin del 1927

5. IL CERCHIETTO Ha la base in argento e tante piume il “cerchietto piuma” che porta la firma di Giovanni Raspini

Come

3. LA COLLANA Oro rosa, opali rosa, onice e diamanti nella Sautior Collection Evasions Joaillières di Cartier

4. IL GIROCOLLO Mimì alterna anelli d’oro rosa e perle Appese alla catena due boule con perle d’acqua dolce viola e zaffiri bianchi

una lunga chioma per sedurre e infatti lancia il taglio alla garçonne, tanto che Marinetti paragonerà la sua testa alla «più dolce noce di cocco». Hemingway la descrive come «la donna più sensazionale che si fosse mai vista o si vedrà. Alta, pelle color caffè, occhi d’ebano, gambe di paradiso, un sorriso da cancellare tutti gli altri sorrisi». La sua grazia esplosiva ipnotizza René Clair, Le Corbusier, Picasso, Erté, Picabia, Calder. Che ammiratori, e che anni. Georges Simenon, presto suo amante, le fa pure da segretario, le insegna a leggere e scrivere, e anche le buone maniere. Fonda per lei un giornale, il Josephine Baker’s Magazine, di cui esiste solo il numero zero. Eric Remarque la definisce «il soffio della giungla nel mondo civilizzato d’Occidente». Incanta anche le signore. Colette la descrive come «la più bella pantera e la più affascinante delle donne». Sono passati quasi novant’anni da quell’innamoramento collettivo, ma la vitalità e l’ondata di libertà e di pienezza, il ritmo, la velocità, il desiderio di divertimento rappresentati da quella donna-icona sono più moderni e contemporanei che mai. La moda rispecchia sempre un’aspirazione: Josephine, charmante et divine. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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6. LA POCHETTE È in raso di seta, con applicazioni di cristalli swarovski e metallo la borsa firmata Giorgio Armani

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7. LA SCARPA Tomaia in velluto e suola con banane pop art in cuoio e gomma per i sandali di Bernard Willhelm per Camper

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Frida Giannini / Gucci

“Corto, colorato, con tante piume e molte frange ecco l’abito giusto per questa estate” LAURA ASNAGHI èun filone esotico che tiene banco nella moda estiva, quella riservata alle serate mondane, dove occorre avere l’abito giusto per essere perfette party girl, indipendentemente dall’età anagrafica. A Frida Giannini, direttore creativo di Gucci, il marchio che ha fatto di questa tendenza uno dei suoi punti di forza, abbiamo chiesto da cosa trae spunto questo modo di vestire, decisamente glamour ma sempre contrassegnato da lievi tocchi «animaleschi», con piume, decori, ricami e colori brillanti. A cosa si deve questa voglia di sedurre sfruttando richiami esotici? «Tutto parte da un desiderio innato nelle donne, che è quello di sentirsi belle e di divertirsi con abiti moderni, grintosi, iper ricercati ma facili da indossare». A quali donne si è ispirata? «In una collezione non c’è mai una sola donna che domina la scena. Basta vedere il tableau con ritagli di foto e di appunti assemblati da uno stilista quando prepara una collezione per rendersi conto di quanti sono gli elementi che concorrono alla creazione di una collezione. Ecco perché nei miei abiti ci sono riferimenti allo chic felino di Florinda Bolkan, in versione anni Settanta, piuttosto che all’esotismo di Josephine Baker, con richiami etnici che si rifanno alla tradizione delle donne berbere e al caldo esotismo mediterraneo. Il tutto tradotto in una chiave moderna e sexy». Ci fa l’identikit di un suo abito estivo? «Innanzitutto è corto, ben al di sopra del ginocchio, ed è un concentrato di decori metallici, frange, piume e intrecci. I colori sono ricercati e decisi: si va dal giallo oro al verde ottanio, dall’arancione al viola, al blu iris».

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La sua donna vuole stare al centro dell’attenzione. «Non c’è dubbio. Anche perché è sicura di sé e sa, in ogni momento, come valorizzarsi. Ma la sua forza è nell’ironia, che non guasta, unita alla voglia di divertirsi e farsi notare». Questi abiti hanno quindi come obiettivo esaltare la femminilità in maniera forte? «L’abito è una proiezione della propria personalità. Ecco perché si dice che “un vestito parla di te”. E in questo momento le donne che hanno bellezza, carattere e testa hanno bisogno di abiti che parlino il loro stesso linguaggio». Orli corti e tacchi alti: è questo il giusto mix? «Per l’estate 2011 la moda va così. Con i miei abiti preziosi, i sandali devono essere alti, molto sexy, con intrecci di lacci in velluto colorato e listini oro». Secondo lei, perché in questo momento c’è voglia di una moda che metta insieme eleganza, savoir faire ma anche il piacere di una zampata felina? «Perché le donne che rientrano in questo mood vogliono essere protagoniste e capaci di esercitare un grande fascino. Sono dotate di quel “certo non so che” che le rende intriganti, magiche, misteriose. Insomma, sono magnetiche e sanno come scatenare l’interesse di chi le guarda». Cosa suggerisce alle donne che vogliono essere eleganti e moderne senza scadere nell’esagerazione degli eccessi? «Di dosare bene tutti gli elementi che compongono un look: abito, accessori, trucco, capelli. Se si osa su tutti, si può rischiare di eccedere, ma se si dosano bene tutte le componenti, il risultato sarà sicuramente moderno, grintoso e allo stesso tempo elegante».

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12 8. IL CAPPELLO

9. GLI ORECCHINI

10. I SANDALI

11. I PENDENTI

12. LA CLIP

Cloche in rafia lavorata in crochet È la proposta per l’estate 2011 per chi ama lo spirito libero e scanzonato del cappello Borsalino

Frutti, animali e figurine femminili adornano i fantasiosi orecchini pop di Prada. Rigorosamente esotici e rigorosamente in plastica

Tacco altissimo e fiocco in punta è il must per l’estate 2011 che ritroviamo nel sandalo in raso pensato da Santoni

Sono in oro, diamanti e perle di Tahiti gli orecchini di Damiani collezione Ninfea. Per una donna elegante e di classe

Cristalli colorati e piume di resina arricchiscono gli orecchini a clip proposti da Maliparmi per l’estate 2011

13. SEXY

14. SOLARE

15. MINI

16. BAMBOLA

17. LUMINOSA

Ispirazione anni Venti per l’abito scollatissimo Louis Vuitton in seta ricamata con fili di perline nere e due bande a contrasto, rosso e oro

Abito in tweed giallo intenso ricamato con piume. Da abbinare a scarpe aperte in pelle scamosciata con bordi in metallo e tacco in tweed. Chanel

Gucci propone un miniabito in macramè di nappa intrecciata a mano color quarzo. Da indossare su bikini a triangolo e bootie spuntati

Abito in crochet di chiffon blu intrecciato con effetto Tie&Die e scollato sulla schiena La mise di Dior per l’estate

Abito corto in chiffon di seta con nastri di seta lucidi Da abbinare a sandali in pelle stampa rettile. Boss Black

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i sapori D’Italia

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Vellutate di carote vivacizzate da una spruzzata di zenzero, lombate al profumo di coriandolo, filetti di orata resi sfiziosi da pomodorini canditi. Tecnologia e ricette da tutto il mondo hanno modernizzato le nostre tavole, a cominciare dalla preparazione dei cibi. Come ci insegna un classico della cucina a più di sessant’anni dalla sua prima edizione

LICIA GRANELLO

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mmergete la carne in abbondante acqua fredda, portate a bollore, lasciando cuocere lentamente...». C’erano una volta i libri di cucina. Una sequenza ininterrotta di ricette codificate nel tempo: antipasti, primi, secondi, dolci, e poi ingredienti, grammature, tecniche, tempi di cottura, stampelle imprescindibili per generazioni di famiglie. A sessant’anni dalla prima edizione, il nuovo Cucchiaio d’Argento ci racconta un modo diverso di concepire la tavola. Perché la cucina è cambiata così tanto da non poter più essere definita con scansioni e modalità tradizionali. Certo, gli ingredienti-base sono quelli di sempre: farina e zucchero, olio e carne, pesce e verdure... Ma le cucine del mondo che si sono affacciate negli ultimi anni hanno cambiato l’ordine e il numero degli addendi. La vellutata di carote d’antàn, in cima a tutti i menù ospedalieri e d’infanzia, oggi viene firmata da una grattugiata di zenzero fresco, l’insalata mista che perseguita i dannati della dieta si vivacizza con il chutneydi mele e ribes, lo stinco viene cotto nel sidro, la lombata di maiale si profuma di coriandolo. Perfino i filetti di orata, così candidi e banali, diventano ipersfiziosi grazie a pomodorini canditi e vaniglia. Le stesse tecniche di preparazione hanno cambiato status. Siamo passati da acqua&fuoco — bolliti, arrosti, stufati, grigliati, in teglia — a sottovuoto, azoto liquido, piastre a induzione, microonde, osmosi, sifoni, forni ventilati e al vapore... Un universo di tecnologia culinaria che si affianca, integra, a volte sostituisce in toto gli strumenti tradizionali, piccola rivoluzione figlia del modo diverso in cui stiamo imparando ad alimentarci. Basta osservare i minutaggi delle cotture, per capire come il crudo si vada lentamente a sostituire al cotto,

Cucchiaio d’argento Il nuovo che avanza

dal pesce in giù. O come le marinature — con carte assorbenti progressive, grazie a ginger e spezie o in purè di fagioli, zucchero e sale — abbiano sostituito le classiche, a base di aceto o limone, ad alto tasso di condizionamento gustativo. Le nozioni di base, quelle non si toccano. Perché, come sostiene Ferran Adrià, «solo dopo aver mandato a memoria i sacri testi della cucina tradizionale, si può lavorare con la fantasia, che diventa l’unico limite di un grande cuoco». Quindi, via libera ai burri composti e alle paste lievitate, alla sfilettatura del pesce e alle salse da versare col sac-à-poche. Ma la nuova cucina vive anche di glossari aggiornati, dove tra stufato e tartare c’è spazio per la tajine e il tandoor, strumenti simbolo della cucina araba e indiana. La ricetta dei nachos col guacamole— l’irresistibile mix messicano di sfogliatine di mais e salsa d’avocado — va a braccetto con quella dei cubotti fritti di guancia, l’elenco degli apporti calorici si accompagna alle piramidi nutrizionali, i verbi della cucina — da abbattere a velare — non possono prescindere da wok e centrifuga. Se poi vi siete appena imbattuti in un magnifico trancio di coda di rospo in pescheria, compratelo senza dubitare del risultato finale: al forno con patate o spadellato col Martini Dry sarà comunque buonissimo.

Linguine al pesto Basilico pestato con aglio e sale, montato con extravergine, pecorino, Parmigiano. Ideale per linguine, con patate e fagiolini

il libro È appena tornato in libreria il Cucchiaio d’Argento (Editoriale Domus, 1318 pagine, 49 euro), storica bibbia gastronomica con due milioni di copie vendute e dieci edizioni straniere Giunto alla nona edizione, forte di duemila ricette, è curato dalla giornalista e scrittrice Clelia D’Onofrio

Patè di tonno Tonno frullato con le acciughe, mantecato con burro e limone Riposare in frigo in stampo oliato Servire con crostini e crudité

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230 d.C. vengono compilati i dieci libri del De re coquinaria

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esce La scienza in cucina di Pellegrino Artusi

la prima edizione del Cucchiaio d’Argento

Vellutata di zucca

Tra un arancino e una Divina Commedia

Cottura in brodo vegetale con cipolla e aglio Frullare e profumare con noce moscata Per rifinire un filo di panna e pepe

Chicchi d’uva con caprino Caprino lavorato con gocce di limone, trito di pinoli, aromi sale e pepe, per farcire i chicchi aperti e scavati

Pizza di pennette La pasta al dente e condita con olio viene compattata su una teglia oliata Pelati e mozzarella Infornare per 15’

Trigliette con uvetta

Anatra all’arancia Fasciare con pancetta dopo aver farcito con burro e salvia Rosolare con vino e brodo Al fondo di cottura unire succo e scorza d’arancia

Nella teglia, le triglie deliscate con olio, aceto, uvetta, pinoli, sale e pepe Cuocere sul fuoco e ultimare in forno

ppure mia madre correggeva il Cucchiaio d’Argento, come mio padre correggeva, nientemeno, la Divina Commedia: «… fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza». Mia madre diceva che gli arancini si fanno «con la carne sfilacciata, perché tritata la mangiano i cafoni». Mio padre aveva contato in Dante almeno «sette “conoscenza”, sempre “conoscenza”, e una sola canoscenza, quella di Ulisse. Perché?». Mia madre concludeva: «Non esiste il manoscritto degli arancini». E neppure esiste il manoscritto della Divina Commedia. Entrambi erano convinti che la vera sapienza non è scritta, ma orale. Una mamma cuoca, per dire, non prenderà mai sul serio l’idea (Savarin) che «ha un sapore particolare la coscia su cui la pernice si appoggia dormendo». Ebbene, il Cucchiaio, sostituendo la coscia ben scritta con la coscia ben mangiata, fu il primo libro «nutriente». Eliminò gli aggettivi che sono roba da digiunatori e adottò per sempre l’imperativo plurale «condite» senza la confidenza oleosa del «condisci», o peggio la pappa scotta del «condirete», né tanto meno lo sciapo «condire» o il pepato «lo si condisca». Insegnò che anche le parole si mettono a fuoco e «se il sugo è venuto grasso, sgrassatelo». Conquistò dunque le cucine d’Italia perché non fa pensare a una mano che scrive, ma a una voce che parla, una voce di mamma che crea e nutre e rimanda all’indicibile: «quando il battuto è ammorbidito mettete l’anguilla». Ma quando il battuto è ammorbidito? E se l’anguilla, ancora viva, scivola via per tubi e per anfratti? Frutto dello scisma con Il Talismano della felicità, il Cucchiaio fu la modernità che portava in cucina il mito della Donna Pratica. La casalinga diventava housewife ed è un peccato che non ci sia nel nostro cinema una Alberta Sordi senape e mostarda che usa “la cucina americana”, il fridge e frulla sedani nel mixer. Nel Cucchiaiodi quegli anni non c’è l’inglese dei cretini cognitivi di oggi, ma ci sono, ovviamente, il curry, l’hamburger e il porridge, né si poteva fare a meno del francese, entrèes, omelettes, bouchèes,crêpes, pot-au-feu… E c’erano il gaspacho e il kugelhupf. Le lingue vanno usate ‘sq’: secondo quantità. Mia madre raccomanda le vecchie edizioni, quelle senza matematica: «quanto basta», «un bicchiere di vino», «un pizzico di sale». E «il burro deve fondere, ma non friggere». Che vuol dire? «Vuol dire il tempo di un Padrenostro» tagliava corto mia nonna. Nato nel 1950, il Cucchiaio sedusse infine anche le nonne d’Italia negli anni frettolosi della Tecnica, gli anni in cui il Paese si risvegliava e l’essere aspirava al benessere, il vivere al saper vivere, l’abbondanza diventava ghiottoneria, la povertà si mutava in modestia: non più sapori forti ma piaceri. Perciò vinse la guerra alla pesantezza dell’Artusi e alle stranezze dello Scappi, il cuoco dei Papi: «Battonsi otto uova che siano di almeno tre settimane ché sono migliori delle fresche…». Ecco: passava la voglia di mangiare.

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Millefoglie con patate Burro, paprika e latte per lavorare le patate lessate A strati la crema e il manzo scottato sotto il grill

Tiramisù Montare tuorli e zucchero e unirli al mascarpone Aggiungere i bianchi a neve A strati, savoiardi spennellati col caffè, crema e cioccolato grattugiato

FRANCESCO MERLO

Roger G. Newton

La fisica dei quanti sfida la realtà

Einstein aveva ragione ma Bohr vinse la partita prefazione di Giulio Peruzzi

L’avvincente dibattito sull’interpretazione della meccanica quantistica e sulle profonde obiezioni di Einstein riguardo alla descrizione della realtà.

Bavarese di mandarino Tuorli montati, cotti a bagnomaria con succo e bucce di mandarino Gelatina, panna e panpepato

Giulio Peruzzi

Vortici e colori Alle origini dell’opera di James Clerk Maxwell Uno sguardo inedito all’opera di Maxwell per capire le radici della scienza e della tecnica di oggi.

www.edizionidedalo.it

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l’incontro

Per la prima volta andò sott’acqua con una maschera antigas dimenticata dai soldati. Fu subito amore, ma prima di diventare il sub dei record fece per un po’ il pescatore e per anni l’informatore medico. Ora che ne compie ottanta, fa il bilancio di una vita: “I peccati che commetti in superficie li espii sempre in salita La posizione migliore per l’uomo resta quella in piedi, perché la testa è molto più vicina al cielo”

Gente di mare

Enzo Maiorca

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SIRACUSA

o vedi incresparsi come acqua di porto al ruggire di un ricordo, lo senti impennarsi come onda al riaffiorare di un legittimo orgoglio, lo ascolti farsi scuro e buio sotto la coltre di un dolore pudico. Ha il mare dentro Enzo Maiorca. Lo ha, certo, negli occhi, ma è nella voce che lo riconosci. Ottant’anni fra una manciata di ore per questo siciliano fiero che se ne sta sul bordo di Siracusa. Sotto una jacaranda che sparge petali blu sul prato e tende i rami oltre la baia, verso Ortigia. «Sembra un mazzo di fiori in omaggio al mare». Racconta una vita in apnea, a testa in giù nel profondo e nel freddo, per inseguire un sogno, un record, un traguardo. Ma è nella risalita che si misura l’uomo. «Tutti i peccati che commetti in superficie li espii in risalita, l’askesis greco, l’ascesi è espiazione». Giù è la temerarietà di un’immersione a capofitto nel buio lungo una corda: 30, 50, 60 metri. E poi, ancora, con i timpani che quasi esplodono, «un dolore lancinante», fino al limite e oltre: 101. Ma bisogna tornare su. «Pinneggiare con le gambe che sembrano insugherirsi, farsi legnose, il cervello che manda impulsi e loro che vorrebbero bloccarsi». Lì, di fronte a quella «fatica improba», serve volontà. Il trionfo, la gioia che stringe tra le dita il cartellino è rimasta sotto, qui e ora c’è da tornare alla luce. Con i polmoni che chiedono aria e il cuore che vuole tornare a battere al tempo della vita. Rinunciare: accade. Per paura. «È una giusta compagna che ti tiene vigile». Fuggire: no. Nei ricordi di Enzo Maiorca c’è Tonin, un alpino bellunese, rimasto da solo a mitragliare contro gli inglesi, che planando sugli alianti in una baia ormai muta, avevano espugnato la costa il 10 luglio del 1943. Tonin, l’angelo che volava sull’acqua tuffandosi dalle rocce, è

in divisa a difendere l’indifendibile, asserragliato al suo posto da combattimento su un tappeto di camicie nere abbandonate dai fuggiaschi. «Io ero stato educato a credere nel dulce et decorum est pro patria mori. Trovavo la fuga vergognosa. Ma gli Hitler e i Mussolini non mi sono mai piaciuti». Più in là nella memoria ci sono dei sommergibilisti superstiti «inzuppati e sanguinanti» portati all’ospedale, a bordo di un carro inglese. «Quella sera cessarono i lamenti e tutti insieme cantavano il Nabucco». Battuti, ma non perdenti, a loro modo fieri e vivi. Enzo Maiorca aveva dodici anni allora. Quelle vicende segnarono le scelte di un uomo che non è «mai stato fascista» ma votava Msi e, al Parlamento, nel 1994, andò da senatore di Alleanza nazionale, restandoci per due anni, trascorsi a litigare. «Vissi in uno stato di attrito permanente. Non ho mai sopportato i colonnelli. Rifiutai la ricandidatura: me ne torno al mare, gli dissi». Primo giorno a Palazzo Madama, il suo primo no. «C’era da votare il condono edilizio. Come facevo?». Mare e cemento non vanno d’accordo. «Anche adesso, vogliono massacrare questa costa con il progetto di due porti e di un villaggio. Hanno immaginato un’isola artificiale, cemento e mattoni sulle necropoli, follia pura. Tacciono sui reperti che stanno in fondo al mare. Non vogliono che affiorino, tutto verrebbe vincolato». Con la figlia Patrizia e “Sos Siracusa” sostiene una campagna quotidiana contro la speculazione e a difesa della splendida riserva naturale del Plemmirio. I progetti si sono incagliati sulla muraglia dell’indignazione che Maiorca puntella senza troppe illusioni. «A nord di Siracusa pagammo il prezzo all’industrializzazione del petrolchimico, creando generazioni di “spostati”, contadini e pescatori entrati in fabbrica, sradicati dal loro ambito e dalle loro idee. Allora, negli anni Cinquanta, ci sembrava un giusto prezzo per uscire dalla miseria. E così questo mare lo abbiamo visto di tutti i colori: rosso, grigio e con le mèches. Ci consolava sapere che rimaneva salva la costa di levante e quella a sud. Non è così, niente è più al riparo dalla voracità». Rievoca, pietra dopo pietra, scoglio dopo scoglio, ogni metro della sua costa passeggiando con Maria, la compagna di una vita. Si conobbero sul treno che riportava lei e il padre in città dalle celebrazioni dell’Anno Santo. Lui, diciannovenne, figlio di Guglielmo, un borghese che viveva curando i propri giardini, tornava dall’università: studi in medicina, poi interrotti. «Roma era un compromesso, quasi un ricatto. Volevo fare l’ufficiale di Marina, mio padre me lo vietò.

Ma ciò che mio padre mi ha negato me lo sono ripreso e con fatica. Conquistato per modo di dire, perché il mare non si lascia prendere da nessuno». Va fiero della medaglia al merito della Marina, per le imprese sportive e «l’ardore nella difesa del mare». Per il bambino che se ne stava ore appollaiato alla finestra della casa di Grottasanta a scrutare l’azzurro non doveva esserci altro destino. Fu mamma Gemma, toscana, a lasciarlo nell’acqua incoraggiandolo a pescare le telline. E fu con una maschera, rabberciata cucendo e incollandone una antigas abbandonata dai soldati, che vide il fondo per la prima volta. «Entrava acqua da tutte le parti, ma potevo guardare». La fidanzata, poi moglie, gli regalò la sua prima vera maschera da sub e a Ischia, in viaggio di nozze, lui le insegnò gli stili del nuoto. Lui che non pesca da molti anni, da quando sentì pulsare il cuore di una cernia appena infilzata, fece il pescatore per vivere. Dovette industriarsi, quando, a venticinque anni, decise che con Maria avrebbe messo su famiglia. Poi informatore medico scientifico per trent’anni.

“Per tornare su c’è da pinneggiare con le gambe che sembrano insugherirsi

Il cervello manda impulsi ma loro vorrebbero solo bloccarsi”

«Era il mio lavoro, quello con cui mi guadagnavo lo stipendio. E mi piaceva. Come mi avevano insegnato, illustravo i difetti di un prodotto prima di esaltarne i pregi, ora dappertutto è un raccontare di virtù nascondendo il peggio. È l’epoca dei venditori, l’epoca di Berlusconi». Il giro di ambulatori per alimentare la passione. «Le immersioni, i record, lo sport, quello mi ha dato da vivere e tanto, ma non i soldi». Anche i giorni del primato divennero trattenute in busta paga, per un congedo a zero assegni. Aveva smesso per lunghi anni, dopo la bestemmia in diretta tv nel 1974 per un cameraman incrociato tra la sua testa e il cavo. «Successe di tutto in quella settimana, all’ultimo giorno utile per tentare, prima di una libecciata imminente, un altro cameraman andò in ebbrezza da abissi e strappò tutti i contrassegni segnametro. Il giorno dell’incidente ritardammo di cinque ore l’immersione perché il cavo si era avviluppato intorno a quello della tv e per liberarlo, anziché utilizzare gli arnesi della nave appoggio, calarono un palombaro. Avrei forse dovuto dire di no ma significava anche rinunciare al fascino della tv». Negli anni lontano dai record, Patrizia e Rossana, l’altra figlia, crescevano tra barche, bombole e apnea. Furono loro a convincerlo a riprendere. E arrivarono stagioni di successi per quel trio di padre e figlie che si emulavano a vicenda. «Rossana aveva qualcosa in più che la portava a fare determinate cose con naturalezza». Rossana se n’è andata per una malattia, sei anni fa. «Non è vero che il tempo è medicina. Non c’è giorno in cui Maria e io non torniamo nei posti dove siamo stati con lei. Era più capace di me, poteva fare di tutto». Per quella figlia strappata c’è stato l’orgoglio e perfino una punta di rivalità. Ora c’è il ricordo continuo, avvilente che tormenta «chi non crede nell’aldilà». È un’unica gigantesca macchia in una vita felice. «Mi piace vivere. La mia è stata una vita piena e densa». La voce si infrange sugli scogli della sofferenza. Serve pinneggiare per risalire. Altri ricordi: Jacques Mayol, l’antagonista dai duelli memorabili, morto suicida all’Elba. A sorpresa, Maiorca tira fuori il suo nome quando si tratta di indicare chi gli era più simile. Anni di cronache a descriverli diversi che più non si poteva: il siciliano a ragionare, il cino-francese più incline al misticismo, la battaglia sulla sceneggiatura del film di Luc Besson, Le Grand Bleu. «Eravamo affini, il punto di contatto stava nel rispetto con cui ci muovevamo nell’acqua. Passavamo ore a litigare sulle correnti marine che invalidavano la giusta misura dei nostri successi. Mi

manca Jacques». Negli anni della sfida a spararsi bordate oltre il limite dello sberleffo, nei successivi a rievocare quelle stagioni come protagonisti di un’epopea in cui i computer si chiamavano elaboratori elettronici. Il mare li teneva insieme, sull’altare di un sogno in cui l’acqua è dio, il mondo perfetto, con l’equilibrio da sfiorare nel silenzio di un corpo che gli scivola dentro. «Credo in qualcosa, credo nel mare ed è lì che ritrovo il rumore del silenzio». Il mare come religione, come disciplina, come etica. E in fondo al mare c’è sempre l’uomo. Parla attraverso i cocci di un’anfora, i ferri di uno scafo. «Quando ti imbatti in un reperto, pensi alle speranze alle illusioni agli ideali di quell’uomo vissuto anche tremila anni fa». Si illumina con i colori «del corallo che si incendia sotto la torcia, in una grotta che è un tempio giù nel canale di Sicilia, in un trionfo di luce filtrante da due fori in cima alla volta». A volte parla con rintocchi di campana a morto, come nel fondale di Capo Passero. «Era a poppa di un piroscafo affondato. Provai a disincagliarla senza riuscirci e la sentii suonare mentre risalivo. Tornai giù ancora una volta e la sentii suonare di nuovo. Ero turbato ma attratto, mi avvicinai e scorsi un gigantesco polpo abbarbicato alla campana che con uno dei tentacoli batteva ritmicamente sulla parete». La memoria viva di quell’immersione è sull’avambraccio destro di Maiorca: il suo unico tatuaggio. Ora i giorni sono occupati dalle battaglie per il mare, dai libri, dai nipoti e dal periplo di Ortigia. Maria è sempre accanto. Al mare torna quando può, quando il cuore glielo permette. «Fa qualche bizza ogni tanto», dice con noncuranza. Poi racconta del ricovero nel 2005 e dei medici che dissero: «Lei ha chiesto tanto a questo cuore: è giusto che lo lasci riposare un po’». Ma immaginarlo in ozio è impossibile, del resto «la posizione migliore per l’uomo è in piedi, perché la testa è più vicina al cielo». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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ENRICO BELLAVIA

Repubblica Nazionale