LA VITA E' BELLA di Roberto Benigni Cast : Roberto ... - Webdiocesi

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Finalmente Benigni ha fatto un vero film da regista e non soltanto una pellicola a ... No, La vita è bella si pone sulla scia di Chaplin, di Zavattini, di Capra, di Tati.
LA VITA E’ BELLA di Roberto Benigni Cast : Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Giustino Durano sceneggiatura : Roberto Benigni e Vincenzo Cerami Anno : 1997 di Marco Vanelli Ebbene sì, il miracolo si è verificato. Finalmente Benigni ha fatto un vero film da regista e non soltanto una pellicola a misura delle sue capacità clownesche (sempre le stesse, per altro) e, cosa assai più importante, ha fatto un bel film. Per carità, nulla di straordinario, ma certamente una bella storia, elaborata, coerente, narrativamente ben condotta. E per di più significativa e educativa. È probabile che con questo film Benigni acquisti simpatie in chi poco lo apprezzava in precedenza, e che forse ne perda tra chi ama la battuta volgare, la parolaccia e il doppio senso. No, La vita è bella si pone sulla scia di Chaplin, di Zavattini, di Capra, di Tati. Precedenti di tutto rispetto, quindi, che Benigni non riesce certo a raggiungere, ma sta di fatto che il suo film cerca di coniugare comicità e vita. Vita vera, con i suoi valori più autentici quali l’amore, la solidarietà, la fantasia cui si contrappone quell’abisso di malvagità che è stato l’Olocausto. Su queste pagine negli anni passati ci siamo già trovati a consigliare la visione di Schindler’s List o di Jona che visse nella balena sul medesimo argomento; la novità di questo film sta nell’impostazione umoristica volta a dimostrare come nessun male possa intaccare la bellezza della vita. Il titolo in questo senso è emblematico: anche in una prova come quella dei campi di sterminio (quindi il peggio che in questo secolo si sia verificato) è possibile mantenere viva la gioia grazie alla donazione di sé. Il protagonista, l’ebreo Guido, è come incapace di vedere il male intorno a sé, non perché esso non esista (le leggi razziali, il lager), né perché egli sia ingenuo, ma perché il suo sguardo è volto al bene. E il bene per lui sono le due persone che ama: la maestra, nobilitata da lui in principessa, e il figlio coinvolto in una continua trasfigurazione del male in un gioco a ostacoli. A queste due figure sono dedicate la prima e la seconda parte del film. La prima, meno riuscita, racconta la liberazione da parte di Guido della maestrina vittima delle convenzioni e della mentalità piccolo borghese fascista. Lui la salverà come un principe azzurro con tanto di cavallo (verde). La seconda, punto forte del film, racconta dei tentativi di Guido di salvare il figlio dalla camera a gas, ma soprattutto di non fargli perdere fiducia nella vita. Tutta l’esperienza nel lager è riletta con l’amore di chi protegge un indifeso dall’infamia più grande: quella contro la dignità umana. Alla forza delle armi Guido contrappone quella della fantasia; alla logica del sopruso, quella della speranza; all’egoismo, la carità. Non saranno poste a caso quelle battute nella prima parte del film, dette dallo zio: «Impara da Dio, lui è il più grande servitore: serve tutti gli uomini. Ma non si umilia, perché sa di non essere un servo». E qui Benigni ci dà un grande insegnamento: farsi servo sapendo di non essere servo. L’integrità morale contro la disintegrazione fisica. La morte, che pure c’è e su cui non si scherza, è però vinta dalla risurrezione che nel finale riunisce le due persone amate da Guido. E che il personaggio di Guido abbia tutti i crismi per poter essere paragonato a Dio ce lo conferma Benigni stesso, in quel suo monologo filmato di qualche anno fa, Tuttobenigni dal vivo, in cui si rivolge al Creatore preferendo chiamarlo Guido, anziché Dio — nome troppo ipegnativo. Dato l’abituale riversamento di massa a vedere i film del comico toscano c’è da aspettarsi — soprattutto in coincidenza con le feste — il tutto esaurito nelle sale. Questo non può che rallegrarci, perché una volta tanto il grosso pubblico si troverà a riflettere su temi davvero natalizi. E poiché il film è strutturato in modo tale che non si può non riflettere (non è cioè pensabile che la gente si diverta senza coglierne il valore) è più probabile che il Roberto nazionale sia abbandonato per il più evasivo Pieraccioni. Del quale non c’è spettatore che abbia visto Il ciclone che non dica: «almeno mi ha fatto passare due ore rilassato». Con La vita è bella non ci si rilassa — anche se ci si diverte — ma si pensa e si esce diversi da come siamo entrati. Il pericolo di deludere gli spettatori che si aspettano di ridere e basta è accentuato dal fatto che nella pubblicità (trailer televisivi, poster) non si fa il benché minimo riferimento al tema dei campi di concentramento. Evidentemente è un tabù da non infrangere per quel pubblico che oltre a Benigni andrà a vedere anche A spasso nel tempo 2.

Intendiamoci, il film non è esente da difetti, soprattutto nella prima parte. Il più evidente è la recitazione (o meglio la non recitazione) di Nicoletta Braschi, che sa solo sorridere. Poi l’incapacità di fondere i gag nella storia, creando spesso rallentamenti allo sviluppo del racconto. Si veda la sequenza del fidanzamento, a metà tra la comicità classica (il cameriere che scivola) e le suggestioni felliniane (il Grand Hotel, la torta, i costumi): è tirata per le lunghe per divertire, anche se il suo scopo narrativo è la fuga finale. La sequenza in macchina sotto la pioggia è imbarazzante tanto è girata male e recitata peggio, come pure quella iniziale dei freni della macchina rotti non è certo nuovissima. Nel lager non si capisce perché il bambino venga lasciato con Guido e non internato con gli altri bambini (cui pure si accenna), o perché qualcuno abbia i capelli rasati e qualcuno no. Ci sono buchi nella sceneggiatura (perché far rientrare in ballo la nonna e poi farla scomparire al momento che la figlia vuol partire con i deportati?) e errori quali far scendere lo zio dal treno con la camicia bianca pulita così come era quando è partito. Al suo attivo vanno invece segnalate la recitazione di Giustino Durano (e un plauso a Benigni per aver scovato questo grande caratterista del passato) e del bambino Giorgio Cantarini, bravissimo. La musica di Piovani una volta tanto non è lagnosa e la fotografia di Delli Colli solare nella prima parte e cupa nella seconda. Merito grandissimo è poi il non cedere mai, nemmeno per un momento, al sentimentalismo. Sarebbe stato un errore gravissimo, cui Benigni ha dimostrato di saper resistere. Pensate quanti comici, al suo posto, non si sarebbero riservati una scena di disperazione solitaria, di pianto, di morte straziante. Con grande intelligenza il regista fa morire Guido fuori campo e non cerca mai di commuovere lo spettatore con lacrimucce ruffiane. Ma, tornando al valore globale del film, soprattutto se paragonato ai precedenti del suo autore e al successo del conterraneo Pieraccioni, non possiamo che consigliare vivamente i catechisti dei ragazzi dalle medie in su di accompagnare i ragazzi a vederlo affrontando successivamente una discussione sui temi che propone e sulla svolta — che di svolta si tratta — di Benigni rispetto a Johnny Stecchino o al Mostro. Potrebbe essere un modo per capire cosa ci sta dietro la logica del divertimento a tutti i costi, quello per il quale siamo disposti a lasciare il cervello in riposo (anche noi adulti, non solo i ragazzi) in cambio di due ore di rilassamento. (da: “Educare alla Fede”, gennaio 1998)