Stephen King - La Repubblica

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24 ott 2010 ... ca di Stephen King è, per quantità e a volte per qualità, .... più belli, Il miglio verde , l'ultimo tratto di strada ...... cavaliere Jedi e poi sedotto.
Domenica La

DOMENICA 24 OTTOBRE 2010 / Numero 298

di

Repubblica

l’attualità

Quel cimitero chiamato Mediterraneo ENRICO BELLAVIA

cultura

L’altra faccia di Robert Doisneau MICHELE SMARGIASSI e AMBRA SOMASCHINI

STEPHEN

KING

la

fabbrica dell’orrore VITTORIO ZUCCONI

L

STEPHEN KING WASHINGTON

a premiata fabbrica dell’orrore “King & Famiglia” cominciò con un investimento di venticinque centesimi. Era il “quartino” con il quale Ruth King ricompensò il figlio per avere scritto a dieci anni una favoletta per bambini: Il coniglio magico. Come la moneta infilata in un juke-box sapeva scatenare suoni, voci, rimbombi, così la piccola ricompensa di una mamma evocò dalla mente di un bambino chiamato Stephen un sabba di terrori e di orrori, di incubi e di succubi, di adolescenti demoniache e alberghi satanici che dopo sessant’anni, quarantanove libri e cinquecento milioni di copie tradotte in trenta lingue, hanno fatto di questo miope, timido, ex alcolizzato ed ex cocainomane non un candidato al Nobel per la letteratura, ma qualcosa di più. Un “brand”, come le orecchie di Topolino o le corna del diavolo. (segue nelle pagine successive)

S

tavoandando sulla mia Batmobile ed ero diretto in banca, quando all’improvviso ho sentito puzza di qualcosa. Ho fermato la macchina e ho abbassato il finestrino elettronico ed ecco che mi si avvicina un imbranato e mi fa con cipiglio: «Ho sentito che ce l’hai con la maternità», dice, con un sospiro. «Spari ai tuoi insegnanti di liceo e proibisci ai tuoi uccelli di volare. Meglio che te ne vai da qui prima che te le suoni...» Io gli ho detto: «Che cosa faresti se Jesse venisse in città?» Ma proprio in quel momento arriva uno sbirro strabico e dice: «Chi credi di essere? A me pare che somigli a John Wilkes Booth, e faresti meglio a scendere da quella macchina». Comincia ad arrivare gente in crocchie e cricche e trecce e senza una parola cominciano a picchiarmi con gli hula hoop. (segue nelle pagine successive)

Cominciò con una favola innocente

FOTO CORBIS

è diventato lo scrittore delle nostre paure Ora un libro svela le sue

spettacoli

L’epopea senza fine di Star Wars PINO CORRIAS e CLAUDIA MORGOGLIONE

le tendenze

Single men, matti per lo shopping ILARIA ZAFFINO

l’incontro

Mario Botta, progetti in punta di matita IRENE MARIA SCALISE

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

la copertina Incubi

DOMENICA 24 OTTOBRE 2010

Vecchi appunti. Primi racconti. Le foto da bambino. Il giornalino della scuola. Alla rinfusa, nella sua fabbrica-laboratorio, lo scrittore che non vincerà mai il Nobel perché è già un brand, conserva il segreto del suo successo: un padre fuggito di casa, un’adolescenza da perdente, quella notte in un hotel del Colorado

A svelarlo ci pensa adesso un libro che archivia gli spettri di una vita

Nelle stanze buie del King of Horror VITTORIO ZUCCONI (segue dalla copertina) almente identificato con i suoi agghiaccianti personaggi, insieme adorato e detestato per le sue creature, è Stephen King, che un’anziana signora «coi capelli arancioni», ricorda lui, incontrandolo in un supermercato del Maine dove vive, lo aggredì a borsettate accusandolo di averle impedito per anni di dormire. «Perché, se sei tanto bravo con le parole, non scrivi una storia bella e commovente come The Shawshank Redemption (Le ali della libertà) invece di quelle bruttezze?». «Ma... ma... l’ho scritta io», tentò di difendersi King. «Bugiardo», tagliò corto la signora incredula e indignata. Dalla sua fabbrica dell’horror, che oggi possiamo visitare nei dettagli più segreti, potrebbero un giorno uscire fiabe gentili e cantici francescani. Ma per sempre la marca, o il marchio di fabbrica, sarà la paura. Anche se la produzione letteraria e cinematografica di Stephen King è, per quantità e a volte per qualità, più da stabilimento di automobili di serie che da raffinato carrozziere (scrive almeno dieci pagine ogni giorno, e ha sfornato almeno un libro all’anno dal primo pubblicato nel 1973, Carrie) il mondo nel quale vive e lavora tra le abetaie e le coste rocciose del Maine è in realtà, più che fabbrica, un laboratorio. Ora che un autore americano, Bev Vincent, lo ha raccontato e ricostruito in un minuzioso studio illustrato (Tutto su Stephen King, martedì in uscita in Italia per Sperling & Kupfer) arricchito da copie di manoscritti, correzioni, appunti sui tovagliolini di carta, foto di lui bambino, si può entrare come mai prima nel mondo interiore di questo dottor Frankenstein del brivido. È possibile ora osservare il processo di concezione e di creazione dei suoi cani mostruosi, dei suoi cimiteri di zombie, delle fan dementi. Spiare come la vita di questo sessantatreenne — King è del 1947 — si attorcigli e si dipani nelle sue creature a volte troppo credibili, per non essere davvero spaventose. Poiché in ogni pagina di qualsiasi autore, in ogni fotogramma di regista o pennellata di pittore c’è sempre la traccia di chi l’ha prodotta, la visita nella fabbrica laboratorio del “King of Horror” offre molte, ovvie sug-

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gestioni. La prima, sulla quale lui preferisce sorvolare, ci porta all’anno 1950 quando lui, bambino di neppure tre anni, diede il rituale bacino sulla guancia del padre che era uscito la sera «a comperare la sigarette» e che, come nelle barzellette più tristi, non rientrò mai più. Divenne un orfano bianco, senza neppure il relativo, ma definitivo, conforto della morte, abbandonato nella dissolvenza infinita di un rifiuto cosciente insieme alla madre, Ruth, e al fratello adottivo, il più grande. Tre anni sono troppo pochi per ricordare, ma abbastanza per avvertire il vuoto di un’assenza che si fa concreta con il trascorrere del tempo. E otto anni sono abbastanza per capire che cosa era accaduto a un compagno di scuola nell’Indiana, dove la madre aveva traslocato inseguendo lavori d’occasione per mantenere i due figli, che aveva giocato a rincorrere un treno merci e ne era stato maciullato. Lui nega, rifiuta ogni associazione fra la scoperta della crudeltà deliberata o casuale della vita e le sue creature maligne, ma nella fabbrica ci sono sparsi a terra troppi rottami, troppi utensili spezzati per potergli credere davvero. Stephen era un bambino, e soprattutto un teenager, parecchio bruttarello, afflitto da una miopia che lo costringeva dietro occhiali montati in nero — i soli che la madre potesse permettersi — e spessi come fondi di bicchiere, sopra un viso da dork, come dicono crudelmente i ragazzi, da secchione, da perdente, tagliato da un folto sopracciglio nero e continuo come la indimenticabile Mariangela, la figlia del ragionier Fantozzi. È dunque difficile non riconoscere in Carrie, la ragazzina rifiutata e umiliata dai coetanei che si vendica ferocemente dei suoi tormentatori con i propri poteri soprannaturali, qualcosa di quell’adolescente infelice, ignorato dalle compagne in fiore, che aveva trovato nella scrittura e nel foglio di carta — diresse il giornalino del liceo — la rivincita e il rifugio inattaccabile. Carrie fu il suo primo romanzo pubblicato da Doubleday e amorevolmente curato da un redattore della casa editrice, quel Ben Thompson che avrebbe poi scoperto e imposto John Grisham, con un anticipo sui diritti di duemilacinquecento dollari. Poca cosa anche nel 1973, abbastanza soltanto per acquistare un orrida Pinto Ford usata che si affrettò a perdere per strada la cinghia di trasmissione due giorni più tardi. Quei duemilacinquecento dollari sarebbero divenuti, pochi mesi più tardi, i cinquecentomila dell’edizio-

ne economica in paperback e poi gli ormai incalcolabili milioni che lui lascia in deposito presso gli editori che glieli investono, ricevendo un assegno annuale, oggi, di cinquecentomila dollari, per evitare le tasse e rimandarle alla vecchiaia con aliquote più basse. Ma se in Carrie c’è il King ragazzino, anche in Shining, nel personaggio del padre della famiglia Torrance che approda nell’hotel del Colorado chiuso per l’inverno e viene risucchiato dalla forza diabolica del luogo, c’è lui, l’autore. La figura del padre, che Kubrick affidò all’immenso Jack Nicholson per il film, è nel film un alcolizzato, come lo era, per sua ammissione, King in quel periodo della vita. E proprio in un albergo prossimo alla chiusura, tra i monti del Colorado, aveva trascorso una notte la famiglia King, cercando uno dei bambini che si era perso nella vuota immensità di un palazzone dove loro erano gli unici ospiti. E, quasi a voler lasciare un altro indizio, nella parte del direttore dell’orchestra spettrale, c’è proprio l’autore. Stephen King. Nel cimitero degli animali zombie di Pet Sematary, una storpiatura dell’ortografia corretta, «Cemetery», scritta da un bambino sopra un autentico cimitero per «pets», per animali domestici, era stato sepolto pochi giorni prima di scrivere il romanzo, il gattino di famiglia, misteriosamente morto tra la disperazione dei bambini. Per scrivere uno dei suoi romanzi più belli, Il miglio verde, l’ultimo tratto di strada che il condannato a morte percorre, pretese di sedersi su un’autentica sedia elettrica, di essere incappucciato come lo sono le vittime, per nascondere ai testimoni lo spettacolo della testa che fuma e prende fuoco sotto l’effetto della scariche. «Se avessi potuto farmi investire dalla corrente senza morire, lo avrei fatto», disse. In Misery, la storia dello scrittore salvato e poi torturato da una fan che lo vuole possedere nella sua desolata solitudine, le allusioni sono persino troppo ovvie. È il tuo lettore, il tuo tifoso,

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LE FOTO

I DOCUMENTI

A sinistra, Stephen King al telefono nel suo studio nel 1980; in fondo alla pagina, lo scrittore sul set dello spot per l’American Express girato nel 1985

Nell’altra pagina, riviste studentesche in cui comparvero scritti del giovane King; sotto, l’originale de Il quarantatreesimo sogno che pubblichiamo

IL LIBRO Uscirà il 26 novembre Tutto su Stephen King Alla scoperta di un genio: scritti autografi, lettere, fotografie, disegni inediti e memorabilia di Bev Vincent (Sperling & Kupfer, 192 pagine, 40 euro) I documenti di queste pagine e il racconto di King sono tratti dal volume Il 23 novembre, per la stessa casa editrice, uscirà anche Notte buia, niente stelle (480 pagine, 20,90 euro), quattro romanzi brevi tradotti per la prima volta da Wu Ming 1

L’inedito, 1966

Bottiglie di scotch e manici di scopa STEPHEN KING (segue dalla copertina) o scappo dietro l’angolo ed entro in un bar e il barista è Jack lo Squartatore e ha un bel po’ di cicatrici da manico di scopa. «Ho bisogno di bere qualcosa», dico, «mi sento parecchio male». Lui versa ma vuole sapere dov’è il mio manico di scopa. «Non ne ho uno e perché avrei dovuto?» gli faccio io e lui mi tira addosso una bottiglia di scotch, ma la sua mira non è molto buona. Corro nel retro dove i ragazzi stanno giocando a carte, il mazziere è cieco, grasso che è una montagna di lardo. Gli rubo tutti i soldi ma lui mi colpisce con il suo bastone, io gli lascio delle matite e vado giù per lo scarico della cucina. È molto buio e l’odore non è buono, prendo la prima a destra e mi ritrovo alla Lisbon High, come mi aveva detto un topo gentile. Mi pettino i capelli e filo al mio corso preferito, quello di intrecciatura capitalista, che è sempre stato una goduria. La sorvegliante era Barbra Streisand, l’insegnante Capitan Uncino; gli ho detto che ero il redattore di un ricettario della Strunk & White. Proprio in quel momento suona la campana e noi lanciamo tutte le nostre palle da bowling, l’insegnante mi prende in testa e mi manda in detenzione. «Sto diventando matta!» si mette a gridare una ragazza. Ha le calze rosse e il trucco verdeblu cielo. «Non venirmi a raccontare i tuoi problemi», le dico io battendomela, quando finisco addosso a un tizio in uniforme. Credo che sia Capitan Bligh. «Adesso ti appendiamo a un pennone», dice con un’aria un po’ tetra. «Volevamo Ponzio Pilato, ma tu ci somigli abbastanza». «La supplico, signor Bligh», dico io, «mi dia solo un’altra occasione...» È lì che arriva questa gnocca, Brigitte Bardot dalla Francia. Ma giusto in quel momento mi sono svegliato, e stavo giusto pensando, non è che direi di no a un altro sogno, ma non proprio come quello. Traduzione di Tullio Dobner

il tuo spettatore che ti nutre, ti salva dalla miseria degli inizi, quando la moglie, Tabitha, recuperava dalla spazzature le pagine che lui buttava dopo il rifiuto degli editori, ma ti avvinghia e alla fine ti consuma. Lo dice la dedica del libro, fatta a tre sconosciuti dai nomi generici che «sanno perché lo dedico a loro, ahi come lo sanno». Non è una fabbrica luminosa, un atelier da pittore bohémien il luogo dove ci porta la visita, come non c’è molta luce, se non per qualche forzato happy endingappiccicato alla fine dei romanzi, per far contento il pubblico e l’editore. Non c’è la luce della fede religiosa, che King confessa di non possedere anche se un tempo pronunciava sermoni domenicali per una chiesetta metodista. «Rispetto chi crede, ma il potere della religione sulle menti più deboli, la sua capacità di corruzione mentale mi spaventa», osa dire. «I fondamentalisti di ogni fede sono squilibrati, spesso convinti di possedere o di avere testimoniato fenomeni paranormali, miracoli, eventi psichici». Non riesce a vedere una razionalità, una coerenza negli eventi umani «forse perché siamo troppo vicini alle cose» e proprio lui, angoscioso cantori di morti che tornano, non crede nell’altro modo e certamente non nei ritorni. La madre, quella che aveva fatto partire il juke box dell’horror con i 25 cents, morì pochi giorni prima della pubblicazione del suo primo libro, Carrie. «Una sera in un albergo di Londra chiesi al concierge di trovarmi un angolo tranquillo dove lavorare e lui mi portò in un studiolo dove c’era una vecchia scrivania. Ci lavorai freneticamente per tutta notte e al mattino mi disse con un sorrisetto: era la scrivania sulla quale Rudyard Kipling morì di emorragia cerebrale, lavorando tutta la notte». Su uno dei suoi tavoli da lavoro c’è soltanto una traccia, un segno che dietro questo industriale della paura c’è quel bambino aggrappato al solo amore vero che abbia conosciuto, quello per Tabitha, la moglie incontrata all’università del Maine, quarantatré anni or sono. «La morte non mi interessa — scrive — sbatti le palpebre e te ne vai. Quello che mi interessa è sapere come possa l’amore sopravvivere alla morte, come so che il mio per te, Tabitha, sopravviverebbe». Anche nella fabbrica più cupa, c’è un angolo luminoso. © RIPRODUZIONE RISERVATA

(The Stephen King Illustrated Companion © 2009 Bev Vincent Published by arrangement with becker&mayer!, LCC Bellevue, Washington © 2010 Sperling & Kupfer Editori Spa)

FOTO THE STEPHEN KING ILLUSTRATED COMPANION © 2009 BEV VINCENT PUBLISHED BY ARRANGEMENT WITH BECKER&MAYER!, LCC BELLEVUE, WASHINGTON. © 2010 SPERLING & KUPFER EDITORI SPA

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l’attualità Testimoni

DOMENICA 24 OTTOBRE 2010

Un giorno Gabriele Del Grande comincia a raccogliere le storie di chi cerca invano di raggiungere l’Europa: annegati in mare, dispersi nel deserto, asfissiati nei Tir, assiderati nelle stive degli aerei, torturati in carcere. Presto diventa l’unica fonte attendibile sulle reali cifre del dramma: 15.059 vittime dal 1988, un genocidio

Il ragazzo che conta i clandestini ENRICO BELLAVIA

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FIRENZE

l ragazzo che conta i clandestini odia che lo si chiami ragazzo e non usa mai la parola clandestini. Gabriele Del Grande ha ventotto anni, ha trascorso buona parte degli ultimi quattro nel Nordafrica. Ha raccolto le storie di chi è partito per mare alla volta dell’Italia, della Spagna o della Francia e non è più tornato e di chi è finito in centri di permanenza che sono galere, tra torture e violenze di ogni tipo. Ha sbugiardato così la fredda logica dei respingimenti, raccontando di come si muoia per una barca che si spezza o in cella da innocenti. Ha descritto come sono le prigioni libiche finanziate dall’Italia e a che prezzo siano crollati gli arri-

vi dal mare. Ha rilanciato gli appelli di chi è finito nel girone infernale delle prigioni tunisine diventando un desaparecido. Ha messo in fila le cifre e ne ha ricavato quella che chiama la «scoperta»: 15.059 vittime dal 1988. Due morti al giorno per ventidue anni. Un genocidio. È nata da qui, da questo numero, l’idea di abbandonare il lavoro all’agenzia Redattore sociale per mettersi a cercare le facce e le vite dei coetanei ingoiati dal mare e dei padri, delle madri e dei fratelli, rimasti ad aspettare e a sperare l’impossibile. «Avevo i numeri ma non avevo le storie. Non sapevo nulla di quella gente. Volevo capire, andare a fondo, conoscere». I primi contatti con le comunità che vivono in Italia, poi il viaggio alla scoperta del perché, a ondate, quelle persone sfidano il mare su legni sfasciati per arrivare in Paesi che ne hanno un disperato bisogno ma dicono di non volerli. E mascherano con mille sinonimi l’idea di una frontiera sbarrata. «La prima conclusione è che dietro la retorica della disperazione c’è l’ansia e la voglia di generazioni di africani di mettersi in discussione, di provare a fare meglio, di comprarsi una casa, spo-

“I parenti e gli amici dei desaparecidos mi chiamano dalla Libia o dalla Tunisia per avere notizie” sarsi, mandare i figli a studiare. Dietro la retorica della disperazione c’è solo una tensione al riscatto da una condizione frustrante. Poi ci sono gli esuli, i perseguitati, quelli che avrebbero diritto all’asilo che nei loro Paesi conoscono la tortura e qui vengono trattati come criminali». Ecco perché in mezzo alle mille storie di chi è partito, la costante è l’ansia di far presto, di guadagnare tempo e opportunità. C’è Merouane che lavorava nello studio grafico di famiglia ad Annata, nell’Algeria dove un tempo emigravano gli italiani, e voleva andare in Francia dalla Sardegna e Redouane che il padre inco-

raggiò a partire perché non finisse i suoi giorni a raggranellare spiccioli in una baracca di Sidi Salem riparando cellulari. C’è chi aveva già pronto un piano per arrivare in aereo con un visto turistico e che una notte, senza dire nulla, ha smesso di attendere che la burocrazia corrotta truccasse le carte e si è messo in viaggio rimanendo da qualche parte in fondo al mare. «Sono ragazzi come me che non se la sentono di trascorrere un’esistenza dai confini già tracciati, che hanno il desiderio di crescere e migliorarsi come chiunque altro. È semplice ma è così». Gabriele ne ha incontrati tanti pronti a partire. Li ha visti consumarsi nella noia dell’attesa tra i tavolini dei bar, spezzarsi la schiena di fatica per racimolare quanto basta a farsi staccare un biglietto di sola andata in direzione Europa. «Le frontiere in realtà sono già aperte, la stragrande maggioranza di chi arriva qui viaggia in aereo. Solo chi non ha abbastanza soldi o non ha voglia di aspettare, provando e riprovando, sceglie il mare». Le storie che Gabriele Del Grande ha messo insieme sono pubblicate in tre li-

bri che un combattivo editore, Infinito edizioni, gli ha pubblicato e che hanno spopolato in un mercato che c’è e non si vede e che ha regalato a questo toscano vagabondo dall’aria scanzonata, premi, riconoscimenti e un’autorevolezza fatta di citazioni perfino sul New York Times. Gli si riconosce di avere scoperto quello che era sotto gli occhi tutti: le dimensioni di una catastrofe immane. E di non essersi fermato alle cifre ma di essere partito per andare a raccontare le lacrime, il sudore, il sangue che c’è dietro la maschera di un numero. «Non mi piace che mi sia dia del ragazzo, in questo Paese sembra più una condanna che un merito essere giovane e aver voglia di fare. Anche quella dell’età finisce per essere una specie di categoria che non ti fa essere una persona ma un’etichetta come quella di immigrato o migrante o clandestino». L’ultimo libro di Del Grande si intitola Il mare di mezzo. È il Mediterraneo ma anche lo spazio che divide chi tra le due sponde ha sogni e speranze identiche. «Mi sono reso conto che non c’era molta differenza tra me che viaggiavo e loro che partivano. Solo quel mare». Il primo re-

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I CASI SUL CAMPO MINATO

STRAGE DI NATALE

CANALE DI OTRANTO

VOLO KILLER

DENTRO I CAMION

NEL SAHARA

Il 15 maggio 1989 una barca con venti migranti naufraga al largo di Ceuta: è una delle prime tragedie del Mediterraneo

Nel ’94 quattro uomini sul confine turco-greco muoiono dilaniati dalle mine: uno dei casi segnalati in questi anni

Così è chiamata la tragedia avvenuta il 25 dicembre 1996 nel canale di Sicilia: affogano in mare 283 migranti

Il 28 marzo 1997 una motovedetta della Finanza sperona la Kater I Rades: annegano 108 albanesi, molte le donne e i bambini

A Gatwick, 1999, volo British Aiways: uno dei tanti casi di migranti trovati morti assiderati nelle stive di un aereo

Nel 2002 a Caserta, dentro un Tir, vengono rinvenuti i cadaveri di nove migranti morti asfissiati Non è l’unico caso

Solo dal 2000 al 2005 sono almeno duemila e cinquecento i migranti morti attraversando il deserto del Sahara

ILLUSTRAZIONE DI GIPI

CEUTA, IL CONFINE

portage di Del Grande in terra d’Africa è in Mamadou va a morire che lo ha fatto conoscere in giro per il mondo. In poche settimane ha messo insieme cento presentazioni in circoli e istituzioni culturali in Italia e in Nordeuropa. Ma il suo lavoro, quello che ogni giorno serve a tenere il conto e la memoria di chi si è perso nel mare di mezzo, è Fortress Europe: la fortezza Europa, il blog, tra i più cliccati da chi si occupa di immigrazione. Un punto di riferimento anche per i giornalisti che attingono a piene mani al lavoro di Del Grande che giornalista non è: «Non ho la tessera e francamente non credo che mi serva: lavoro, scrivo e racconto. La considerazione di cui godo è data dalla serietà e dall’impegno che ci metto. Poi, aver scritto giornalista sui documenti per la mia attività non credo aiuti». Muoversi per la riva opposta a squarciare il velo che copre le storie dei morti, gli ha attirato più di una grana. Non lo amano in Tunisia dove gli hanno fatto pagare una serie di documentati racconti sulla sanguinosa repressione di polizia della protesta dei sindacalisti nel distretto minerario di Redeyef nel 2008. Tornando a in-

dagare, l’anno dopo, sulla fine dei dispersi algerini forse finiti nelle prigioni tunisine, si trovò nella black list. L’idea di uno che prende rischi senza calcolarli è lontanissima dal modo di procedere di Gabriele Del Grande. Sa di muoversi su un terreno minato: i suoi contatti sono spesso dissidenti dei Paesi in cui si trova, oppositori dei governi, gente che rischia, quella sì la pelle, per una parola di troppo: «Il problema è più per loro che per me. So di mettere a repentaglio la loro vita e la loro libertà e per questo ho l’obbligo di essere cauto». Di poliziotti e barbe finte al seguito durante i suoi giri ne ha avuti parecchi e seminarli non è semplice. Cercavano i suoi taccuini per carpirgli i contatti. Quella volta della protesta di Redeyef dovette mettere tutto su un file, dribblare i segugi che già erano a un passo dalla sua camera d’albergo e mettere in salvo i materiali nel posto più sicuro che conosca: la Rete. La protesta di Redeyef lo ha messo sulla pista della fine che fanno gli esuli e delle torture riferite da chi aveva assaggiato la polizia tunisina. Che non ha gradito tanto zelo. «Dai centri di permanenza, dalle pri-

IL BLOG E IL LIBRO Il blog di Gabriele Del Grande si chiama Fortresse Europe (fortresseurope.blogspot.com) ed è l’osservatorio più autorevole sulle vittime dell’emigrazione. L’ultimo libro di Del Grande si intitola Il mare di mezzo (Infinito edizioni, 222 pagine, 15 euro), un reportage sulle due sponde del Mediterraneo attraverso le rotte dei clandestini

gioni che ho visitato, tengo i contatti con chi è dentro. Spesso le persone arrestate utilizzano un telefono cellulare e il mio numero ormai gira parecchio. Ricevo richieste di aiuto, segnalazioni, denunce su ciò che accade. Per chi viene arrestato prima di espatriare, in Nordafrica non ci sono certezze. A bordo di camion, spesso anche dei container, come quelli utilizzati in Libia, somali, eritrei, sudanesi finiscono per mesi, se non per anni, in strutture speciali lontane da tutto e creduti morti dai parenti. Ormai ho la mia rete di contatti e finisco sempre per avere in tempo reale un bollettino di uno sbarco, tentato o riuscito. Ho informazioni di prima mano che sottopongo a verifica. Con i telefoni cellulari mi arrivano anche riscontri fotografici alle torture e alle violenze denunciate». La prima volta in Africa fu un viaggio in Tanzania imbottito di vaccini, adesso prende il primo volo utile e va, annotando con scrupolo quel che la straordinaria accoglienza culinaria dall’altra parte del mare gli riserva. Messa in un cassetto la laurea in Storia orientale che gli valse una borsa di studio con la quale sono iniziati i reportage, oggi Del

Grande lavora per partire ancora e raccontare altre storie e altri spaccati di un mondo che da qui si fatica a vedere. Un tempo non lontano faceva il cameriere in una trattoria di Testaccio a Roma per mettere insieme i soldi, oggi, tra libri, conferenze e seminari all’università, riesce a vivere della sua stessa voglia di raccontare. «Lavoro su Internet, posso farlo da qualsiasi posto. Ho abitato a Roma e Milano, ho vissuto due anni in Sicilia, adesso sto in Toscana dai miei, ma riparto tra non molto e poi chissà, forse metto su casa ancora a Roma». Ha la consapevolezza di fare qualcosa di grande e di utile. Ma se la cava facile con una battuta: «I miei meriti? Forse i demeriti degli altri. Di chi è pagato, e anche bene, per raccontare quel che racconto io e non lo fa». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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CULTURA*

Lo chiamavano “il Prévert della fotografia”, il suo “Bacio” è diventato la cartolina più venduta. Di lui si crede di avere visto tutto. Invece dagli archivi di famiglia spuntano scatti

inediti che raccontano il lavoro dietro ogni immagine di bistrot, trottoir e cocotte:

la costruzione maniacale di atmosfere che non esistono nella realtà ma solo nel mito

Rive gauche

MICHELE SMARGIASSI acciamo che era Parigi. Facciamo che un pittore dilettante spennellava sul Pont des Arts e un signore si girava a guardarlo (il cane no). Facciamo che un colpo di vento rubava i cappelli davanti alla Madeleine e tutti ridevano, o che due ragazzi si baciavano di fronte all’Hotel de Ville incuranti di tutto. Gli album parigini di Robert Doisneau parlano all’imperfetto: che è il tempo dei giochi dei bambini, sospeso fra immaginario e realtà, tra crederci e non crederci. Gliel’aveva spiegato l’amico Jacques Prévert: «È sempre all’imperfetto dell’obiettivo che tu coniughi il verbo fotografare». Ecco, ci siamo: dici Doisneau e credi di sapere già tutto. Il Prévert della fotografia, il narratore giocoso della Parigi pittoresca, tenero, romantico, “facile”, sorridente. E anche questo libro-monumento con centinaia di scatti, benché pieno di sorprese e di inediti, pare già di averlo sfogliato tutto, ciottoli bagna-

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L’arte di inventare la Parigi perfetta

Doisneau

ti, insegne dipinte a mano, calze con la riga, cani al guinzaglio, bambini, barboni, cocotte, innamorati sul lungosenna e foglie morte e tutto il resto, Paris en rose, Parigi buona e umana e provinciale e semplice e dolce come una crêpe au sucre. E proprio questo invece è il capolavoro di Doisneau: farci credere all’esistenza reale di una Parigi fatta proprio così, che invece lui aveva costruita passo dopo passo sui trottoir, anno dopo anno, senza fretta, perché «Parigi è un teatro il cui biglietto d’ingresso si paga col tempo perduto». Illudendoci che il suo compito fosse invece solo di raccoglierla e incollarla sull’album, come

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39

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I PESCATORI E LE MOSCHE Doisneau aveva intitolato così i due montaggi di foto scattate nel 1972 tratte dalla sezione “Parigi sulla Senna”

Passerotti sul canale In uno di questi giorni felici trovo questo pescatore sul canale Saint-Martin Il pescatore e i passerotti di Parigi sono una fonte di facile colore locale per i fotografi...

Due figlie alla ricerca dell’aura AMBRA SOMASCHINI catti selezionati con cura, infilati nelle scatole tematiche di legno tutte uguali. Didascalie scritte a mano chiuse nelle stesse buste di plastica trasparente. Un lavoro meticoloso, da chirurgo. Parigi, i giardini, la Senna, i bistrot, i cabaret, i music-hall e le facce dei passanti, il trucco pesante, i solchi delle rughe, le smorfie, i sorrisi. E quel bacio in mezzo alla strada strappato al tempo (Il bacio dell’Hotel de Ville) diventato poster, carta da regalo e cartolina. Robert Doisneau aveva schedato in modo quasi ossessivo seicentomila negativi. Francine e Annette, le figlie, li hanno studiati uno per uno e sistemati in due libri. Il primo, pubblicato in Francia da Gallimard, sbarca da noi venerdì prossimo 29 ottobre: Paris Doisneau (Ippocampo, 400 pagine, 39,90 euro), un collage di immagini (perlopiù inedite) e riflessioni. Il secondo uscirà tra due anni. Foto e frasi per catturare emozioni. Scriveva Doisneau nel 1951: «Si chiama aura quella specie di tubo al neon che si accende intorno a certe persone, isolandole per un breve momento. Bisogna sbrigarsi a registrarla perché non regge il movimento». Suggeriva a mademoiselle Anita, abito scollato e filo di perle: «La prego, ferma così, non si muova, poi le spiego». È l’attimo dell’aura, la circonferenza di luce di un istante che le figlie hanno voluto fissare e impaginare: «Sono frammenti che abbiamo trovato nell’atelier di papà — raccontano Francine e Annette — abbiamo impiegato più di due anni per individuarli e sistemarli. Abbiamo assemblato foto, appunti e documenti che erano nel suo archivio personale, altri elementi li abbiamo spulciati tra i vecchi testi esauriti sul mercato editoriale. Un percorso fatto senza mai dimenticare i suoi desideri, quella successione di momenti magici che sanno dare soltanto le foto d’autore». Paris par hasard, Galanterie urbaine, Paris des parisiens, Paris béton... Le sorelle hanno seguito il suo ritmo, hanno rispettato la scansione omogenea nello stesso filone, quello del bianco e nero, quello del grigio urbano del giorno e degli scintillii della notte: «Gli scatti raccontavano il suo mondo. Li aveva suddivisi e assemblati secondo temi e sequenze, li trattava come cortometraggi, sì, come piccoli film. Non sarebbero potuti sopravvivere se non fossero stati legati da una storia per immagini». Annette e Francine hanno selezionato e incollato aiutate da Jean Yves Quierry che ha creato il logo de l’Atelier Doisneau: «Abbiamo fatto una scelta radicale. I negativi erano troppi. Abbiamo voluto raffigurare quello che lui chiamava mon petit théâtre. Alla fine abbiamo escluso la sezione spettacoli, cinema, opera, danza e teatro... La utilizzeremo per il prossimo libro».

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l’entomologo con le farfalle. Ma quella Parigi non esisteva prima di Doisneau e dei suoi amici Izis, Boubat, Ronis, i fotografi dell’umanità ritrovata, i «corrispondenti di pace» (come il solito Prévert disse in realtà del solo Boubat, per l’invidia malcelata di Doisneau). Ragazzi poco più che trentenni nel dopoguerra, quando c’era sete di libertà e bisogno di dimenticare in fretta l’onta dell’occupazione nazista, la vergogna di Vichy e tutte quelle «immagini che sudano sangue». Erano, in tutto il mondo, gli anni d’oro della fotografia umanista: l’ideologia della fraternità planetaria venuta dagli Usa con la supermostra The Family of Man, in Francia prese una piega più nazionale e popolare, incarnata da fotografi quasi tutti orientati a sinistra. Bistrot, negozietti, episodi di strada: la nazione francese umiliata nella sua grandeur ritrovava la semplicità del piccolo comunitarismo di vicinato, il calore dell’angolo di strada, il piacere degli orizzonti stretti. Quello di Doisneau non andava molto oltre le cimase di Gentilly, Val-de-Marne, gli piaceva far credere (non era vero, vedremo) di non aver mai attraversato la Loira, di certo era «turbato dai lunghi viaggi», e per sé aveva coniato la metafora del tappo di vino: che resta bagnato e sano finché la bottiglia sta coricata a riposo, mentre se la metti in piedi si secca e si guasta. Era la sua maschera di umiltà: «Un fotografo intelligente è spacciato», si faceva beffe di Barthes con i suoi studium e i suoi punctume di tutti i semiologi, «seminaristi chiacchieroni che vogliono solo fregare i miei giocattoli». Rivendicava la sua pesca miracolosa in mezzo al «gregge dei pedoni», da «etnologo involontario» che «compone col provvisorio». Piccole sapienti bugie. Doisneau era tutto tranne che un ingenuo collezionista di belle conchiglie sulla spiaggia. Aveva fatto la scuola d’arte e studiato litografia, conosceva i maestri dell’immagine. Era «un iconolatra» colto, un consapevole fabbricante di immagini, padronissimo dei propri mezzi espressivi. C’è la prova. Quando accettò viaggi lontani (sì, anche oltre la Loira: negli

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Usa, perfino in Siberia), il suo stile si adeguò prodigiosamente. In questi giorni al centro Forma di Milano si può godere il ritrovamento del suo reportage (a colori!) su Palm Springs, città-giardino californiana del golf e dell’America affluent: un servizio che gli chiese nel 1960 il grande Walker Evans, allora photo-editor di Fortune. Ebbene, l’occhio che si posa sull’opulenza delle ville con piscina e dei party è freddo, sarcastico, quasi cinico, molto “americano”. Insomma Doisneau sapeva maneggiare alla perfezione la retorica delle forme, e se ne servì per fabbricare e regalare alla sua Parigi un’atmosfera, un marchio di fabbrica, una nuova collocazione nell’immaginario da mettere al posto della Ville lumièreottocentesca e degli années folles prebellici, miti ormai inservibili. Questa nuova Parigi “all’imperfetto”, che sembra aneddotica e vernacolare, è in realtà una città deliberatamente mitologica: la città del bonheur in cui tutti vorrebbero vivere. Del resto, di non essere un testimone nostalgico lo ammise lui stesso: «Lasciare alle future generazioni una testimonianza della Parigi dell’epoca in cui ho tentato di vivere è stata l’ultima delle mie preoccupazioni». Non un archeologo: un regista. «Ci sono messinscena nelle sue foto?» «Certo che sì!». La più famosa è proprio il romantico Baiser de l’Hotel de Ville, la cartolina più venduta al mondo, messa in posa con la collaborazione di due giovani aspiranti attori; ma anche il pittore del Pont des Arts è «completamente montato», e gli sposi nel bistrot assieme al carbonaio non erano neppure fidanzati. Ebbene? È il mestiere del creatore di miti premeditati. Le immagini fintamente ingenue di Doisneau, ha ben visto Régis Debray, «sovracodificano la pariginità eterna» ad uso e consumo di un mondo che la crederà vera e la verrà a cercare negli anni del turismo di massa. E, a sorpresa, la troverà davvero, impacchettata come un souvenir a scala urbana: esempio strepitoso di come le fotografie spesso non riproducono la realtà, ma la creano. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Era il 1977 quando usciva il primo episodio dell’epopea creata da George Lucas. Oggi, dopo due sequel e tre prequel, il regista annuncia un nuovo progetto: i film nelle sale in 3D. Ma milioni di fan non sono d’accordo, come rivela un documentario in programma al Festival del cinema di Roma E ancora una volta veniamo trasportati nella “galassia lontana lontana”

SPETTACOLI

LUKE SKYWALKER PADMÉ AMYDALA

Skywalker Tutto incomincia con Anakin Skywalker, prima iniziato come cavaliere Jedi e poi sedotto dal lato oscuro della Forza e divenuto Darth Vader. Sposa Padmé e nascono due gemelli, Luke e Leia che riporteranno l’equilibrio nell’universo

YODA

Jedi Cavalieri a guardia della Repubblica galattica Le loro armi sono le spade di luce, ma soprattutto la grande conoscenza che hanno della Forza, l’energia che scorre in tutto l’universo

LEIA ORGANA OBI-WAN KENOBI

HAN SOLO

Avventurieri MACE WINDU QUI-GON JINN CHEWBACCA

Han, Chewie e Lando, contrabbandieri e pirati dello spazio, si uniranno alla causa dei ribelli contro l’Impero galattico

CLAUDIA MORGOGLIONE

T

anto tempo fa (gennaio 1977), nella galassia lontana lontana della New Hollywood, il trentatreenne George Lucas mostrò a un gruppetto di amici — tra cui Martin Scorsese e Brian De Palma — la prima versione del suo nuovo film, una storia di fantascienza intitolata Star Wars. Quelle battaglie spaziali di ribelli e buffi robot, condite da una sorta di filosofia sul lato oscuro della Forza, sembrarono agli ospiti prive di senso. Destinate a un umiliante fallimento al botteghino. Perfino la moglie del regista, Marcia, scoppiò in lacrime. Solo Steven Spielberg si mostrò ottimista: «Sono sicuro che guadagnerà cento milioni di dollari». La previsione fu smentita. In positivo, però: la pellicola di milioni ne incassò subito — in quella calda estate di trentatré anni fa — oltre 460. Dando il via alla saga cinematografica più longeva e redditizia: sei pellicole uscite tra allora e il 2005, ripartite in due trilogie (la seconda, in ordine di realizzazione, è un prequel della prima). Capaci di generare un cosiddetto universo espanso (l’insieme di avventure extrafilmiche legate alla serie) di enormi dimensioni: videogame, fumetti, libri, cartoni animati. Per non parlare del merchandising. Ma Guerre stellari è soprattutto un fenomeno di costume intergenerazionale, un mondo adorato da schiere di fan appassionati e ipercritici. Per questo sembra destinato a non morire mai. Anche là dove è nato: sul grande schermo. I primi tre capitoli sono già tornati nelle sale a partire dal 1997, in un’edizione speciale leggermente rimaneggiata. E adesso, altro giro: Lucas ha annunciato la riedizione di tutti i film in 3D. Il primo a sbarcare nei cinema, nel 2012, sarà Episodio I — La minaccia fantasma. Una storia infinita. E controversa. Perché questa nuova iniziativa è stata bocciata senza appello, sui forum internettiani, dallo zoccolo duro dei fan. Gli irriducibili, custodi della purezza della vecchia trilogia: quaranta-cinquantenni fulminati a fine anni Settanta dal primo film, nerd o comunque navigatori web della prima ora (Star Wars ha anche un’enciclopedia online tutta sua, wookiepedia), adoratori mistici della galassia lontana lontana. Un culto con centinaia di migliaia di adepti: americani, giapponesi, europei. Legati al regista di Guerre stellari da un rapporto di passione e insieme di avversione che non ha paragoni, nella cultura pop. Come dimostra un docufilm già cult di scena il primo novembre, fuori concorso, al Festival del cinema di Roma: si chiama People vs. Gorge Lucas, è diretto da Alexandre O. Philippe, è stata definita la migliore geek-opera mai apparsa sugli schermi, e fa parte del ricco pacchetto della sezione Extra, curata da Mario Sesti. Guardare questo film è come entrare in un universo parallelo. In cui regnano passione, fanatismo, feticismo. Con testimonianze illustri: ad esempio lo scrittore Neil Gaiman, che racconta come quell’eGLI EWOK state del ’77 cambiò la vita di tutti. O Francis Ford Coppola, che sottolinea la potenza industriale del fenomeno. O ancora Anthony Waie, produttore esecutivo di 007, che conserva ancora il biglietto di ingresso di trentatré anni fa. Il risultato di questo attaccamento morboso è duplice. Da un lato genera il proliferare di fake movies, amorevoli omaggi o parodie girate dai fan, visibili online e realizzate con ogni mezzo: personaggi di plastilina, costruiti con le bottiglie di whisky, con le uova sode. C’è perfino un sexy-horror: Don’t go in the Endor Woods. Ma esiste anche il rovescio della medaglia. Perché l’adorazione è accompagnata da tanta rabbia: «Io amo e odio Gorge Lucas», dice senza mezzi termini un fan, nella parte iniziale del documentario. Nel mirino, la decisione dell’autore di cambiare leggermente la trilogia classica in occasione dell’edizione speciale del 1997, l’unica tuttora reperibile in dvd. Piccoli ritocchi. Come nella scena della Cantina, in cui — nella versione originale — Han Solo (Harrison Ford) fa fuori senza preavviso un alieno chiamato Creedo. Vent’anni dopo, la sequenza cambia: è l’avversario a cacciare la pistola per primo, il protagonista colpisce per legittima difesa. «Tradimento», gridano ancora oggi gli irriducibili, che hanno creato su Facebook il gruppo “Han Solo Shot First”. Altrettanto critici i giudizi sul tris di pellicole più recenti, considerate non all’altezza delle prime tre. Bocciati soprattutto alcuni nuovi personaggi, come il molliccio e querulo Jar Jar Binks: per paradosso, il più odiato dai veterani, ma anche tra i più amati dai ragazzini di adesso. Cioè dai fan di ultima generazione, molto meno ideologici, che non vedono alcuna differenza tra vecchie e nuove avventure. Sono loro che – a migliaia, travestiti da Cavalieri Jedi - sfileranno a Lucca Comics and Games, la più importante manifestazione italiana del settore, in programma dal 29 ottobre al primo novembre. Una kermesse in cui i padri cercheranno memorabilia della prima trilogia, mentre i figli adolescenti parteciperanno ai giochi di ruolo con le spade laser. È per questo che Star Wars non muore mai.

LANDO CALRISSIAN

R2-D2

Droidi & Co. L’astrodroide e il droide da protocollo sono determinanti in ogni episodio, come lo sono, nel bene e nel male, altri personaggi minori, abitanti di mondi di foreste o sottomarini

C-3PO

JAR JAR BINKS

La saga in

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a infinita

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DARTH MAUL

PALPATINE/L’IMPERATORE

Sith

CONTE DOOKU

Sono i signori del lato oscuro della Forza. Il loro padrone è Cos Palpatine, senatore che ha tradito la Repubblica ed è divenuto imperatore Al suo fianco c’è sempre un apprendista. Il più potente diventerà Darth Vader

JABBA THE HUTT

Gangster & Co. Sul pianeta Tatooine regna il bandito Jabba the Hutt Watto era il padrone di Anakin

WATTO

JANGO FETT

GENERALE GRIEVOUS

Bounty killer

BOBA FETT

Il dna del primo, Jango Fett, darà vita all’esercito dei cloni che darà scacco alla Repubblica. Il figlio Boba catturerà Han Solo e lo consegnerà a Jabba the Hutt

I cavalieri, le armi, gli amori l’eterna epica contro il nulla PINO CORRIAS a seun hamburger di elastica carne transgenica con patatine congelate due anni fa, più una spruzzata di pomodoro ricolorato e acido equivale a un buon pranzo, perché mai la saga di Star Wars non dovrebbe essere nutriente quanto una mediocre cine o fanta religione? La persistenza dei suoi eroi in viaggio da quarant’anni tra i meandri galattici del male verso il bene più che raccontarci la loro esplicita ricchezza di emozioni digitali, ci rivela l’implicita miseria della nostre vite, imprigionate ormai dentro a notti senza più stelle, ma ricche di sogni artificiali e di popcorn. Pensato da George Lucas come un giocattolo di immagini da infilare tra gli ingranaggi luminosi di Hollywood, le sei avventure di Skywalker, le principesse, i cavalieri, le armi, gli amori e le peripezie che ne conseguono, hanno intrapreso a loro volta un viaggio clamoroso non al centro della Terra, ma dei terrestri. Per la straordinaria ragione che il messaggio di quei mondi così lontani e di quei personaggi così vicini — che è poi il cristallo più fragile e più resistente di ogni narrazione — ha raggiunto con successo almeno due stazioni psicoattive dei nostri recettori più profondi. Nella prima, l’apparentemente complesso si è semplificato nell’euforia aritmetica dei dollari generata dal successo. I concetti filosofici dello jedi Obi Wan Kenobi hanno trovato il loro riassunto più efficace nel merchandising delle spade laser. Darth Vader, che è poi il nero abissale della vendetta e del potere, è diventato una maschera per i ragazzini che intendono modernizzare il loro Halloween. La Forza si è oggettivata nel suo viatico: «Che la Forza sia con te» disponibile in molte versioni colorate su T-shirt. Ma anche nel training di un numero infinito di palestre dove si insegnano spiccioli di yoga, a canone mensile, dalle verande luminose di Beverly Hills, ai seminterrati di Testaccio. Nella seconda stazione, queste formidabili oggettivazioni della nostra meraviglia di spettatori, hanno fatto il miracolo di trasformarci in folle di adepti, moltiplicando la loro natura identitaria in una offerta speciale di miti e di mitologie. Addirittura in una svendita per altari casalinghi, collezionismo generazionale, mimesi teatrali e infine playstation. Mitologie che cominciano naturalmente dalla caverna di Platone per approdare alle odissee di Ulisse, passando per la tavola rotonda dei cavalieri di Re Artù, per gli anelli dei Nibelunghi, per le Terre di Mezzo di Tolkien. Con un sovrappiù ironico rintracciabile nelle disavventure del Don Chisciotte e dei suoi mulini a vento. Ma pure con un eccesso qua e là di misticismo. Laddove gli sguardi dei devoti hanno intravisto — nel viaggio iniziatico dell’Eroe attraverso il Lato Oscuro della Forza verso la Maturità, la Giustizia e l’Amore — un po’ Buddha con le sue illuminazioni trascendentali e un po’ Gesù Cristo, quando fronteggia in solitudine le tentazioni, sopporta i sacrifici, persegue la salvezza degli umani promettendo altri mondi, altre vite. Ma come i fast food anche le saghe portatili e postmoderne andrebbero considerate con una certa indulgenza. È vero che offrono cibo plastificato. Ma anche qualcosa di un po’ più prezioso e persistente: un piccolo riparo contro il nulla, per esempio. Il che spiega il passaparola generazionale che tiene accese le luci della Saga. La quale si rinnova (come certe mistiche o i buoni romanzi) attraverso gli occhi sempre nuovi di chi guarda, o legge, o sogna, seduto al centro della propria galassia lontana lontana.

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I FILM Una nuova speranza (1977);

L’impero colpisce ancora (1980);

Il ritorno dello Jedi (1983)

La minaccia fantasma (1999);

L’attacco dei cloni (2002);

La vendetta dei Sith (2005)

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i sapori Di stagione

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Dai tempi della Bibbia abita immaginario laico e tradizioni religiose La medicina ne celebra da sempre le virtù antiossidanti. E la gastronomia

nel corso dei secoli ne ha utilizzato le proprietà per esaltare selvaggina, salse ed insalate. Femminile il frutto, maschile l’albero, ha attraversato ogni epoca della storia. Ma vive in un solo periodo dell’anno: l’autunno

Orchidee farcite

Agnello sambucano

Cracker di dentice

Marbré di lepre

Carlo Cracco — “Cracco”, Milano — ha ideato una composizione di lenticchie, castagne e frutto della passione, ad accompagnare orchidee al vapore ripiene di melograno

Enrico Crippa — “Piazza Duomo”, Alba — serve la carne a cottura rosata con cagliata di latte di capra, che ne esalta il gusto Camomilla e melograno sgrassano il piatto

Ciccio Sultano — “Il Duomo”, Ibla, Ragusa — offre uno sfizioso, croccante cracker farcito con polpa di dentice, foie gras e fave di cacao torrefatte, profumato con mosto di melograno

Gualtiero Marchesi — “L’Albereta”, Erbusco, Brescia — cuoce il controfiletto intero nel burro chiarificato e lo serve affettato accanto a un’insalata di lattuga e melograno

MELOGRANO LICIA GRANELLO

Pianta La punica granatum, originaria di un’area compresa tra Iran e India himalayana, è una pianta dai fiori rosso intenso I frutti, giallorossastri, arrivano a maturazione in autunno

Varietà Due tipologie: a seme duro o soffice. Le prime utilizzate per uso industriale (succhi, marmellate), le seconde — Dente di Cavallo, Ragana, Selinunte... — si consumano fresche

ecero sul lembo del manto melagrane di porpora viola, di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto. Fecero sonagli d’oro puro e collocarono i sonagli in mezzo alle melagrane, intorno all’orlo del manto: un sonaglio e una melagrana, un sonaglio e una melagrana lungo tutto il giro del lembo del manto, per l’esercizio del ministero, come il Signore aveva ordinato a Mosè». Era già famoso ai tempi della Bibbia, il melograno. O melagrana, se si considera solo il frutto e non la pianta nel suo insieme: un’altalenanza tra maschile e femminile che addiziona fascino a fascino. Forse solo l’ulivo, tra gli alberi “da mangiare”

«F

Su carni e pesci il seme della vita vanta la stessa allure millenaria, a partire dal tronco ruvido, fitto di rami spinosi e contorti, passando per i fiori, di uno sfacciato rosso vermiglio, fino alle bacche carnose, dalla spessa buccia giallo-rossastra, pienissime di semi rossi, che a contarli passano quota cinquecento. Briciole sparse di un alimento leggendario. Fertilità, amore, giustizia, ricchezza, coraggio: il melograno con le sue meravigliose attribuzioni attraversa lo spazio e il tempo, abita l’immaginario laico e la tradizione religiosa, è protagonista di pagine struggenti e racconti mitologici. Così, i babilonesi masticavano i semi prima di andare in battaglia per diventare invincibili e le spose romane intrecciavano tra i capelli rami di me-

lograno, sacro a Venere e Giunone, mentre Shakespeare sceglie l’ombra del melograno per la serenata di Romeo a Giulietta. In Vietnam aprire il frutto «fa arrivare cento bambini», e in Turchia si getta la melagrana a terra dopo la cerimonia nuziale, per contare il numero dei figli, pari ai chicchi usciti dalla spaccatura. Tradizioni che trovano il loro miglior compimento a tavola, dove le ricette rifinite con succo o semi sono considerate bene auguranti e golose. Il risvolto scientifico è sorprendente. La medicina d’un tempo utilizzava i semi come vermifughi e astringenti, ma oggi sappiamo che non esiste alimento di pari potere antiossidante. Un concentrato di giovinezza&salute talmente straordinario da far impallidire arance e mirtilli, che pure vantano la loro bella quota di flavonoidi. A scorrere l’elenco delle malattie su cui agisce beneficamente, viene voglia di prenotare un bicchiere quotidiano di succo per i prossimi cent’anni: cancro, artrosi, arteriosclerosi, ipertensione, Alzheimer… Se la scienza moderna ha battezzato la melagrana come frutto-simbolo della nuova medicina preventiva, la gastronomia ha cominciato ad amarla parecchi secoli fa, elevando lo scricchiolio acidulo dei semi tra lingua e palato a insostituibile bilanciatore di freschezza per selvaggina e carni salsate. I cuochi di nuova generazione hanno spostato l’abbinamento dalle lunghe cotture ai pesci crudi, dalle salse alle insalate, dalla macedonia ai formaggi, in una successione di gusti lievi, diversi, stimolanti. Questo è il suo momento. Generosa ma poco incline alle lunghe conservazioni, la melagrana accende le ricette d’autunno, regalando due mesi di splendore assoluto alla dolce selvaticità dell’agnello o alla setosa carnalità della ricciola. Fate finta che sia Parmigiano grattugiato e spargete i semi su un risotto bianco o di pesce: con un solo gesto, profumerete il piatto e abbasserete il colesterolo. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Granatina Lo sciroppo di melograno parte dai chicchi, rossi e maturi, schiacciati Riduzione in pentola a fuoco basso con zucchero o miele. A fuoco spento, si aggiunge il succo di limone

Succo Lo straordinario contenuto di antiossidanti e potassio ne fanno un toccasana a largo raggio, dalla prevenzione delle malattie degenerative al supporto di acido folico in gravidanza

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Avellino

itinerari Il vicentino Andrea Rigoni gestisce con i fratelli una storica azienda biologica di mieli e trasformazione della frutta Sana e golosa la marmellata di melograno

Oristano

Lecce

Nelle campagne che circondano il capoluogo dell’Irpinia, il melograno è diffuso da secoli Una coltura agricola che si traduce in ricette tradizionali, come succhi, gelati e marmellate

Disegnato, ricamato, inciso, il melograno fa bella mostra di sé negli oggetti dell’artigianato locale, ed è parte integrante del ricettario tradizionale, fresco o trasformato

Il clima caldo e asciutto del Salento riesce particolarmente felice per il melograno, la cui coltivazione si sta espandendo nella piana leccese accanto a quella di viti e ulivi

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

DOVE DORMIRE

LA MAGNOLIA B&B Contrada Bosco San Raffaele Tel. 0825-1910668 Camera doppia da 40 euro, colazione inclusa

HOTEL MISTRAL 2 Via XX Settembre 34 Tel. 0783-210389 Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

ALVINO SUITES Via Roberto di Biccari 6 Tel. 0832-240972 Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

DOVE MANGIARE

LA MASCHERA Rampa San Modestino 1 Tel. 0825-37603 Chiuso dom. sera e lunedì, menù da 30 euro

IL CAMINETTO Via Firenze 9. Località Cabras Tel. 0783-391139 Chiuso lunedì, menù da 30 euro

OSTERIA DEGLI SPIRITI Via Cesare Battisti 4 Tel. 0832-246274 Chiuso domenica sera, menù da 25 euro

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

DOVE COMPRARE

GIOVOMEL AZIENDA AGRICOLA Contrada Greci 11 Località Aiello del Sabato Tel. 0825-667410

PASTICCERIA CREAM ROSE Via Cagliari 422 Tel. 0783-74186

PASTICCERIA FRANCHINI Via San Lazzaro 36 Tel. 0832-343882

Il Medioevo nel piatto un inno alla fertilità MASSIMO MONTANARI iòche fa di un “pomo” un “pomo granato” sono i “grani”, i semi. La melagrana è un frutto costituito dai suoi semi, situazione inusuale, al limite del paradosso. Non poteva che derivarne una simbologia costruita attorno al tema della fertilità, che poi ritroviamo in ambito cristiano, nell’immaginario e nell’iconografia medievale. Questa potente (prepotente) carica simbolica non ha impedito alla melagrana di occupare un posto significativo nelle pratiche di cucina. Il gusto che potremmo definire “premoderno”, dominante dal Medioevo fino al XVII secolo, pareva fatto apposta per prediligere questo frutto, il suo sapore complesso, al tempo stesso delicato e forte, agro e dolce, con una punta di amaro astringente. Un sapore come quello della melagrana rispondeva ai canoni scientifici (dietetici) e gustativi (culinari) del tempo. Quei canoni esigevano sapori del genere che, unendo insieme varie qualità sensoriali, parevaTempo di melograno no utili alla conservazione della salute, identifinel calendario cata primariamente con il “temperamento” bidi sagre e feste, lanciato degli opposti. Al punto che, se i sapori a partire dal 10 novembre, erano troppo semplici, era compito del cuoco quando a Masullas, Oristano, renderli più complessi, più ricchi. Le salse agroterra di melograni, dolci-piccanti della cucina medievale erano verranno proposti espressione di questa convinzione, di queste prepiatti, dolci, succhi e liquori messe teoriche elaborate in ambito scientifico. monodedicati In queste salse la melagrana entrava spesso e Nella settimana che precede volentieri, a definire i sapori (“sapore” era il nome il Natale, invece, medievale della salsa) che si aggiungevano alle viil “San Gallo” di Firenze vande. Nel più antico ricettario italiano, compicelebra lato nel XIV secolo alla corte di Napoli, il succo di la festa del melograno, melagrana serve per stemperare le spezie (in quefrutto-simbolo sto caso, cannella e noce moscata) che si aggiundella comunità iraniana gono a rosso d’uovo, sale e mollica abbrustolita per comporre la salsa «pro avibus», suggerita per accompagnare ogni sorta di volatili. Ancora il succo di melagrana («agra e dolce», si specifica) è protagonista di una ricetta detta “romania”, di origine probabilmente araba, che prevede di stemperare in questo liquido del pollo soffritto con cipolla e lardo (in ambito islamico si trattava ovviamente di olio) arricchito con mandorle tritate. Né mancano liquidi a base di melagrana consigliati «ad confortandum stomachum». I dietologi del nostro tempo ci spiegano che la melagrana è un toccasana per la salute. Ce lo dimostrano con raffinate analisi chimiche, isolando e mettendo in valore le molteplici componenti nutrizionali del magico frutto ripieno di grani. I dietologi di qualche secolo fa, meno provvisti di strumentazioni analitiche, arrivavano a conclusioni non troppo diverse, basandosi semplicemente sul sapore del frutto. Il sillogismo era elementare: se il seme è l’origine della vita, e la melagrana è piena di semi, non può non conseguirne che la melagrana fa bene alla vita.

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l’appuntamento

63 l’apporto calorico per 100 grammi

600 il numero medio dei semi in un frutto

1487 Botticelli dipinge la Madonna della melagrana

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le tendenze

In amore cuori solitari o battitori liberi, sul lavoro spesso in carriera Che siano separati, scapoli o ex bamboccioni i tre milioni di maschi

Scelte

italiani che vivono soli hanno soprattutto una cosa in comune: spendono (il sessanta per cento in più di una famiglia media)

Maniaci di fitness, design e hi-tech inseguono un loro stile E i brand fanno di tutto per accontentarli

POLSO D’ACCIAIO Un’icona del marchio Breil: l’orologio Manta con cronografo È in acciaio con ghiera verde smeraldo

Single

Man

ELEMENTARE Camicia a manica lunga in puro cotone con taschino Come un foglio a quadretti bianco, rosso e nero. Di Sonrisa

TECNOLOGICO BlackBerry di ultima generazione con schermo luminoso ad alta risoluzione e lettore multimediale Pesa 122 grammi, senza batteria

SPORTIVO Caldo pull in lana grigio perla di Fred Perry Un classico dal mondo del tennis al guardaroba maschile

Quando la solitudine diventa un lusso CASUAL CHIC Ama il bianco & nero l’uomo Emporio Armani: giacca scura abbinata al pantalone candido, guanti bicolor, scarpe da tempo libero

ILARIA ZAFFINO eri erano bohémien stravaganti, geni incompresi e sregolati, oggi sono uomini in carriera, narcisi, spendaccioni quando possono, comunque sempre attenti alle mode e all’apparenza. Sono i single d’Italia: battitori liberi, cuori solitari per necessità o convinzione, per scelta propria o più spesso di qualcun altro, quasi dei Bridget Jones in pantaloni. Scapoloni incalliti o di ritorno. Perché esistono due tipologie di maschi single: da una parte c’è il trentenne appena

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uscito da casa di mamma e di papà, stanco di essere un eterno bamboccione, dall’altra un esercito di quarantenni e cinquantenni appena usciti da matrimoni sbagliati che, magari, si ritrovano a vivere da soli per la prima volta. Sono loro che hanno più soldi da spendere, sono loro a cui le case di moda e di design guardano come nuovo target di riferimento. Una categoria sociale e sociologica che fino a qualche anno fa nemmeno esisteva. Oggi, invece, i single (tra uomini e donne) superano i sette milioni e mezzo, in pratica il 26,4 per cento degli italiani, con una crescita esponenziale ogni anno che fa riflettere (negli Stati Uniti, lo scorso agosto, il Census Bureau ne ha stimati novantasei milioni). E anche se più della metà continuano a essere di sesso femminile, i maschi hanno raggiunto quasi i tre milioni. Spesso vivono situazioni transitorie: perché si è conclusa una storia, hanno cambiato lavoro e città, stanno attraversando un periodo difficile. Ma come vive chi ha scelto la solitudine come compagna? Partiamo dalla spesa: chi è solo spende il sessanta per cento in più di una famiglia media, secondo l’Istat ben 312 euro ogni mese. Che se ne vanno tra vaschette monoporzione da rosticceria, surgelati, cibi precotti, sughi pronti all’uso, frutta e verdura confezionata e per questo assai più cara. Senza considerare gli sprechi, con cartoni di latte che restano aperti per giorni, yogurt scaduti, tortelloni iniziati e dimenticati in fondo al frigo. Perché il single non ha tempo, né tantomeno voglia, di cucinare solo per se

stesso. Al contrario, per coccolarsi e confortarsi segue la moda, sceglie abiti e scarpe di tendenza, compra una lampada in più per il salotto. Tanto che per vestire — ci dice l’Eurispes — arriva a spendere anche novanta euro al mese. Le sue sono scelte spesso fatte in serie, trova un marchio che lo soddisfa e se ne riempie il guardaroba. Un pantalone gli calza a pennello? Allora via con tutti i colori possibili dello stesso modello. E poi chi è solo non può farsi mancare nulla, vuole muoversi, viaggiare. Altrimenti a cosa serve la tanto decantata libertà? Tra le grandi passioni dei maschi single ci sono i gadget tecnologici: dal superstereo all’iPad, al cellulare all’ultimo grido. E poi la casa. Per tanti la soluzione più ovvia è il monolocale, più facile da gestire, da pulire, e naturalmente più economico. Ma ben attrezzato e studiato con soluzioni su misura. Arredare la propria “tana” diventa l’ennesima sfida: crearsi un ambiente confortevole dove vivere e coccolarsi è ancora più importante per chi è solo. Così il single dedicherà più attenzione a un impianto hi-fi di ultima generazione se la sua passione è la musica, al contrario allestirà una piccola palestra se ha l’ossessione per i muscoli. E se per le donne prioritaria è la camera da letto, per l’uomo l’attenzione si sposta sull’area giorno e di intrattenimento, che può essere anche una cucina allargata dove il single mangia, dorme, incontra gli amici, ascolta la musica. Vive, insomma, secondo il suo stile. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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DECISO Giacca peacoat di Herno: traspirante e impermeabile con pettorina staccabile Mantiene la temperatura del corpo costante

FUTURISTA Ha una struttura futuristica, che alterna pieni e vuoti: Genesy, lampada da terra di Zaha Hadid per Artemide In nero lucido o bianco opaco

WILD Sembra uno dei borsoni che si vedono nei film western In tessuto scozzese con manici in pelle da Ferragamo

Rodolfo Dordoni di Minotti

“Per lui pochi colori e molta sobrietà” iù che affezionarsi a un marchio si affeziona a un gusto: è meno versatile di una donna che cambia con più frequenza l’arredo di casa, meno incline perciò a eccessi ed esuberanze. E soprattutto, quando vive da solo, l’uomo privilegia aspetti della casa che interessano poco le donne: per esempio, l’aspetto tecnologico, domotico, quindi il computer, la tv, la musica». Rodolfo Dordoni, architetto e designer milanese, è il direttore artistico di Minotti, le sue collezioni — lampade, divani, poltrone — sobrie, essenziali, incontrano spesso il gusto maschile. «L’uomo è meno attento della donna alle mode, comunque meno preparato. È più facile allora che riconosca delle icone, storiche o contemporanee poco importa. Lui va per riferimenti: la poltrona da lettura, per esempio, o il divano di Le Corbusier. Sono delle sicurezze. Perché è più pigro, anche nella scelta dei materiali. Le donne sono portate a ragionare su colori, tessuti. L’uomo invece ha una cartella più limitata, persino la paletta di colori è più limitata. I materiali che privilegia sono legni, pelli, laddove le donne cercano laccature e tessuti colorati. Lui è più sobrio e tende a scegliere i colori del proprio guardaroba: i grigi, i marroni, per definizione toni maschili». L’uomo single è una categoria sociologica ormai emersa, è anche un nuovo target per i designer? «Naturalmente ci sono oggetti che vengono pensati, ragionati in funzione di un target. Per esempio, in un progetto di interior considerare che la casa sia per una donna single, un uomo solo o una coppia fa la differenza. Ci sono uomini single che hanno l’abitudine alla palestra, al fitness. La donna privilegia il benessere, la vasca da bagno. La stessa attenzione al corpo si manifesta in modo diverso. E quel che conta sono i dettagli: anche solo una tenda, accessorio per definizione più femminile, può condizionare un progetto». Come arrederebbe la casa di un single? «Cominciamo dalle differenze: una donna ha bisogno di riservatezza, di privacy, in camera da letto, in bagno. L’uomo al contrario ha meno problemi a esibire questi spazi riservati. Ecco allora che l’open space si addice bene alla casa di un uomo single. Proprio l’ultima casa che ho progettato per un single era un loft, ovviamente open space». Gli oggetti che lei progetta sono geometrici, angoli retti, linee secche: in una parola, pratici, essenziali, funzionali. Proprio come piacciono agli uomini. «È vero, il mio gusto è più legato al mondo maschile, uso poco i colori vivaci. E anche la mia rappresentazione dei prodotti, prendiamo un divano, è indubbiamente più maschile. Quando penso a una casa per single sono più portato a immaginare una casa per uomini. Le donne preferiscono lo stile di Patricia Urquiola, o quello etnico di Paola Navone. Con loro mi capita più spesso di lavorare sul progetto di guardaroba, di cabina armadio, che poi è sempre una stanza vera e propria. L’attenzione femminile, infatti, è rivolta alla luce, agli specchi, alla dimensione del guardaroba, da usare come fitting room. Al contrario, per l’uomo conta il numero di pezzi, mi servono tanti pantaloni, tante camicie. In questo, lui è più ordinato quando si parla di guardaroba. Ma non vuol dire poi che ordinata sia la sua casa». (i. za.)

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IL DISEGNO L’illustrazione è tratta dal Fantasy Lookbook Fall Winter 2010 di Prada Il progetto grafico è stato realizzato da OMA di Rem Koolhaas

ESSENZIALE Un tavolo discreto, sottile e leggero, che sembra galleggiare sui sostegni scultura: è Palio di Ludovica + Roberto Palomba per Poltrona Frau

RILASSATO Poltrona e panchetto per soddisfare il desiderio di completo abbandono: informale e rassicurante, Parker di Minotti è disegnata da Dordoni

CLASSICO Rigorosamente neri i mocassini con tomaia alta e fascetta frontale: lusso e stile classico È la proposta di Dior Homme

VIAGGIATORE Giacca di velluto, dolcevita, pantalone vita bassa, mocassino e borsa da viaggio per l’uomo Gucci Colore dominante il marrone

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l’incontro

Tante chiese e altrettanti musei Da cinquant’anni questo “svizzero molto mediterraneo” disegna (rigorosamente a matita) e progetta luoghi in cui spera di “poter finalmente conciliare l’estetica con l’etica” Non ama gli eccessi della globalizzazione e la mondanità in stile archistar. Perché non vuole correre il rischio “di diventare un clown” Preferisce insegnare il suo mestiere

Architetti

Mario Botta

apelli bianchi, disordinati, sguardo vispo e occhialini sulla punta del naso. Cinquant’anni di carriera da festeggiare sono tanti, soprattutto se di anni se ne hanno settantasette, ma Mario Botta è un lavoratore prima ancora che un architetto. Autore di progetti come il Museo d’arte contemporanea di San Francisco, la sinagoga Cimbalista di Tel Aviv, il Jean Tinguely di Basilea, è uomo infaticabile, rigore svizzero e passione mediterranea. «È che riesco a trovare la serenità di un bambino solo lavorando. La domenica aspetto con impazienza che arrivi il lunedì per rimettermi al tavolo, le vacanze le vedo come una cosa inutile», racconta nello studio di Mendrisio in cui si riflette la luce delle montagne. Nella piccola e ordinata cittadina svizzera, dove è nato, Botta ha creato la sua Accademia di architettura che macina esami e progetti. Con gli studenti non è tenero, ma forse solo perché lui, da ragazzo, non ha perso tempo. «Tutto per me è cominciato ad appena sedici anni, quando decisi di non andare più a scuola. Ed è stata quella la mia fortuna», racconta senza esitazioni: «Ho chiuso con un’istituzione che frequentavo malvolentieri sin dall’asilo e che mi trasmetteva solo noia. Appena ho cominciato a lavorare, tutto è diventato più facile». Oggi si ritiene un uomo sereno: «Ho il privilegio di fare un mestiere che amo e in cui, miracolosamente, anche la matematica diventa bella e utile. Ogni mattina mi sveglia una spinta irrazionale al fare, un bisogno di forma espressiva che, in modo positivo, mi ha reso prigioniero del mio lavoro. Anche gli ostacoli fanno parte dell’innamoramento e, alla fine, c’è la soddisfazione di fornire un servizio agli altri e di sentirsi parte della storia». Quando poco più che adolescente

troppo nella costruzione ecclesiale nell’ultimo secolo ha dato il peggio. Eppure è meraviglioso realizzare quello spazio finito, che fa parte dell’infinito, con una sfida che unisce il silenzio, la gravità, la luce, la meditazione. L’uomo ha la possibilità di costruire universi dove la carica metaforica è fortissima e che si ripetono da duemila anni». Sintetizza in una frase una cascata di pensieri: «La vera avventura è riuscire a realizzare una chiesa dopo Picasso, conciliando etica con estetica». Altra passione di Botta, i musei. In cinquant’anni ne ha realizzati parecchi, dalla Galleria d’arte di Tokyo, al Museo d’arte contemporanea di San Francisco, al Mart di Rovereto, al Museo Jean Tingueley di Basilea. Ma anche qui torna il sacro. Per lui lo spazio espositivo di oggi ha un ruolo analogo a quello della cattedrale di ieri: «Il cittadino va in un museo per confrontarsi con l’artista e nel realizzarli si raccontano i bisogni dello spirito di una società apparentemente secolarizzata. Tanto che a me oggi piacerebbe disegnare un convento, un’istituzione totale dove chi entra sceglie di amare e di morire tra quelle mura. Il convento rappresenta una città in miniatura dove ogni settore organiz-

Fossi nato nel deserto avrei un’altra testa: nel mio lavoro i paesaggi e la luce sono fondamentali Guardi le case in Germania: ogni facciata ha lo stesso colore

FOTO CONTRASTO

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MENDRISIO (Svizzera)

Botta decide di lasciare la scuola, diventa apprendista in uno studio di Lugano. Capisce che il suo futuro è il disegno, prende la maturità da privatista e si iscrive alla facoltà di architettura di Venezia. Il caso, misto all’incoscienza della gioventù, lo aiuta. «In quegli anni mi capita la fortuna d’incrociare Le Corbusier che è a Venezia per costruire l’ospedale e, con una forza che oggi non avrei più, mi presento dicendogli di voler lavorare con lui. La determinazione è vincente e m’inseriscono nel suo piccolo studio veneziano. Le Corbusier era un genio, grazie a lui la storia della vita diventava la storia dell’architettura, ma è stato anche un uomo duro e smaliziato». Non è l’unico grande maestro di Mario Botta. Si laurea infatti con Carlo Scarpa: «Allora Scarpa era visto con sospetto perché troppo dannunziano e aristocratico, ma tra noi nacque subito un buon rapporto. Ancora oggi la sua è una figura misteriosa e anomala, ricca di una materialità artigianale che non concepisce un approccio ideologico. Scarpa aveva il grande pregio di trasformare in linguaggio contemporaneo i materiali più poveri». E poi c’è stato Luis Kahn: «Si presentava a Venezia come un profeta e io avevo con lui lo stesso tipo di rapporto che ha il fedele nei confronti del Messia. Aveva il dono di cogliere il limite del progresso tecnologico e riproponeva il senso della gravità e della memoria. Scomparso Kahn è arrivato il postmoderno». Un postmoderno che a Botta, evidentemente, non va proprio giù: «No, perché rende la storia una caricatura in cui si confondono gli stili». Per lui costruire è un atto sacro, un’azione che trasforma una condizione di natura in cultura. «Mi sono avvicinato al sacro in modo profano quando, nell’86, una chiesa venne distrutta da una valanga e mi chiamarono per ricostruirla. Il mio dilemma stava tutto dentro la sfida ancestrale tra uomo e natura. In altre parole mi domandavo come riuscire a conciliare la perenne lotta tra l’architettura sacra e i nuovi strumenti che potessero rendere l’opera resistente. Perché disegnare uno spazio architettonico vuol dire predisporre le forme ambientali affinché i sentimenti possano trovare una loro espressione». Le chiese da quel momento diventano un elemento ricorrente nel lavoro di Botta: la cappella del monastero di Santa Maria a Bigorio, San Pietro e Paolo a Sartirana di Merate, Santa Maria degli Angeli a Monte Tamaro, la chiesa di Papa Giovanni XXIII a Seriate, Santa Maria Nuova a Terranuova. «L’architettura offre strumenti straordinari ma pur-

zativo è misurato alla città ideale, una riduzione in scala della grande vita collettiva che per l’architetto può essere il massimo da rappresentare». Ma c’è di più, nel sogno del convento: «La fascinazione verso quelle persone, e sono sempre meno, che hanno la forza di una scelta assoluta». Botta s’interrompe per una veloce telefonata. Poi riparte vivace, per raccontare quanto conta nel suo lavoro il luogo in cui gli è capitato di nascere: «Cerco di guardare al mio passato con amore ma anche con occhio critico. L’attrazione verso il Mediterraneo è per me molto forte, e condivido Dürrenmatt che era molto sarcastico riguardo a questo dna che ognuno di noi si porta dalle montagne. Sicuramente se fossi nato nel deserto avrei un’altra testa, perché il carattere dominante dell’architetto è dato dal paesaggio e la luce dei luoghi giocano un ruolo fondamentale nella creatività. Guardi le case in Germania, ogni facciata ha lo stesso colore. O prenda gli Emirati Arabi: nessuna consistenza, non mi piacciono i luoghi perfettamente orizzontali. Al contrario amo lavorare in Cina, mi impressiona la legge dei numeri, e quello è inevitabilmente un Paese che viaggia a una velocità stratosferica. Ora sto lavorando a una biblioteca, a Pechino, dove vorrei costruire anche un museo dell’arte occidentale». Un inno al mix della globalizzazione? Tutt’altro: «L’architetto di oggi lavora soprattutto sul territorio della memoria dimenticata proprio dalla globalizzazione, perché la rapidità della trasformazione è proporzionale all’oblio. Noi esistiamo perché ricordiamo e quindi è fondamentale testimoniare il passato». Nei confronti di un mondo troppo globalizzato è molto severo: «Per godere a pieno del totale bisogna soprattutto assaporare il locale, solo così ognuno può maturare i propri anticorpi. In una società attraversata dalla globalizzazione l’identità non può che passare attraverso l’appartenenza al territorio, alla riconoscibilità di un paesaggio. Per esempio: quando andiamo nei centri storici ritroviamo una qualità di vita straordinaria e spesso è un paradosso perché quei posti sono espressione di un popolo estinto, sono le città dei morti». Ed è proprio questa la grande forza dell’Europa rispetto all’America o alla Cina: «Le nostre sono città legate al passato da un’identità storica e culturale unica, in cui è possibile sentirsi parte di un’umanità che ci appartiene e verso valori che stanno emergendo con sempre più forza». E allora forse non è un caso se nel lavoro Botta coltiva un’aperta

ostilità anche di fronte agli strumenti più all’avanguardia (pur riconoscendone le virtù: ad esempio il dimezzamento dei tempi): «Continuo a disegnare a matita perché ha una forza progettuale che manca al computer. Gli strumenti arcaici spesso portano una speranza e io con lo schizzo non sono mai sazio». L’accademia di Mendrisio è gremita di studenti. Nel sottofondo mattutino si sentono i rumori di tanti passi veloci. Prima dell’estate i “suoi” ragazzi hanno realizzato un piano di ristrutturazione di Varese che ha trasformato la città lombarda in una perla colta e ecologica. «I giovani sono meglio di come vengono descritti, quando arrivano a settembre quelli del primo anno hanno una freschezza che, purtroppo, non ritroveranno più. Ma questa è comunque una scuola di architettura umanistica con tanta filosofia e tanta arte, una scuola capace di sollevare problemi e non di dare delle risposte. Insomma, soprattutto una scuola di pensiero che s’interroga sul significato della vita». Già, la vita. Mario Botta è un uomo riservato. Tanti figli, una moglie, poche mondanità. Quanto di più lontano dal mondo degli archistar: «Il fatto che improvvisamente gli architetti siano diventati dei personaggi da un lato non può che lusingare e contribuire allo svecchiamento dell’architettura, ma indubbiamente il pericolo “clown” è in agguato. La mediatizzazione ci sta portando ad un’architettura distorta che diventa autoreferenziale e dimentica l’interesse collettivo, si spinge troppo verso la spettacolarizzazione. Io ho rapporti sereni con tutti ma ritengo che nessuno di noi possa avere la verità in tasca, a me interessa quel che succede nel mondo ma non ho la pretesa di avere grandi certezze. Insomma, l’importante è sapere di non poter cambiare il mondo ma, invece, provare a cambiare l’architettura». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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IRENE MARIA SCALISE

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