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TRE DONNE, IL CONVIVIO E LA SERIE DELLE CANZONI NATASCIA TONELLI Università di Siena

«Que nobilissima sunt, carissime conservantur»: nel corso della sua riflessione intorno al metro più nobile, avanti ogni indicazione di tipo normativo, Dante dapprima proclama l’eccellenza delle canzoni, poi, a riprova di quanto sostenuto, rileva che queste vengono con ogni cura conservate. Pare trattarsi di osservazione basata su dati oggettivi verificabili, stante il suo statuto assiomatico non sottoponibile a discussione, da tutti i frequentatori di libri; osservazione tale da esser posta a primo termine di uno dei sillogismi attraverso i quali Dante fa qui procedere la sua argomentazione: Preterea: que nobilissima sunt carissime conservantur; sed inter ea que cantata sunt, cantiones carissime conservantur, ut constat visitantibus libros: ergo cantiones nobilissime sunt, et per consequens modus earum nobilissimus est (De vulgari eloquentia II 3, 7).

Ma quel carissime che suggerisce una sfumatura di tipo affettivo, da generante nei confronti del generato, «ché la nostra operazione in alcun modo è generazione» (Cv. III 9, 4); quel conservantur che denota un’azione compiuta o in atto, paiono basarsi, oltre che su una prassi già consolidata e perciò a chiunque osservabile nella gerarchia di genere attuata dai Canzonieri antichi («ut constat visitantibus libros»), anche su di una attività piuttosto individuale (autoriale) di ‘conservazione’ dei testi, cioè dei più nobili fra essi. Direi anzi che, nello specifico, rivolgendosi nel De vulgari eloquentia non solo ad un pubblico curiale di lettori di poesia, ma, credo, prioritariamente a chi poesia scriva, Dante, assertivo ed esortativo a un tempo, stia proprio e con precisione ponendo le basi teoriche – necessitate dall’eccellenza stessa del metro di cui parla, dall’eccellenza 51

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della lingua che sublima quel metro e che dallo stesso viene a sua volta innalzata e consolidata, dettate dall’esigenza di creare una storia e una tradizione a quel metro e alla sua lingua – per quella rivoluzionaria novità nella storia della poesia che va sotto il nome di canzoniere d’autore. Solo da Dante in poi (si pensi alla diaspora delle poesie dei più vicini ed amici Cavalcanti e Cino), eccettuato forse Guittone, nella lirica italiana sarà per primo lo stesso autore, padre dei propri testi, ad occuparsi dei figli migliori, a garantirne con ogni cura la conservazione che vorrà per loro dire imperitura – e, ipso facto, ordinata – sopravvivenza. Tecniche di conservazione di testi Dante, all’altezza del De vulgari eloquentia, certo già ne aveva sperimentate. I collegamenti intertestuali fra le liriche della Vita Nuova individuati da Santagata, vigenti addirittura a prescindere e nonostante la prosa che li espone e li immette in un discorso narrativo, dichiarano una praticabilità tutta poetica di un percorso di lettura orientato e perciò stesso produttore di senso ulteriore. La portata del quale Dante aveva però deciso, per il libello, di articolare, sviluppare e demandare in toto alla prosa. E dunque ecco il prosimetro: a giustificare la scelta, se non dei più nobili nel senso metrico che all’aggettivo conferirà il De vulgari certamente dei più riusciti, dei più adatti fra i testi allora composti a tessere la lode e la breve esistenza terrena della beatrice. Le altre rime evidentemente non ‘conservantur’ : destinate alla dispersione, presumibilmente in parte all’oblio. Difficili da districare i rapporti cronologici relativi fra De vulgari e Convivio: Barbi, e a lui mi attengo, sembra ipotizzare un’anteriorità relativa del De vulgari, ma comunque «la contemporanea concezione delle due opere», probabilmente contemporanea gestazione1. Certo il libro II sulla canzone e l’esposizione delle canzoni nel Convivio nascono da un medesimo momento ideativo, sono l’espressione complementare della stessa riflessione sull’eccellenza e su forma e contenuti di questa eccellenza: da un lato affrontata dal teorico normatore, dall’altro agita dall’autore 52

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di quel preciso genere metrico. I due trattati possono ben essere contemporanei, condotti su due tavoli, o meglio: indossando Dante panni diversi. Entrambi interrotti, forse entrambi sacrificati sull’altare della rinascente poesia. Il Convivio certo rappresenta il monumento alla conservazione dei testi più nobili, conservazione e nobiltà che il De vulgari congiuntamente postula: esacerbando a tal punto questa sua funzione (anche con lo stesso progressivo accumulo, dal secondo al quarto libro, delle pagine necessarie a sostenere artificiosamente l’allegoricità dei testi esposti) da decretare il proprio stesso fallimento, la propria non continuabilità. Quale posizione occupa, rispetto ad esso, l’altra, più propriamente poetica, strategia di conservazione delle canzoni posta in atto da Dante, volta a formare proprio un ‘libro delle canzoni’?2 Penso, lo anticipo senza però aggiungere qui molto sulla questione, che in parte e in una prima fase lo preceda in una sua indipendenza di raccolta; gli sia, secondariamente, e in seguito, funzionale (ovvero il contrario: si veda oltre), ma che nel suo complesso e infine, organizzato così come lo conosciamo oggi, ne raccolga le ceneri facendone nascere una forma nuova. D’altronde, che vi sia una precedenza dei testi poetici rispetto alla loro esposizione in prosa risponde alla logica delle cose (né si potrebbe pensare, viste le dichiarazioni di Dante, che le sole tre canzoni commentate fossero predisposte al momento della stesura come finalizzate all’opera), poi alle molteplici attestazioni che Dante dissemina nel medesimo Convivio lasciandoci intravvedere una struttura del trattato già in gran parte delineata (se non totalmente), e non solo nella mente dell’autore: che traeva bensì sostanza e concretezza dalle canzoni, dalla serie delle canzoni già elaborate. Boccaccio, per ben tre volte copista – e oggi sappiamo: solo copista, in nessun modo responsabile – della sequenza delle quindici ‘canzoni distese’, nel suo Trattatello in laude di Dante pare non aver dubbi sull’intenzione dantesca: Compose ancora molte canzoni distese e sonetti e ballate, oltre a quelle che nella sua Vita nuova si leggono. E sopra tre delle dette 53

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canzoni, come che intendimento avesse sopra tutte di farlo, compose uno scritto in fiorentin volgare, il quale nominò Convivio…3

Opinione che plausibilmente gli deriva appunto dalla lettura dello stesso Convivio, ma che, con un suo non inusuale vizio di superficialità, non verifica nei dettagli: quindici le canzoni ordinate, quattordici quelle previste dal e per il commento. La non corrispondenza numerica fa buon gioco a coloro che hanno escluso a priori la destinazione conviviale delle distese; e basterà citare, per autorevolezza e perentorietà, il giudizio, da nessuno più revocato in dubbio, che Barbi esprime nell’introdurre il Convivio nell’edizione Busnelli-Vandelli, dopo aver discusso storicamente la posizione ‘boccacciana’ che prende piede fin da un anonimo «trascrittore ed emendatore» quattrocentesco: Non sono quattordici canzoni, non sono in quell’ordine che dovrebbero essere, non risalgono nella tradizione manoscritta più in su del Boccaccio: ci manca assai per credere d’avere innanzi la testimonianza diretta o l’eco della scelta e disposizione di Dante stesso! (Barbi 1968: xliv).

Da allora, da quelle parole, niente era cambiato fino a che la ricognizione della tradizione dovuta a De Robertis nmon ha rimosso l’ultimo nella climax, il principale degli ostacoli individuati da Barbi («La scelta e l’ordine di quelle quindici canzoni si deve a Giovanni Boccaccio….il gran numero di codici che ci presentano siffatta serie è, non indizio di tradizione tanto antica da poter risalire fino a Dante, ma conseguenza della gran fortuna che ebbe la raccolta boccaccesca») (1968: xliii): la silloge della canzoni non fa data dalla trascrizione di Boccaccio, la precede e affonda le sue origini ai primi decenni del Trecento, a una fase in cui Dante era ancor vivo. Allusioni a una serie di canzoni pronte, forse già ‘pubblicate’, comunque divulgate, sono peraltro chiare nello stesso Convivio, e fin dall’inizio del trattato là dove vengono esposte le ragioni, la necessità dell’opera di commento proprio a quei testi già offerti ai «miseri» e che da sé soli non erano stati compresi: 54

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… per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato… (I 1, 10-11).

Dante ci parla dunque di un tempo ben precedente l’idea del libro, in cui le canzoni, dal numero per ora imprecisato, erano circolate presentando qualche intrinseca difficoltà, che solo a chiazze le oscurava, facendone maggiormente apprezzare la bellezza che non la bontà, pietanza indigesta da accompagnarsi col pane dell’autoesegesi: La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di virtù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritate ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado (I 1, 14).

I tempi passati dei verbi non lasciano a loro volta ombra di dubbio sul fatto che le quattordici canzoni, tutte, aveano elementi di difficoltosa interpretazione, tali che ne era piaciuto piuttosto l’aspetto esteriore che il ‘buon messaggio’: tutte quante e quattordici dunque erano già è più tempo e da molti ben conosciute ancorché non completamente, o a fondo, comprese (e che le «canzoni predette» fossero già diffuse e tutte, e proprio quelle, dovessero esser liberate da un pregiudizio di lettura complessivo, relativo alla «vera intenzione» che le aveva dettate, è specificato ancora subito dopo: «E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare»). Ma non solo – o non tanto – per render loro il giusto merito esplicativo Dante si accinge a interpretarle filosoficamente, quanto, e apertamente, per renderlo a sé stesso, a Dante esule, personaggio pubblico abbisognante di accreditarsi anche moralmente nei luoghi delle proprie peregrinazioni (si pensi alle sconsolate, sofferte parole sulla percezione riduttiva che inevitabilmente ha il mondo di chi è soggetto al «vento secco che vapora la dolorosa povertate», giudizio che ancor più dolorosamente per chi lo subisce si estende di necessità alle opere, «sì già fatte, come quelle che fosse a fare», della persona invilita) e che desidera per via di dottrina levarsi 55

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di dosso un’accusa d’infamia. La portata, il significato, per quanto opportunamente ridimensionato dalla critica4, del termine, Dante anche ben definisce o circoscrive sempre relativamente alle predette canzoni: Movemi timore d’infamia, e movemi disiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può. Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata; la quale infamia si cessa per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione (I 2, 15-16).

L’idea che i lettori potevan farsi, si erano positivamente fatti dell’autore di quelle canzoni era di chi fosse dominato dalla passione («tanta passione…in me avere segnoreggiata»); dunque che passione, non proprio virtù, ne fosse stata «la movente cagione», benché quelle fossero «sì d’amor come di virtù materiate». Amore (e un amore che muove a tanta passione, signore imperioso e terribile) dunque primo motore ispirativo: chi avesse letto e chi legga tuttora quelle canzoni si conforta insomma nell’idea che Dante stesso di sé aveva promosso qualche anno prima, nei capitoli fondativi della sua poetica nella Vita nuova, e che pochi anni dopo, presentandosi a Bonagiunta nel Purgatorio, terrà a ribadire, ricostituendo una linea di continuità per la propria ispirazione: «Io mi son un che quando Amor mi spira…». Tale ispirazione che in certo senso prescinde sia dal Convivio (non per niente a statuto fallimentare), sia dal pure abbandonato De vulgari nel quale, presumibilmente nello stesso torno di tempo, tendeva ad accreditarsi come cantor rectitudinis. Dico ‘chi legga tuttora’ a ragion veduta. Mi pare infatti che le parole di Dante siano univoche e non possano essere fraintese5: si proponeva di commentare quattordici canzoni già scritte e note al pubblico le quali per lo più gli avrebbero, o tutt’affatto gli avevano procurato fama di persona leggera (Cv. III 1,11: «pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d’animo, udendo me essere dal primo amore mutato») posseduta da una dominante e pur 56

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mutevole passione d’amore (che sarà fama non solo qui temuta e ribadita, ma reale condizione confessata fra i superbi del Purgatorio e solennemente attribuitagli prima da Beatrice nel paradiso terrestre poi da Boccaccio nel Trattatello). A prescindere dalla minima discrasia numerica (ma ‘nel più ci sta il meno’, nel quindici il quattordici! per ora accontentiamoci di questo) e dagli eventuali numeri d’ordine, di Dante abbiamo una serie di canzoni, quattordici delle quali (le prime quattordici di quindici!) sicuramente già scritte, tutte quante, prima che Dante mettesse mano al Convivio: né, alla fine, ne possediamo molte altre… Se, come Dante dice a chiare lettere, le quattordici da commentare erano davvero già scritte, o si ipotizza una non giustificabile (se non per un atto di volontarietà, però i testi erano già è più tempo…da molti noti, divulgati, impossibili ormai da controllare), un’ingiustificabile, ripeto, dispersione radicale dei testi di Dante, oppure dovremo di necessità fare i conti con i testi, con quelle canzoni – niente spinge ad immaginare che, oltre alla non rintracciata Traggemi della mente, Dante ne avesse mai scritte più di quelle che conosciamo, e dunque le quindici cui si aggiungano le due ignote alla sequenza Lo doloroso amor e Ai faux ris – che ci sono state conservate. Canzoni che appunto ad una lettura non condizionata dalle ragioni intrinseche e sopravvenute del Convivio6 (nemmeno per le due amorose commentate) senz’altro valgono a Dante non certo infamia bensì imperitura fama di massimo cantore d’amore. Per disperdere la quale Dante certo s’approssimava a render allegoriche in particolare le più marcate in senso ‘fervido e passionato’: credo Dante pensasse proprio alle petrose e a Così nel mio parlar, come necessitanti da parte dell’autore di una forte e dotta smentita del loro così esuberante senso primo e letterale7. D’amore, e d’amore-passione innanzitutto, parlavano e parlano le canzoni di Dante: ma le già scritte quattordici che conosciamo – e che lo fossero le prime dodici è ovvio, tutte avanti l’esilio, delle ultime due qui poco oltre – sono per la precisione «sì d’amore come di vertù materiate», e in particolare, secondo l’ordine tradizionale della serie tràdita in modo compatto, per quanto l’essere 57

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composte e d’amore e di virtù sia «dato come carattere comune a tutte» (Barbi 1968: xxxv n. 1), sono palesemente di vertù materiate (ma anche d’amore…) le canzoni tredicesima, Tre donne, e quattordicesima, Doglia mi reca. Che il quindicesimo e ultimo trattato dovesse esporre Doglia mi reca nello core ardire è comunemente riconosciuto, a far data almeno dall’Introduzione di Barbi all’edizione Busnelli-Vandelli, giusta le indicazioni intorno alla liberalità che si leggono ancora nel primo del Convivio (cap. 8, 18) e poi in Cv. III 15, 14 e che paiono rinviare appunto agli espliciti versi sul tema di quella canzone titolata «contra ’viziosi e massimamente contra gli avari» dalle «più antiche rubriche» (Vedi Alighieri 2005: 179). Stesso o maggior accordo per Tre donne intorno al cor mi son venute, unanimemente ricondotta al quattordicesimo trattato grazie ai passi intorno alla giustizia che a quello appunto demandano: onde, avvegna che ciascuna vertù sia amabile ne l’uomo, quella è più amabile in esso che è più umana, e questa è la giustizia […] . Di questa vertù innanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo trattato (I 12, 9 e 12); Oh misera, misera patria mia! Quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto! Ma però che di giustizia nel penultimo trattato di questo volume si tratterà, basti qui al presente questo poco avere toccato di quella (IV 27, 11).

E che proprio di Tre donne si sarebbe parlato mi pare ben lo confermino due indicazioni aggiuntive, che portano senz’altro verso questa canzone, la prima delle quali suggerita nel luogo sopra citato del quarto trattato: collegata all’idea di giustizia è infatti, qui come nella canzone, l’idea di patria, patria resa misera dall’assenza della giustizia e patria che allo stesso tempo è preclusa a chi della giustiziavirtù è amico e cantore. La seconda la possiamo rintracciare nel secondo trattato, cap. 2, 4: 58

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L’altro [senso] si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna […] E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà.

E non mi pare, come propone Pernicone, che l’allusione a Tre donne sia giustificata dall’evidente intento allegorico della canzone tutta (penso con De Robertis, e prima con Nardi, che qui il senso letterale sia ‘puro’, che la canzone sia dottrinale piuttosto che allegorica: difficile ritenere che le tre virtù messe in scena e poi Amore rappresentino una ‘bella menzogna’), quanto dal rinvio ad un significato ‘altro’ certamente presente nel suo primo congedo, e solo lì presente: «el dolce pome» che «el fior ch’è bel di fuori / fa disïar negli amorosi cori»8. Il quattordicesimo trattato avrebbe parlato della giustizia, cioè del senso letterale e primo del testo, giusta la dichiarazione della prima donna («son Drittura»), e del «nascondimento trovato … per li savi», cioè per li poeti, partendo presumibilmente dal misterioso accenno del congedo proprio alla pratica allegorica dei poeti. È impossibile divinare come e persino se Dante avrebbe dimostrato la presenza dell’allegoria nel testo della canzone, ed eventualmente se in tutto o parte di questo: credo che il solo secondo congedo si sarebbe prestato, anzi, necessiterebbe proprio di un’interpretazione ulteriore. In ogni caso il rinvio congiunto alla miseria della patria lontana, priva di giustizia, alla giustizia in sé, al senso allegorico a proposito del trattato penultimo non può che individuare Tre donne come testo, già scritto, preposto a quel commento di là da venire. La canzone, se poniamo attenzione in particolare a questi due elementi che, secondo li preannuncia il Convivio, sarebbero stati interpretati come aggiuntivi, di corredo al tema principale della giustizia che soprattutto avrebbe informato il quattordicesimo libro, intrattiene però col Convivio una relazione più intima, che direi affatto consustanziale. È l’esilio, l’esilio prima delle virtù e di Amore, e poi proprio suo, lo stato che detta a Dante i versi intorno alla condizione miserevole in cui si trovano le donne, di solitudine («queste così 59

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solette»), di indigenza («discinte e scalze», povere «a fama e a cintura»), di profonda tristezza e pianto irrefrenabile («son la più trista», «germane sconsolate»), condizione che Amore dichiara di condividere (le sue armi son rugginose per il non uso: il suo potenziale di dominio è annullato, ormai lontano nel tempo e fors’anche nello spazio) e che estende alle virtù tutte («Larghezza e Temperanza e l’altre nate / dal nostro sangue»), raminghe e mendiche per il mondo («mendicando vanno»). L’esilio è chiaramente non solo condizione perché il testo nasca, non solo motivo personale che emerge rivendicato a onore nell’ultima delle stanze («l’essilio che m’è dato onor mi tegno»), ma tema originario e innervante la canzone; così come tutto ciò che fa parte del versante descrittivo del testo (tanto e piuttosto innovativamente esteso e determinante nel connotarlo) è volto a rilevarne le conseguenze così drammatiche sia sull’aspetto esterno sia nel profilo psicologico di chi lo subisce. Le donne discinte, povere, sofferenti e sole divengono figura di chiunque patisca l’allontanamento forzoso e violento dai propri beni, dai propri affetti, dalla propria terra. Si configurano di fatto come l’antecedente sostitutivo lirico dell’autorappresentazione che di sé esule Dante crudamente propone nel Convivio. L’esilio sta all’origine del trattato e occupa tematicamente gran parte del primo libro, anzi costituisce della scrittura del Convivio la motivazione profonda: l’infamia più sopra citata direi che a quello sia strettamente connessa, dovuta. E Dante, spostandone da sé la connotazione, lo chiarisce utilizzando non l’opera ma la persona di Boezio, Boezio e quella specifica situazione esistenziale che lo aveva spinto alla stesura della Consolatio, Boezio che umanamente aveva condiviso infamia ed esilio e volontà di riscatto attraverso la scrittura del suo prosimetro, Boezio che diviene altra figura di se stesso: E questa necessitade [cessare grande infamia] mosse Boezio di sé medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava (Cv. I 2, 13).

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L’infamia di tanta passione derivata dalle canzoni amorose è strettamente legata alla condizione di sbandito di Dante, anche al minor pregio che alle sue opere viene attribuito dato il minor pregio che tocca a chi è incorso in una pubblica ignominiosa accusa, fors’anche ad un supplemento d’accusa, morale, cui i suoi scritti potevano strumentalmente essere adibiti. L’esilio si fa così anche chiave di lettura dell’opera, dell’operazione culturale e riabilitante che il Convivio prospetta: …lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette […] Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate (Cv. I 3, 2-3).

Di scusa, in assenza d’esilio, non ci sarebbe stata necessità per quelle canzoni: il loro pregio sarebbe stato coonestato dal pregio dell’illustre cittadino cui si dovevano. «Cader co’ buoni», star dalla parte dei giusti, del giusto, essere accusati immeritatamente è comunque degno di lode: ma la lode di un giudizio sovrasensibile o trascendente il tempo e lo spazio della propria vicenda terrena e l’intima consapevolezza di aver operato drittamente non rimeritano nel contingente, non controbilanciano e non dissipano la mala fama. «Cader co’ buoni» significa pursempre cadere, condividere dei buoni l’esperienza di perdita del proprio status: ritrovarsi, come essi, esse nel caso, poveri «a fama9 e a cintura». Unica consolazione che Dante spera per sé, quella stessa che riconosce a Boezio nel dodicesimo capitolo del secondo libro, la scrittura filosofica: «misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea». Boezio come Dante «discacciato», ed ancora esattamente come le tre donne le quali con lo stesso termine vengono introdotte nella canzone: Ciascuna par dolente e sbigottita come persona discacciata e stanca (vv. 9-10).

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E Dante, proprio come quelle, povero anche «a cintura», quasi che avendo già tracciato per le virtù le linee essenziali a descrivere le loro figure invilite, tali da assumere un aspetto assai contrastante da quello che avrebbe consentito ad Amore e a Dante stesso di riconoscerne a prima vista il valore – discinte e scalze, con vesti stracciate -, aspetto che infatti trae in inganno il consanguineo Amore, grazie a quella sorta di preventiva trasposizione e oggettivazione riesca poi a raccontare di sé il medesimo misero peregrinare («l’altre nate / del nostro sangue mendicando vanno»), la preoccupazione che, manifestando la sua disgrazia nella povertà della persona, debba riuscire «in ira a tutti e in non cale», infine che il suo intrinseco valore, dietro quell’apparenza, non possa essere riconosciuto: peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio… (Cv. I 3, 4-6).

È però soprattutto la povertà di fama che accomuna gli esiliati e nello stesso tempo li distingue. Privazione dell’«onrata nominanza» per le tre donne, per Boezio, per se stesso, a causa dall’esilio: a coloro che sono dell’«etterna rocca» e che pur saranno è consolazione sufficiente il sapere che tornerà gente quando che sia a riconoscerne il valore, che una nuova umanità a’ raggi di un diverso cielo farà sì che Amore e virtù tornino ad esser diletti. Ma agli «uomini a cui tocca» grande infamia non meritata è concesso, è necessario parlar di sé per allontanarla: caduto dalla parte dei buoni era Boezio prima di Dante, con lui Dante condivide la sorte e le motivazioni alla scrittura, da lui deriva le forme per scusare l’altrimenti temuta «perpetuale infamia del suo essilio». Credo che canzone 13 e avvio del Convivio dialoghino fittamente sui temi che hanno in comune e che li hanno, entrambi, 62

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dettati: e d’altra parte, quale altra canzone è sì d’amore come di virtù materiata quanto Tre donne? Basterà personificare quell’Amore e quella Virtù per avere appunto i due protagonisti della nostra canzone… Mi chiedo se, quando pensa all’allegoria che avrebbe affrontato insieme al tema della giustizia, a Dante in verità non stia riaffiorando alla mente la questione della sermocinatio, della prosopopea cui già aveva dedicato il capitolo XXV della Vita Nuova: certo il caso di Tre donne ben rappresenterebbe quella tipologia estrema di esseri inanimati cui sia dato corpo e sostanza e che fra loro dialoghino, tipologia peraltro assente dal libello, e col commento che voleva approntarle ne avrebbe appunto potuto dischiudere le ragioni profonde grazie alla prosa: Dunque, se noi vedemo che li poete hanno parlato a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, ciè che detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie e uomini; degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non senza ragione alcuna, ma con ragione la quale poi sia possibile d’aprire per prosa (Vita Nuova 25, 8).

Tempi, luoghi, condizioni, ma anche problemi di autolegittimazione poetica della Vita Nuova (libro comunque ben presente all’autore ed esplicitamente richiamato nel dare inizio a questo nuovo, tanto da far ripartire il Convivio proprio da quello) sono a quest’altezza molto lontani. Tuttavia, la questione della «figura» e del «colore retorico» («grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta» VN 25, 10), della «veste» metaforica (l’ornatus) con la quale i poeti adornano le loro rime, veste sotto la quale è coperta «la vera sentenza», è non solo ancora all’ordine del giorno, ma causa stessa del libro: Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle [canzoni], che per alcuno vedere non si può s’io non la conto, perché è nascosa sotto figura d’allegoria (Cv. I 2,17); 63

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la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente (Cv. I 1,15).

Ed è la stessa metafora (con panni per vesta) con la quale è salutata nel primo congedo la canzone, Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano per veder quel che bella donna chiude: bastin le parti nude; el dolce pome a tutta gente niega, per cui ciascun man piega. Ma s’egli avien che tu mai alcun trovi amico di virtù, ed e’ ti priega, fatti di color novi; poi gli ti mostra: el fior ch’è bel di fuori fa’ disiar negli amorosi cori,

tanto da far sospettare che anche quei «color’ novi» rispondano a ragioni di coerenza della solita immagine. Né «el fior» troverà spiegazione ‘naturalistica’, bensì ancora interna all’ambito delle definizioni di ornato retorico. Proprio il desiderio suscitato nei cuori, qui amorosi, ritorna a proposito delle canzoni e della loro efficacia nel muovere a desiderio come rivendicata abilità d’autore sempre nel primo del Convivio: «per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi» (I 1, 10), efficacia chiaramente dovuta al loro ornato, ai loro colori: «loro bellezza più che loro bontade era in grado» (I 1, 14). Ma passando dal fiore al frutto, dall’ornamento alla sostanza, Tre donne credo condivida col principio del Convivio ancora molto altro: addirittura la grande metafora alimentare applicata alla conoscenza sulla quale il libro è costruito. Il «dolce pome» che la canzone nasconde potrà essere gustato e patito grazie al pane che il libro imbandisce, pane «ch’è mestiere a così fatta vivanda», e sembra, in particolare, a questa canzone:

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La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d’amor come di virtù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritate ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente (I 1, 14-15).

Il termine vivanda, oggetto così centrale dell’operazione ‘divulgativa’ del libro (ricorre programmaticamente ben 5 volte nel primo capitolo), infatti compare in Dante per la prima volta proprio in Tre donne, e già segnato dal valore metaforico che assume nel Convivio: «‘O di pochi vivanda’». Così Drittura si rivolge ad Amore (v. 31), cibo per pochi, cui pochi accedono nelle parole della poesia e che la prosa del commento dovrà rendere ai molti degustabile. Al trattato quattordicesimo sulla Giustizia (e sull’allegoria) sarebbe seguito l’ultimo, sulla liberalità. Nella sequenza delle canzoni Tre donne precede la canzone Doglia mi reca, esattamente secondo l’ordine e l’adiacenza che ai due testi sarebbero stati riservati nel Convivio. Non solo: visto la sfasatura di una unità dovuta al primo trattato introduttivo che non espone testi, Tre donne sarebbe stata la tredicesima canzone commentata dal Convivio (e Doglia mi reca la quattordicesima e ultima) così come si trova ad essere la tredicesima canzone della sequenza. Tutta una serie di indizi soprattutto lessicali nel primo libro del Convivio10 spingono a credere che anche Doglia mi reca fosse, al momento dell’ideazione e della scrittura di quella porzione del libro, alla stregua e insieme a Tre donne, assai presente al suo autore: basti pensare come pure in questa Amore e virtù siano i due poli concettuali e morali attorno ai quali ruota il retto vivere umano, come siano strettamente interdipendenti, tanto che l’assenza dell’una determina la degenerazione dell’altro, come dall’inizio alla fine di Doglia mi reca Amore e virtù siano anche i termini più ricorrenti a costituire l’elemento di maggior riflessione e coesione del testo: su questo appunto è basata la continuità e il dialogo fra le due canzoni 13 e 14 così come le leggiamo nella sequenza. Presenti e agenti nel corpo del nuovo libro come rime che affrontano i temi più 65

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pressanti per quel Dante che, una volta impugnate le armi contro la propria città, una volta alleatosi coi suoi nemici storici, non aveva più speranza di rientro allo stesso momento in cui invece abbisognava di un credito morale e dottrinale a confutare la sua storia più recente di bando infamante e di raminga povertà: onde trovare infine dignità di ruolo e di condizione. Nasce, insomma, nello stesso momento di evoluzione del suo pensiero, dopo le due canzoni l’idea del Convivio: i tempi non solo lo consentono, ma spingono a considerare come, avvenuta la battaglia della Lastra (evento solo dopo il quale abbia un senso l’ammissione di colpa che Dante pronuncia nella canzone tredicesima), cioè più lune dopo il luglio del 1304, Dante, avviandosi a conquistare temporaneamente il porto tranquillo della Lunigiana, forse a Treviso11, scriverà le due morali che aggiungerà al suo libro di canzoni. La condizione relativamente serena, socialmente ed economicamente, che il soggiorno presso i Malaspina gli consente lo metterà di lì a poco in grado di dar corpo alla duplice riflessione intorno al genere sommo di cui aveva selezionato esattamente 14 elementi. Si dedica così, totalmente, ad un lavoro doppio e ingente intorno alle canzoni e sulle canzoni: avvia, a partire dalla serie da lui composta e organizzata, il trattato linguistico e metrico che le sublimi dal punto di vista formale e il trattato filosofico che le riscatti e innalzi dal punto di vista morale. Quel gruppo di canzoni costituiva, a quel momento, l’espressione massima del suo genio e del suo valore. L’ispirazione poetica inoltre sembrava averlo abbandonato: lavorava alla valorizzazione del suo patrimonio. Sappiamo, o ipotizziamo con larghi margini di certezza cosa intervenga ad interrompere tale saggio programma che, se concluso senza ulteriori successivi sviluppi, avrebbe fatto di Dante certo comunque il maggiore poeta del Duecento (quasi tutta la sua produzione in rima, eccettuate appunto due o tre canzoni e qualche sonetto di corrispondenza sarebbe stata relegata entro i confini di quel secolo), ma ce ne avrebbe lasciata un’immagine di involuzione –dal 66

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punto di vista letterario- piuttosto scontata, un destino intellettuale fin troppo, patristicamente e filosoficamente, prevedibile, che ben più di quanto non sia avvenuto sarebbe piaciuto a Petrarca: il poeta, reso saggio dagli eventi e dall’età, circa esattamente i fatidici quarant’anni, ispirandosi ad Agostino e Boezio lascia la rimeria d’amore, e con essa tutto un deprecabile stile di vita, e si consacra a valori filologici e filosofici di alto spessore. L’idea del poema cui pose mano e cielo e terra dovette improvvisamente spazzar via tutto quanto con la forza di un violento uragano, irrompere nella mente e nella vita di Dante come una subitanea incoercibile passione. L’urgenza della poesia sgominava d’un tratto la saggezza della prosa. E di quell’altra poesia, che aveva fino a quel momento costituito il suo vanto e il suo programma di lavoro, delle quattordici canzoni destinate al Convivio, cosa ne sarebbe stato? Cosa ne fu? Col principiare della Commedia e dunque col potersi presentare sulla scena del mondo con ben altro che rime d’amore bisognose di un maquillage allegorico, Dante, insieme alla perdita di speranza e forse anche di interesse per un rientro in Firenze dove l’infamia legata a quei lontani testi necessitava di confutazione, doveva aver maturato un certo distacco nei confronti degli eventuali misunderstandings sulla sua persona cui le canzoni potevano dar luogo. Improvvisamente, da tesoro primario su cui contare e su cui ancora dover lavorare per farne risplendere al massimo delle potenzialità il valore, portavoci del suo pensiero nei luoghi del suo peregrinare e necessariamente anche immagine dell’uomo Dante, passavano in secondo piano, destituite dal dovere di rappresentarlo nell’attualità, relegate a riflettere un vecchio modo di essere e anche di intendere la poesia e di farla: improvvisamente appartenevano al passato. In fin dei conti, forte della consapevolezza di star operando ben altro su cui contare per riscattare nel suo presente e per sempre la persona invilita dall’esilio, lui stesso poteva ben consentirsi di guardare e consentire che si guardasse a quei testi per quello che avevano storicamente significato, per il loro appartenere a fasi diverse 67

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e discontinue: accettare che si leggessero nel loro senso letterale, che emergesse dal loro complesso la primaria e originaria ispirazione d’amore. Un evento esterno favorì tale indulgenza paterna nei confronti delle figlie dilette e di sé stesso, venendosi a sommare ai mutati intenti e priorità: come un fulmine a ciel sereno il nuovo imprevedibile incontro con l’amore. E, con l’amore, ancora la poesia d’amore, la quindicesima canzone. Mi piace pensare che la passione per la bella alpigiana non abbia dettato solo la canzone montanina, ma anche quello speciale sentimento che accompagna i casi di Paolo e Francesca: nel segno dell’amore «fuor d’orto di ragione» si chiude il libro delle canzoni e si dà di fatto principio alla Commedia. Rinnovarsi a quarant’anni, sì, ma sullo slancio lungo del sentimento: condizione assoluta alla poesia e al percorso da compiere con il poema. La canzone montanina, ripensamento e summa com’è di tutta quanta l’esperienza della poesia d’amore, fino all’anacronistico recupero della fisiologia cavalcantiana, al rilancio in extremis della voce dell’antico amico come voce di colui col quale per primo di quel tipo di passione s’era ragionato, a quel punto offre la chiave di lettura di tutto il ciclo delle canzoni e diviene il testo propulsore per la sistemazione definitiva e la conclusione della sequenza. La circolarità che Amor da che convien pur ch’io mi doglia istituisce con Così nel mio parlar vogli’esser aspro stringe e riunifica sotto il segno della passione anche tutte le canzoni intermedie. La lettera al marchese Malaspina sigillerà l’opera: Occidit ergo propositum illud laudabile quo a mulieribus suis cantibus abstinebam, ac meditationes asiduas quibus tam celestia quam terrestria intuebar quasi suspectas impie relegavit.

‘Astenersi nei canti d’amore dal parlar di donne’: non potrebbe essere meglio riassunto il progetto del Convivio; e si pensi a come confermi questo richiamo il sonetto che a Cino sempre innamorato scrive Dante nella sua fase lunigianese e certo conviviale e che di quel progetto è altra esplicita espressione: 68

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Io mi credea del tutto esser partito da queste nostre rime, messer Cino, ché si conviene omai altro camino alla mia nave più lungi dal lito.

La «nave più lungi dal lito», metafora certo tradizionale per la vita, richiama anche la condizione di sbandato denunciata dalle parole sopra citate del terzo capitolo del libro: «io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti»… Al marchese, presso il quale aveva plausibilmente preso corpo il ‘lodevole proposito’, «propositum illud laudabile», di non mai più scrivere d’amore per donne spiegava così il cambiamento di rotta della sua navicella, il suo nuovo precipitarsi al largo nei flutti dell’amore, della vita, della poesia; e spiegava forse anche una temporanea sospensione di quelle «meditazioni nelle quali contemplava le cose del cielo e della terra» che, se diamo retta a Boccaccio, presso la sua corte, Moroello stesso adiuvante, doveva aver iniziato o ripreso con i cartoni fiorentini della Commedia. A Moroello dunque, come persona a giorno degli importanti lavori in corso che avevano visto la luce o il rinnovato impulso grazie alla sua ospitalità, inviava, quasi a compensarne le diverse attese, quanto restava di un lodevole proposito: il primo vero canzoniere d’amore.

NOTE 1

Così in Barbi 1968: xvi-xix.

2

Libro che credo di aver individuato grazie alla recente edizione critica delle Rime curata da De Robertis: v. Tonelli (2006).

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La citazione è dalla seconda redazione (v. il Trattatello nelle sue due versioni in Boccaccio 1965), ma senza significative variazioni rispetto alla prima.

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«Fama mala», come consiglia di interpretare il termine Marigo, riportato da Busnelli-Vandelli e da Vasoli, ad loc.

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Mi chiedo come, in un saggio comunque importante (Distanza testuale e cronologica del trattato IV?), Maria Corti (1983) abbia potuto sostenere, nonostante tutte le citate inequivocabili dichiarazioni dantesche, che Le dolci rime fu scritta solo dopo e a distanza rispetto ai primi tre trattati del Convivio: ritengo piuttosto (come ho segnalato nello studio sopra citato) che fosse già scritta ancor prima degli ultimi versi di Amor che nella mente mi ragiona, il cui congedo appunto è inteso a giustificare l’avvio della canzone che la segue immediatamente nella sequenza delle ‘distese’. 6

A proposito del problema dell’originaria allegoricità delle due prime canzoni, nonostante l’importante saggio di Enrico Fenzi (2002), per la cui tesi di fondo, comunque, non è poi così decisiva l’intenzione prima che presiedeva alla scrittura («La doppia lettura è frutto di un percorso: il suo fondamento e la sua possibilità stessa stanno, in ultima analisi, nell’esperienza che il soggetto fa di se stesso, o meglio, dell’esperienza della ‘differenza’ attraverso la quale il pensiero di sé può porsi come tale») ritengo con Barbi (ancorché lo stesso fosse convinto dello statuto allegorico di queste) «che per i bisogni e i propositi coi quali [D.] s’accinse a scrivere il Convivio adattasse a nuove invenzioni e a nuovi fini quello che aveva già pensato e scritto con intendimenti diversi» (1968: xxxv) e, più nettamente, dopo Marti, con Pasquini che le canzoni, «seppure scritte in origine per situazioni amorose», sono e sarebbero state «convertite grazie al commento in grandi temi di filosofia morale» grazie ad «una straordinaria operazione di riciclaggio» (2006: 45). 7

Non mi risulta francamente chiaro il motivo per cui si indaghi fra testi positivamente dottrinali o più facilmente allegorizzabili per individuare candidature plausibili alla trattazione conviviale: così sia Barbi (con Poscia ch’Amor) sia Contini (che aggiunge Amor, che movi), ripresi poi dai commentatori di Convivio e Rime. Queste posizioni si reggono solo negando credito, oltre che alle esplicite dichiarazioni dantesche, anche ai dati inoppugnabili intorno alla programmata interpretazione di Tre donne e di Doglia mi reca. 8

Così leggo i vv. 99-100 del testo, come suggerito, in un seminario tenutosi a Siena il 23 marzo 2007, da Claudio Giunta che ringrazio: la conclusione sentenziosa del congedo (e, io credo, in un primo tempo di tutta la canzone), con el fior soggetto la cui bellezza induce al desiderio, sarebbe preceduta dal segno interpuntivo dei due punti (“:”). 9

Una volta di più si dimostra un fondato arricchimento la lectio difficilior promossa a testo da De Robertis nella sua edizione delle Rime contro il vulgato banalizzante «povera, vedi, a’ panni e a cintura» (v. 36).

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Elementi che mi propongo di illustrare nel prossimo seminario del Gruppo Tenzone programmato proprio per studiare Doglia mi reca. 11

Così suggerisce U. Carpi, (2004).

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